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Sezione di Arte

LA STOFFA DEL PITTORE

o l’arte di perdersi tra ricami e fili dorati.

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Figura 1

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Arte e moda si sono spesso fronteggiate, guardate e influenzate a vicenda. Se gli artisti sono stati affascinati dall’abbigliamento, al quale hanno guardato per donare realismo ai loro dipinti, esso è stato importante anche per gli storici dell’arte che grazie all’analisi degli abiti presenti in un’opera, riescono a dare una datazione. Per secoli gli artisti hanno rappresentato in maniera molto dettagliata gli abiti indossati dai personaggi, più o meno famosi, che si trovavano a ritrarre e questo ha permesso di avere testimonianza visiva non solo di gestualità, posture e gusti, ma anche di soluzioni sartoriali, materiali e decorazioni, opera di anonimi artigiani. Inoltre, gli artisti hanno partecipato attivamente con la realizzazione di disegni per tessuti, costumi per le feste di corte, ricami e merletti. Proprio per quanto riguarda questi ultimi, i ritratti di Antoon Van Dyck (Anversa, 1599 – Londra, 1641) sono delle importantissime testimonianze che ci documentano le diverse tecniche adottate in quel tempo, quando i merletti erano realizzati ad ago e fuselli. Entrato giovanissimo nella bottega di Pieter Paul Rubens già in qualità di pittore professionista [1], Van Dyck seppe distinguersi fin da subito all’interno del mercato artistico fiammingo, per poi lasciare Anversa e fare fortuna sia in Italia che a Londra, specializzandosi in particolare nell’arte del ritratto. Proprio nel contesto di questo genere artistico il pittore diede sempre una notevole importanza all’abito indossato dai suoi soggetti, riuscendo a tradurre in pennellate vibranti le stoffe, i ricami, la magnificenza del merletto e dei materiali preziosi, attraverso una cura estrema del dettaglio. Del resto, un abito prezioso ed elaborato fatto di olii, pigmenti e tela possedeva la duplice funzione di esaltare, da una parte, la ricchezza e raffinatezza del possessore dell’abito vero, in stoffa, e dall’altra, il virtuosismo dell’artista che aveva saputo riprodurlo con tanta aderenza al vero.  Nel racconto della vita di Van Dyck scritto da Giovanni Bellori nel 1672 si legge che l’artista possedeva una naturale propensione e sensibilità per i dettagli e gli accessori raffinati, ai quali faceva molta attenzione anche per la propria immagine: 


Figura 

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“Erano le sue maniere signorili più tosto che di uomo privato, e risplendeva in ricco portamento di abito e divise, perché assuefatto nella scuola del Rubens con uomini nobili, ed essendo egli per natura elevato e desideroso di farsi illustre, perciò oltre li drappi si adornava il capo con penne e cintigli, portava collane d'oro attraversate al petto, con seguito di servitori.”  [2] (Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, 1672)

Figura 2

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Inoltre, sempre attraverso le parole del Bellori sembra possibile collegare questa sua attitudine all’attività di tessitrice della madre, attraverso la quale l’autore sembra creare un nesso simbolico con la pittura: “la madre s'impiegava nel ricamo e dipingeva con l'ago, formando paesi e figure con opera di punto.” [3]
Se Van Dyck, grazie alla sua sensibilità, ha saputo trasformare dei capolavori di sartoria in capolavori dipinti, oggi lo studio di questi ultimi e delle tecniche sartoriali dell’epoca ha permesso l’operazione inversa: a partire dalla scrupolosa osservazione dei ritratti di Caterina Balbi-Durazzo (1624) e Paolina Adorno Brignole-Sale, la sartoria artigiana "FERVEN" di Fernanda Venturini di Lavagna  ha realizzato, per conto del Gruppo di Danza Rinascimentale  "Le Gratie d'Amore” [4] la ricostruzione degli abiti delle due dame, così come appaiono nei dipinti di Van Dyck. Questi ultimi vennero realizzati durante il suo periodo genovese, ossia tra il 1621 e il 1627, quando, seguendo le orme di Rubens e in groppa al cavallo che quest’ultimo gli aveva donato [5], il giovane artista si diresse in Italia in cerca di nuove committenze e affermazione personale. A Genova egli trovò un’aristocrazia eterogenea e non meno desiderosa di affermarsi, che utilizzò la committenza artistica e, in special modo, la committenza di ritratti per proporre e consolidare un’immagine ricca e forte di sé.  In questa sede, attraverso l’analisi, in un primo momento, dei due dipinti del Seicento e, in un secondo momento, dell’impresa sartoriale moderna, si cercherà di portare avanti l’antica tradizione di fecondi scambi tra pittura e sartoria, accennando alla complessità degli aspetti e delle implicazioni ad essa intimamente connessi.  

   
IL RITRATTO DI CATERINA BALBI DURAZZO

 

 

 

 

 

 

 

 

Anton Van Dyck (Anversa, 1599 - Londra, 1641)
1624 olio su tela 220,2 x 149 cm Genova, Palazzo Reale, Sala delle Udienze (inv. 802)
Provenienza: 1624 Gerolamo Durazzo; 1824 Casa Savoia; 1919 Stato italiano Restauro: Nino Silvestri Restauri s.n.c., Genova; direzione di Luca Leoncini (direttore delle Collezioni, Palazzo Reale di Genova).

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Figura 3

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La leggera tonalità dorata diffusa sull’intera superficie del dipinto contribuisce alla resa di un’atmosfera elegante e raffinata, magnifici attributi dell’effigie di Caterina Balbi Durazzo che tela e materia cromatica hanno tramandato nei secoli. La giovane Balbi è raffigurata in piedi, rivolta verso lo spettatore nella tipica posa “a tre quarti” [6], in quello che sembra essere un ambiente esterno, se si considerano i sottili ciuffi d’erba che spuntano dall’angolo in basso a sinistra, la vasca in pietra scolpita e che riceve l’acqua da una bocca a forma di delfino e infine il mare, che si apre sullo sfondo. Contrasta in parte con questa particolare cornice il drappo rosso che cala dall’angolo superiore sinistro, elemento tuttavia quasi imprescindibile nei ritratti nobiliari dell’epoca, simbolo di ricchezza e allo stesso tempo vago suggerimento di quel carattere teatrale che contraddistingue ogni presentazione sociale di sé.  Non si tratta però di un dipinto fatto per essere ammirato da solo. Quando venne realizzato, infatti, il progetto comprendeva anche un altro ritratto, quello di Marcello Durazzo, marito di Caterina Balbi, ed oggi conservato alla Ca’ d’Oro di Venezia. I due ritratti furono commissionati da Agostino Durazzo, padre di Marcello, in occasione delle nozze. 

La notizia della committenza a Van Dyck arriva direttamente dal libro dei conti della famiglia, nel quale il 31 dicembre 1624 venne annotata la spesa di 373 lire genovesi per “dui ritratti di Marcello e Catterina con li stellari di noce [7]”.

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Provenienti entrambi da due famiglie di nuova nobiltà, i Balbi e i Durazzo, Caterina e Marcello si inseriscono pienamente in un contesto di unioni matrimoniali finalizzate a suggellare l’avanzata economica di queste famiglie da poco assurte al titolo nobiliare tramite le loro attività e i commerci. Mentre i fratelli Balbi si dedicavano al commercio con le Fiandre, creando una società ad Anversa [8], i Durazzo erano grandi commercianti di seta. Tra le due famiglie vennero celebrati ben quattro matrimoni. Marcello morì solo nove anni dopo il matrimonio, lasciando Caterina da sola a mandare avanti gli affari di famiglia e a crescere i figli dei suoi fratelli, nel frattempo mandati in esilio poiché accusati di congiura ai danni della Repubblica (1648) [9]; a lei rimasero in usufrutto anche i due ritratti en pendant, che inizialmente dovevano essere esposti nel suo palazzo di via Balbi 1, dove risiedeva prima di spostarsi nella sontuosa dimora del civico 10 della stessa via, fatta costruire dal fratello Stefano e successivamente acquistata dai Durazzo. Si tratta di quello che oggi viene chiamato Palazzo Reale, poiché acquisito nel 1824 da Carlo Felice di Savoia.

Figura 4

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Alla morte di Caterina, intorno al 1690, i dipinti tornarono nella collezione della famiglia Durazzo e rimasero insieme a Palazzo Reale fino alla fine dell’Ottocento, quando il ritratto di Marcello venne comprato dal Barone Giorgio Franchetti ed entrò nella galleria della Ca’ d’Oro di Venezia, dove si trova tutt’ora; il ritratto di Caterina, invece, venne acquisito dai Savoia insieme al resto del palazzo, senza quindi mai lasciare la sua città d’origine [10]. L’occasione matrimoniale dei due ritratti è sottolineata dalla presenza di un piccolo garofano appeso all’orecchio sinistro di Caterina, che con il suo rosso acceso mette in risalto il colore più chiaro del volto. Infatti, il garofano è spesso presente nei ritratti femminili fiamminghi e olandesi già a partire dal Quattrocento – tenuto in mano, inserito nel vestito, tra i capelli o, come in questo caso, all’orecchio – in quanto simbolo d’amore; la sua origine è però più antica: essa risale all’iconografia cristiana della Madonna col Bambino, nella quale il fiore veniva usato come simbolo della Passione. La dolcezza che scaturisce da questa configurazione del volto della donna, contrasta con il suo sguardo determinato e deciso, che interroga direttamente lo spettatore. Inoltre, mentre con la mano destra sfiora leggermente il bordo della vasca in pietra, con la sinistra tiene un ventaglio chiuso, ulteriore simbolo di matrimonio.   Con la stessa cura e attenzione, Van Dyck restituisce in pittura la verità materica dell’abito di Caterina, in tutta la sua eleganza e raffinatezza: “il sontuoso abito alla spagnola è caratterizzato da gorgiera di pizzo a lattuga, corpetto a punta, grandi maniche pendenti, maniche al braccio rifinite da voluminosi manicelli anch’essi di pizzo, ampia veste sorretta da intelaiatura. [11]”. Significativamente, l’artista ha usato un impasto cromatico molto spesso per la rappresentazione dei ricami e delle decorazioni del vestito, mentre per il volto e il resto della superficie ha usato delle velature molto sottili. Del resto, l’abito possedeva un significato ed un ruolo sociale quasi quanto il volto della persona che lo indossava: solo un genio come Van Dyck, però, poteva permettersi di riprodurre con la stessa sensibilità e verosimiglianza la complessa personalità del soggetto e i sottili ricami dorati sulla stoffa. 


IL RITRATTO DI PAOLINA ADORNO BRIGNOLE-SALE
 

Anton_Van_Dyck_-_Paolina_Adorno_Brignole

 

 

 

 

 

 

 

 

Anton Van Dyck (Anversa, 1599 - Londra, 1641)
 
1627 Olio su tela, cm. 286 x 151 Genova, Musei di Strada Nuova - Palazzo Rosso, inv. PR 51, Sala 19 - Secondo piano nobile
Provenienza: dal 1874 nelle collezioni per donazione di Maria Brignole - Sale De Ferrari, duchessa di Galliera

Figura 5

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“Trattenevasi egli in quella città con grandissimo guadagno, facendo ritratti di quasi tutti i nobili e senatori. Dipinse li signori della famiglia Raggi, il marchese Giulio Brignole celebre poeta disposto a cavallo, e colorì l'altro ritratto della signora marchesa sua consorte, in cui si obligò la natura, perpetuando la sua bellezza.”    [12]


Queste sono alcune delle parole che Giovanni Bellori utilizza per descrivere il soggiorno di Antoon Van Dyck a Genova. In particolare, egli menziona i ritratti del marchese “Giulio Brignole” e di sua moglie, quest’ultimo riconducibile al dipinto in questione. Infatti, si tratta anche in questo caso di un ritratto en pendant  realizzato insieme al ritratto equestre del marito Anton Giulio Brignole-Sale e in occasione della stessa commissione della quale fa parte anche il ritratto di sua madre e sua sorella, Geronima Sale-Brignole e Maria Aurelia.  
 

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Ritratto di Geronima Sale Brignole con l

Paolina è rappresentata in piedi, di tre quarti e a figura intera all’interno di un palazzo monumentale, del quale si possono riconoscere due colonne ad angolo ed una scalinata che si svolge verso il basso nel primissimo piano. Un tappeto rosso scarlatto richiama come in un’eco cromatica il rivestimento della seggiola sulla sinistra e il drappo rosso che sembra srotolarsi dall’alto. Sullo sfondo sono riconoscibili un arco e una balaustra, che indicano quindi la presenza di un’apertura architettonica verso l’esterno. La figura indossa un elegante abito blu da parata, adornato da pesanti ricami che il pittore riproduce con fitti segni bianchi ed oro; una sottile velatura di colore blu riproduce il tessuto, mentre un impasto più corposo giallo e bianco evoca l’oro dei ricami [13]; i capelli sono raccolti in una cuffia ornata di perle e piume di pavone. Tredici righe dorate arricchiscono il fondo del vestito, mentre il lungo collo e il camuffo nelle maniche sono ornati con il filo di lino lavorato secondo le caratteristiche dell’epoca. Si tratta del ritratto femminile più grande di tutti quelli realizzati dall’artista durante il suo soggiorno genovese e una delle ultime committenze poco prima del rientro ad Anversa nel 1627. Un piccolo garofano rosso è tenuto in mano dalla figura, identificandola quindi come moglie del soggetto maschile del ritratto en pendant; inoltre, il fiore è stato interpretato anche come simbolo della bellezza pronta a sfiorire con gli anni [14]. Anche il pappagallo, appoggiato ad un braccio della sedia, sembra avere un significato allegorico analogo, certamente compreso dagli spettatori contemporanei all’artista: delle piume sono cadute sul cuscino del sedile, a indicare il passaggio del tempo. Del resto, al tempo del ritratto Paolina aveva circa vent’anni ed è quindi plausibile la volontà dell’artista, formatosi in una cultura amante delle allegorie e dei significati nascosti come quella fiamminga, di richiamare l’attenzione dell’osservatore sulla sua giovinezza, paradossalmente da sempre identificata attraverso vari simboli di vanitas. Questa serie di ritratti venne commissionata nel 1627 da Gio. Francesco I Brignole-Sale, capostipite della famiglia, che sposò Geronima Sale consentendo, attraverso la sua consistente dote, l’ascesa sociale della famiglia. Il prestigio famigliare crebbe esponenzialmente e venne alimentato e rappresentato da numerose
Figura 7 Figura 6
committenze promosse da Gio. Francesco, finché egli venne eletto doge della Repubblica nel 1635. I tre ritratti in questione vanno dunque letti in quest’ottica di auto-affermazione e presentazione. Fu il figlio Anton Giulio a portare avanti l’opera auto-celebrativa del padre e dieci anni dopo la morte di quest’ultimo (avvenuta nel 1637), egli decise di prendere posto tra le grandi famiglie aristocratiche ormai residenti in Strada Nuova, all’interno di un maestoso palazzo. Fu così che, facendo chiudere i vicoli che separavano tre edifici di sua proprietà in modo da erigere una nuova e imponente struttura sulla stessa area, Anton Giulio pose le basi per la costruzione di Palazzo Rosso, intrapresa a partire dal 1670 dai suoi figli. 

 LE GRATIE D’AMORE 

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Nell’ambito della ricostruzione dei due abiti femminili “alla spagnola” che compaiono all’interno dei ritratti appena presi in esame, le soluzioni adottate rispecchiano le tecniche in uso nel primo quarto del Seicento a Genova. Il dominio spagnolo, nella seconda metà del Cinquecento, si manifestava in Europa dal punto di vista sia  politico che culturale, influenzando anche la moda, in particolare attraverso le nuove prescrizioni della Controriforma cattolica. Così, la moderazione dei “costumi” non riguardava solo quelli morali, ma anche quelli di tessuto. Le dame dovevano essere coperte il più possibile e le loro forme nascoste, per non dire annullate dall’abito. Le scollature, le trasparenze e gli strascichi rinascimentali vengono sostituiti da corsetti in legno o metallo, che limitavano nei movimenti e stringevano la vita abbassando visivamente il suo livello fino ai fianchi. 

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In compenso, però, ricchissimi ricami in filo d’oro, perle e pietre preziose rendevano i loro abiti delle vere opere d’arte; inoltre, la complessa costruzione dell'abito prevedeva elementi distinti da comporre: il "rebusto" o corpetto, le due differenti tipologie di maniche – quelle che “non s’investeno” (indossano) e quelle che "s'investino" [15] (queste ultime a loro volta separate oppure parte integrante del "giupone") – le alette a copertura dei legacci alle spalle a cui sono fissate le maniche, la gonna o “faldetta” e il “verdugado” o “verdugale”, un sottogonna irrigidito da funicelle che conferiva il tipico aspetto conico comune all'epoca dei ritratti di Van Dyck [16]. 

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Tra Seicento e Settecento si diffonderà l’uso di una gonna aperta davanti per creare un contrasto cromatico e materico con una seconda gonna posta al di sotto.  Imponenti e ricche gorgiere (colletti inamidati più o meno spessi) erano indossate sia dagli uomini che dalle donne di alto rango, per separare nettamente la testa, sede della mente, dal resto del corpo, sede delle pulsioni. I capelli non erano mai tenuti sciolti, ma sempre raccolti in complesse acconciature che potevano essere arricchite, anch’esse, da perle e gioielli.

Rubens, maestro del ritratto nella Genova del Siglo de Oro

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Rubens

Nelle sue molteplici declinazioni formali, compositive e concettuali (di parata, ufficiale, privato, borghese, di gruppo, autoritratto) a partire dal Seicento il genere del ritratto presenta una complessità e una ricchezza di varianti ben superiori al pur glorioso modello cinquecentesco, interpretando in modo nuovo la domanda di un pubblico più vasto e le nuove esigenze di carattere ideologico e morale della società del tempo.

La fama acquisita nel corso del Cinquecento presso le maggiori corti europee dai ritratti realizzati da artisti italiani come Tiziano, Moroni e Bronzino – solo per citarne alcuni – pose le basi per un’amplissima diffusione della tipologia artistica a livello europeo nel secolo successivo, imponendo la sua presenza all’interno delle collezioni private nobili e alto-borghesi e arrivando a meritare una menzione particolare all’interno dei manuali teorici sull’arte.

Così, il ritratto seicentesco, o barocco, si affermò come mezzo principale di presentazione e celebrazione personale nell’ampio e variegato contesto dell’alta società europea, fissando e tramandando non solo le caratteristiche fisiche dei soggetti, ma anche i loro valori morali e soprattutto il loro ruolo e status sociale. A tale scopo, l’attenzione dell’artista doveva volgersi tanto ai caratteri fisionomici del soggetto, riprodotti in modo tale da comunicare all’osservatore anche il suo animo, quanto alla rappresentazione del costume, del contesto spaziale in cui inserire la figura, e di tutto quel corredo di attributi utili ad una più puntuale individuazione del suo rango o dell’attività professionale in cui il soggetto stesso si riconosceva ed era riconosciuto dalla società a lui contemporanea.

Grandissimi committenti di ritratti furono, in particolare, le nobili famiglie genovesi, come gli Spinola, i Balbi, i Durazzo, i Doria, o ancora i Pallavicini, mosse dall’urgenza auto-celebrativa derivata da una singolare e fortunata congiunzione di situazioni favorevoli per Genova ed il suo patriziato. A partire dalla seconda metà del Cinquecento e per tutta la prima metà del Seicento, infatti, la città visse uno dei periodi più floridi della sua storia, chiamato anche “Siglo de los Genoveses” (“il secolo dei genovesi”): con questa espressione, derivata dalla storia economica, si designa “la fase di preminenza degli uomini d’affari della Repubblica di Genova nel servizio finanziario degli Asburgo di Spagna” (1). Si tratta di un lungo periodo di grande prosperità che si estende all’incirca dalla salita al potere di Carlo V (1519-1556) alla pace di Vestfalia del 1648. La Repubblica di Genova seppe in questi anni rendersi fondamentale per la corona spagnola, prestando il proprio denaro – attività dalla quale ricavava interessi elevatissimi – il proprio porto – postazione sicura per il transito delle milizie, delle armi e del denaro stesso, dalla Penisola Iberica ai Paesi Bassi del Sud – e anche i propri “signori della guerra” (2), come Andrea Doria e Ambrogio Spinola, per la gestione di alcuni dei principali conflitti intrapresi dall’impero spagnolo.

In cambio, Genova si arricchì grandemente, trasformandosi in una metropoli che nobili ed esponenti dell’alta borghesia si impegnarono ad adornare con sontuose dimore, ville suburbane e grandi pale d’altare per le chiese cittadine.

 

Viene da sé che, in questo turbinio di eventi, l’alta società genovese, dai giovani rampolli alle personalità più affermate, desiderasse manifestare tutta la propria opulenza e magnificenza perennizzando la propria effigie all’interno di sontuosi ritratti.

Monumentali sfondi architettonici, abiti mozzafiato e preziosissimi gioielli erano elementi quasi imprescindibili per queste raffigurazioni, che venivano orgogliosamente mostrate nelle diverse stanze delle ricche dimore genovesi. Ovviamente, anche la scelta dell’artista era importante. Fu così che i soggiorni a Genova di Pieter Paul Rubens (a più riprese tra il 1604 e il 1607) e del suo allievo Antoon van Dyck (tra il 1621 e il 1627) divennero delle straordinarie occasioni di committenza, traducendosi in dipinti altrettanto straordinari. Possedere un ritratto di mano di Rubens e di Van Dyck divenne ben presto una vera e propria moda alla quale non ci si poteva sottrarre. 

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Uno dei risultati emblematici di questo clima così effervescente è il ritratto della Marchesa Brigida Spinola Doria, dipinto da Rubens nel 1606 ed oggi conservato alla National Gallery of Art di Washington. La protagonista del ritratto proveniva da una delle famiglie più antiche e importanti di Genova, quella degli Spinola, insieme ai Grimaldi, ai Doria e ai Fieschi di Lavagna. Fu probabilmente il neo-sposo della Marchesa, Giacomo Massimiliano Doria, a commissionare il dipinto per celebrare le nozze avvenute l’anno prima, nel 1605, quando lei aveva 21 anni.

Rubens la ritrasse vestita di un meraviglioso abito di seta bianca, ornato di preziosi dettagli in oro e smalti. Una maestosa gorgiera le incornicia il giovane e luminosissimo volto e i cappelli ricci sono raccolti in una altrettanto ricca acconciatura adornata di perle. Anche il contesto spaziale e architettonico alle sue spalle contribuisce alla resa di un’immagine di estrema eleganza e raffinatezza: un drappo color porpora scende a terra incorniciando la figura come un’aura, creando un potente contrasto cromatico col bianco dell’abito, mentre le pareti in marmo e pietra rappresentate in scorcio ricordano la monumentalità dei sontuosi palazzi genovesi del tempo.

Eccezionalmente, è giunto fino ai nostri giorni il disegno preparatorio realizzato dall’artista per questo ritratto, oggi conservato alla Morgan Library di New York. Oltre al suo valore artistico intrinseco, il bozzetto in questione costituisce una preziosa testimonianza della pratica adottata dall’artista in sede preparatoria. Infatti, osservando la zona relativa al tendaggio, alle spalle della figura della Marchesa, e quella del cornicione, 

sulla sinistra della composizione, si possono notare delle indicazioni, poste dall’artista stesso, per guidare la colorazione dell’opera finale: mentre sulla tenda si può leggere la scritta “Root”, ossia “rosso” in fiammingo, sul cornicione e sotto il primo capitello leggiamo “gout/goudt”, ossia “oro”. Purtroppo, il dipinto venne tagliato nel corso dell’Ottocento e ridotto sia in altezza che in larghezza, probabilmente per adattare le sue dimensioni ad un nuovo spazio (e quindi ad una nuova cornice), eliminando così la parte bassa relativa ai piedi della figura e quella a sinistra, in cui avrebbe dovuto trovarsi il resto del cornicione e la finale apertura verso l’esterno.

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Collaboratore Sebastian Victor Vug

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NOTE

- 1. Doria, G., “Un pittore fiammingo nel secolo dei genovesi”, in Rubens e Genova, 1978, Genova, p. 13

- 2. Orlando, Anna, (a cura di), Van Dyck e i suoi amici. Fiamminghi a Genova 1600-1640, catalogo della mostra (Genova, Palazzo della Meridiana, 9 febbraio – 10 giugno 2018), 2018, Sagep editori, Genova, p. 15

 

BIBLIOGRAFIA

- Van Dyck a Genova Electa a cura di Susan J.Barnes Piero Boccardo Clario di Fabio Laura Tagliaferro

- Bora, Giulio, Fiaccadori, Gianfranco, Negri, Antonello, Nova, Alessandro (a cura di), “I luoghi dell’arte. Dall’età della Maniera al Rococò.”, vol. 4, 2003, Electa e B. Mondadori, Milano

- Orlando, Anna, (a cura di), Van Dyck e i suoi amici. Fiamminghi a Genova 1600-1640, catalogo della mostra (Genova, Palazzo della Meridiana, 9 febbraio – 10 giugno 2018), 2018, Sagep editori, Genova

 

SITOGRAFIA

- https://www.nga.gov/collection/art-object-page.46159.html, ultima consultazione 10/11/2018

 

IMMAGINI

- Figura 2: Pieter Paul Rubens, Marchesa Brigida Spinola Doria, 1606, olio su tela, 152,5 x 99 cm, National Gallery of Art, Washington

- Figura 3: Pieter Paul Rubens, Studio per il ritratto della Marchesa Brigida Spinola Doria, penna, inchiostro marrone e acquarello, 315 x 178 mm, The Morgan Library and Museum, New York

 

La figura di Maria nel Giudizio Universale della Cappella Sistina

Cappella Sistina
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“Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile formare un’idea apprezzabile di cosa un uomo sia in grado di ottenere”.

(Goethe)

Era il 31 ottobre del 1541 quando l’affresco del Giudizio Universale, che si staglia sulla parete di fondo della Cappella Sistina [1], veniva presentato a Papa Paolo III Farnese (1534-1549)  e alla sua corte, destando non solo ammirazione ma anche scalpore per quei corpi nudi che si muovevano nello spazio. Il primo incarico venne affidato a Michelangelo da Papa Clemente VII Medici (1523-1534) che però morì qualche anno dopo, l’opera fu completata quindi sotto il pontificato di Papa Paolo III Farnese. È noto come l’opera abbia impegnato Michelangelo, ormai sessantenne, per molti anni, otto per l’esattezza, dal 1533 al 1541. Il lavoro iniziò nel 1536 dopo una lunga e tormentata fase preparatoria come ci testimoniano i numerosi disegni tra i quali quello conservato al Museo Bonnat di Bayonne (1533-1535 ca.), (fig.1) quello di  Casa Buonarroti a Firenze (fig.2) e quello del British Museum di Londra (1535-1536).  

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Figura 1Studio per il “Giudizio Universale” (1533-1535), Bayonne, Musée Bonnat.

Figura 2 Studio per il “Giudizio Universale”, Firenze, Casa Buonarroti .

Sorprendentemente, un recente studio ha dimostrato come nella parte posteriore del velo della Vergine sia presente un volto maschile. Prima, però, è necessario descrivere rapidamente la struttura del Giudizio Universale.

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La lettura dell’immagine si può suddividere in 4 fasce.

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Nella prima troviamo due lunette semicircolari nelle quali gli angeli apteri si muovono attorno agli strumenti della passione di Cristo, nella lunetta di destra troviamo la colonna della Flagellazione, la scala e l’asta con la spugna di aceto mentre in quella di sinistra vediamo la Croce sulla quale Cristo fu crocifisso, una semplice corona di spine. Se la croce e la colonna rappresentano gli strumenti della sofferenza di Cristo, la corona di spine e l’asta con la spugna sono le armi che testimoniano la sua vittoria sulla morte. I chiodi vengono soltanto evocati da un angelo biondo che prende all’altezza del polso la mano del compagno come ad enfatizzare il punto in cui Cristo verrà inchiodato durante la crocifissione. Le due lunette possono essere intese come una sorta di apertura del Giudizio Universale affinché il riguardante possa ricordare come Cristo ha superato queste sofferenze e le ha vinte. (fig.3)

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​Figura 3, Lunette del Giudizio Universale, particolare.

La seconda fascia è quella che presenta Gesù, Maria e alcuni santi, fra cui i più riconoscibili sono San Pietro, San Paolo, San Lorenzo, San Bartolomeo. San Pietro viene  rappresentato in maniera tradizionale con le due chiavi in mano, una d’argento e una d’oro che indicano rispettivamente la sua potestà terrena e la sua autorità nel mondo celeste. Dietro di lui, San Paolo è colto in un gesto di sorpresa e timore, mentre gli altri santi sono rappresentati con l’attributo del loro martirio; Simone con la sega, Santa Caterina d’Alessandria con la ruota dentata mentre dietro di lei vediamo San Biagio con i pettini chiodati, poi San Sebastiano con le frecce, San Lorenzo con la graticola e San Bartolomeo con la pelle nella quale è ravvisabile un autoritratto di Michelangelo stesso. Nella composizione la figura di Cristo è spostata leggermente a sinistra e sembra appena sollevata da quello che è il suo seggio di nuvole, il corpo è in torsione, il braccio destro alzato in un gesto di condanna definitiva per i dannati mentre con la mano sinistra indica la ferita sul costato in un gesto di dolcezza e accoglienza. Il volto è di un Cristo giovane e senza barba appena accennato. (figg.4-5)

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Figura 4 Cristo, particolare.

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​Figura 5 San Pietro, particolare.

Nella terza fascia troviamo, al centro gli angeli tubicini che con le loro lunghe tube annunciano la Resurrezione dei morti mentre ai lati trovano posto i risorti che salgono al Paradiso e i dannati che precipitano all’Inferno. (fig.6)

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Figura 6 gli Angeli tubicini, particolare.

Nell’ultima fascia il tradizionale tema del combattimento degli angeli contro i demoni per il possesso dei corpi di coloro che risorgono è rappresentato da Michelangelo con toni drammatici; vediamo la barca di Caronte che picchia con un remo i dannati e li spinge fuori dalla barca mentre a destra in basso è raffigurato Minosse avvolto nelle spire di un serpente. (figg.7-8)

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Figura 7 Inferno.

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​Figura 8 Caronte, particolare.

In tutto questo turbinio di personaggi a destare curiosità è sicuramente la figura della Vergine che è stata concepita da Michelangelo in maniera innovativa sia per la posizione, poiché è l’unica figura che si inserisce nell’aura dorata, sia perché  siede sulla coltre di nuvole accanto al Figlio, rimanendo sullo stesso piano. Maria siede composta e assorta ma la sua postura è insolita poiché è ritratta seduta con le gambe intrecciate, con il piede sinistro sovrapposto al destro, la posa contorta, le ginocchia protese verso il Figlio ma con il fianco rivolto al lato opposto. Allo stesso modo anche le braccia sono intrecciate, con la mano destra trattiene il velo bianco che le copre il capo mentre la mano sinistra ha il pollice ripiegato all’interno del palmo, l’indice appoggiato sulla guancia e il medio a sfiorare il mento come ad indicare il numero due, assumendo così una posa meditativa del tutto nuova poiché la Vergine è tradizionalmente ritratta con le mani intrecciate sul petto. Rivolge lo sguardo non nella direzione del Figlio ma nella direzione opposta, verso gli eletti, verso coloro che piano piano stanno salendo al Cielo ed è completamente ammantata, fatta eccezione per volto, piedi e mani che sono scoperti. I colori sono quelli consueti dell’iconografia mariana, l’azzurro per il manto che mostra sulla sinistra un risvolto di colore verde che è il colore della Speranza e il carminio rosato per l’abito. Il volto, dall’ovale affilato, i lineamenti sottili, la fronte ampia e il mento piccolo e rotondo è il volto di una donna adulta ed è circondato dalla stoffa del velo bianco che forma sul mento un soggolo mentre i capelli sono nascosti e trattenuti sulla fronte da un’acconciatura rosea leggermente bombata, forse a ricordare  i dettami di San Paolo che nella prima lettera ai Corinzi interpreta il velo come allusione alla consacrazione e alla Verginità della monacazione. Come ha dimostrato un recente studio, il velo ha una forma  particolarissima poiché nella parte posteriore forma un rigonfiamento ben visibile sullo sfondo azzurro; questo rigonfiamento forma un volto dalla fronte bombata, il naso ricurvo, il mento appena accennato e sembra leggermente girato verso il Cristo. Un profilo maschile che rende la Vergine “bicipite” e che ne duplica l’immagine assorta e malinconica. Il tema del doppio volto nel Rinascimento è un tema ricorrente che allude alla virtù umanistica per eccellenza, la Prudenza, che viene spesso raffigurata come una giovane donna che si guarda allo specchio e con un secondo volto di uomo anziano e barbuto tra i capelli. La figura della Prudenza dal duplice volto era quindi un’immagine familiare agli artisti rinascimentali e Michelangelo ha pensato di dotare la Vergine di questo attributo. Perciò se attraverso la postura e la gestualità di Maria Michelangelo ha voluto evocare le virtù di modestia, castità e riserbo consuete della Vergine, con il doppio volto ha voluto attribuirle il ruolo di porta del Cielo poiché il doppio volto, attributo consueto del dio Giano [2], indica per traslato il concetto di soglia, di passaggio, di porta. La Vergine è quindi passaggio, porta, sia quando attraverso le preghiere che il fedele le rivolge questi si avvicina al Cielo, sia quando il suo corpo divenuto veicolo dell’incarnazione di Cristo ha fatto di lei una porta, un passaggio dal divino all’umano, dal cielo alla terra. Perciò se l’indice e il medio di Maria che si posano sulla guancia a formare il numero due alludono alla duplice natura di Cristo, umana e  divina, le due dita alludono anche al duplice volto della Vergine. (fig.9)

Fig.9.jpg

Figura 8 La Vergine, particolare.

NOTE

[1] La Cappella Sistina prende il nome da Francesco della Rovere eletto nel 1471 con il nome di Sisto IV, che tra il 1475 e il 1481 decise una serie di interventi di recupero degli edifici di Roma e quindi anche di modificare la struttura della Cappella Palatina. La Cappella Sistina venne inaugurata il 15 Agosto 1483 e dedicata alla Vergine Assunta in Cielo. La parete dell’altare è interamente occupata dal Giudizio universale e le altre tre sono scandite in tre ordini orizzontali, oltre che dalle lunette in alto. Il pavimento in marmo cosmatesco fu realizzato in marmi policromi che riprendevano, forse, i motivi della precedente Cappella Palatina.

 

[2] Giano è una delle più antiche divinità romane e come rivela il nome, è protettore degli inizi e dei passaggi, nelle attività umane e in quelle naturale. Giano (Ianus)è il dio del passaggio che si compie, in origine, attraverso una porta (in latino ianua); in particolare è il dio degli inizi di un’attività umana o naturale oppure di un periodo. Non a caso era rappresentato come un busto con due volti (erma bifronte) che guardano in direzioni opposte: l’inizio e la fine, l’entrata e l’uscita, l’interno e l’esterno. A Giano era dedicato il primo mese dell’anno: Gennaio (Ianuarius).

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Elenco illustrazioni

Figura1 Studio per il Giudizio Universale (1533-1535 ca.); Bayonne, Museo Bonnat
Figura 2 Studio per il “Giudizio Universale” Firenze, Casa Buonarroti
Figura 3 Lunette del Giudizio Universale, particolare
Figura 4 Cristo, particolare                                                                                        
Figura 5 San Pietro, particolare.   
Figura 6 gli Angeli tubicini, particolare
Figura 7 Inferno
Figura 8 Caronte, particolare.
Figura 9 La Vergine, particolare

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BIBLIOGRAFIA
Mancinelli F., Colalucci G., Gabrielli N., Michelangelo, Il Giudizio Universale, Art e Dossier, Firenze, Giunti, 1994

 Pfeiffer H.W., S.J., La Sistina svelata, iconografia di un capolavoro, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007

Angela A., Viaggio nella Cappella Sistina, Città del Vaticano, Edizioni Musei Vaticani, 2013

Carloni P., Grasso M., L’uno e l’altro volto. Michelangelo, Vittoria Colonna e la Vergine del Giudizio Sistino, Roma, Ginevra Bentivoglio Editoria, 2016

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Tra ragione e fede: il convento di San Marco a Firenze

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San Marco

Il Convento domenicano di San Marco a Firenze sta per essere chiuso definitivamente, dopo secoli e secoli di storia. A partire da luglio 2017 i frati hanno già iniziato a spostarsi in altre strutture della zona, tra cui Santa Maria Novella, a pochi passi dal convento. Le migliaia di firme della petizione non sono bastate per fermare un processo già stabilito nel 2013 e dettato principalmente da ragioni a carattere economico (1). Per la Provincia romana dell’Ordine domenicano (2), infatti, mantenere aperto il convento avrebbe costituito una spesa non più sostenibile. La chiesa e il museo fortunatamente rimarranno aperti e attivi, mentre la biblioteca, conosciuta nel Quattrocento come la “Greca”, poiché possedeva la più grande collezione di opere greche in Italia (3), diventerà un fondo della Biblioteca Laurenziana. Quello che mancherà sarà il cuore pulsante della struttura, il suo motore storico a livello spirituale e materiale: i frati.

Si sa, al giorno d’oggi tante altre istituzioni storiche sparse per l’Italia hanno già dovuto o sono destinate in futuro, ahimè, a chiudere i battenti. E se non è possibile, come spesso ci viene detto, frenare questa valanga di chiusure forzate (ma non tutti ci credono, state tranquilli), almeno bisogna assicurarsi che l’evento non passi inosservato, che l’atto “distruttivo” comporti sempre anche un’occasione di creatività, di creazione. Nel nostro piccolo, quindi, siamo chiamati semplicemente a ricordare, a riportare alla memoria le origini del convento e il valore della sua attività, soprattutto nel caso di San Marco, che non compare tendenzialmente tra le prime scelte dei turisti alle prese con l’immenso patrimonio della città.

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Il Convento nella forma in cui lo si può ammirare oggi nacque dalla ristrutturazione e dall’ampliamento di un convento più antico, fondato nel 1299 dai monaci Benedettini Silvestrini e già dedicato a san Marco. Gli scavi condotti nel 1989 in seguito al crollo accidentale di parte del pavimento del noviziato hanno riportato alla luce i resti delle strutture duecentesche sottostanti, quelle costruite dai Silvestrini e adornate da splendide pitture murali a soggetto sacro e profano. Quest’ultime facevano in origine parte della decorazione delle volte del vecchio convento e sono oggi visibili grazie a dei fori praticati nella pavimentazione e ad un sistema di specchi. Un rinvenimento di questo tipo ha permesso di riconsiderare le condizioni del convento al momento del passaggio dai Silvestrini ai Domenicani, il quale non sarebbe stato quindi in rovina, come suggerito invece dalle fonti domenicane del tempo (4). Così, nel 1436 tramite una bolla papale la comunità religiosa originaria fu ufficialmente spostata a San Giorgio della Costa, per fare posto, a san Marco, al nuovo insediamento dei frati predicatori. Essi facevano parte di una comunità “riformata” proveniente dal convento di San Domenico di Fiesole e poterono beneficiare dell’ingente somma di denaro messa a disposizione da Cosimo il Vecchio de’ Medici per l’edificazione del nuovo complesso. Il progetto fu affidato a Michelozzo, architetto favorito dei Medici, il quale a partire dal 1437 restaurò la chiesa, prolungando la cappella maggiore con la costruzione di una nuova abside, e ristrutturò il convento ridistribuendone gli spazi interni e innalzando la grande biblioteca. Il risultato fu un complesso elevato su due piani e caratterizzato dalla distribuzione degli ambienti intorno a due chiostri quadrangolari contornati da portici a colonna. Al livello della strada, il lato sinistro del portico risulta adiacente al fianco destro della chiesa, mentre sul lato destro si apre il grande Refettorio e sul lato meridionale, dietro il muro di facciata, si trova l’Ospizio dei Pellegrini, ambiente oggi adibito alla conservazione e presentazione di numerosi dipinti su tavola realizzati da Beato Angelico per chiese e conventi di Firenze. Sul fondo, accanto alla Sala Capitolare, una scalinata conduce al primo piano, dove furono collocate le celle destinate ad ospitare i frati.

ANGELICO,_Fra_Annunciation,_1437-46_(223

In cima alla scala, la grande Annunciazione del Beato Angelico accoglie oggi i visitatori come un tempo doveva accogliere i frati, lasciando il fiato sospeso per la sua semplice perfezione. Il chiostro nel quale Maria viene raggiunta dall’Angelo ricorda quello del convento, nel quale le donne erano chiamate a pregare dai frati.  Inoltre, in fondo alla struttura architettonica che inquadra la scena, si può scorgere una finestrella del tutto simile a quelle delle celle: il mistero divino dell’Incarnazione rivive nelle sale del convento.  

Figura 1. Beato Angelico, Annunciazione, 1440-1450, 230x321 cm, affresco, Museo del Convento di San Marco, Firenze

Il linguaggio architettonico umanistico risulta intenzionalmente ridotto in funzione della spiritualità domenicana, che richiedeva uno stile di vita votato alla povertà assoluta. A metà del corridoio di destra si apre, al di là di un passaggio, la ricchissima biblioteca a pianta longitudinale e divisa in tre navate da una doppia file di colonne, come una basilica. Si tratta di una struttura che diventerà il modello per le biblioteche costruite in seguito, ideata anche con grande attenzione per la luce che, provenendo da finestre laterali, doveva illuminare l’ambiente producendo minimi effetti d’ombra. In origine, essa fu fatta costruire da Cosimo de’ Medici per custodire la grande collezione di manoscritti di Niccolò Niccoli, letterato e umanista fiorentino.

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Parallelamente ai lavori di ristrutturazione del vecchio convento dei Silvestrini, che si protrassero fino al 1452, l’intera decorazione pittorica degli ambienti fu affidata a Fra’ Giovanni da Fiesole, più conosciuto come Beato Angelico (1395-1455):

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“Frate Giovanni Angelico da Fiesole, il quale fu al secolo chiamato

Guido, essendo non meno stato eccellente pittore e miniatore che

ottimo religioso, merita per l'una e per l'altra cagione che di lui sia

fatta onoratissima memoria. Costui, se bene arebbe potuto commodis-

simamente stare al secolo, et oltre quello che aveva, guadagnarsi ciò

che avesse voluto con quell'arti che ancor giovinetto benissimo fare

sapeva, volle nondimeno per sua sodisfazione e quiete, essendo di

natura posato e buono, e per salvare l'anima sua principalmente,

farsi relligioso dell'Ordine de' Frati Predicatori; perciò che,

se bene in tutti gli stati si può servire a Dio, ad alcuni nondimeno

pare di poter meglio salvarsi ne' monasterii che al secolo.” (5)

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Frate domenicano originario di Val di Mugello, Beato Angelico faceva parte di quella stessa comunità che dal convento di Fiesole si spostò a San Marco; si formò come artista sotto l’esempio di Starnina e Lorenzo Monaco, entrambi legati ai modelli del Gotico internazionale, per poi rivolgersi alle nuove conquiste rinascimentali e proseguire nel solco tracciato da Masaccio. Nonostante il rapido aggiornamento dell’artista, la sua arte rimarrà sempre impregnata di quei valori estetici medievali che costituiscono l’unicità del suo stile. Così, la costruzione prospettica e geometrica degli spazi e l’attenzione al dato reale si fondono nelle sue opere con una concezione mistica e purificatrice della luce, con atmosfere sospese e preziosità ancora cortesi. Questo suo stile particolare deriva certamente anche dalla sua profonda partecipazione alla spiritualità domenicana, fondata sulla filosofia tomista, secondo la quale la ragione e l’adesione alla realtà della natura (dell’esistenza) costituisce la base necessaria per la comprensione del divino (dell’essenza) e, allo stesso tempo, la fede ha la capacità di colmare le lacune lasciate dalla ragione per la piena accettazione del mistero divino. La luce dipinta da Beato Angelico, “perennemente mattutina” (6), risulta così una luce che indaga il reale da vicino in funzione di un’elevazione simbolica e spirituale.

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“…l’Angelico rappresenta, grosso modo, nel quadro delle correnti intellettuali della prima metà del

Quattrocento, la filosofia tomista in opposizione alla filosofia neo-platonica personificata

dall’Alberti. Ma egli stabilisce altresì la possibilità di mediazione tra le due espressioni. È lui che, tra

il realismo di Donatello e le teorie di storicità dell’Alberti, ha creato il compromesso del

naturalismo, aprendo così la via a un’arte che non è più una rappresentazione immobile, ma, al

contrario, un discorso animato, un colloquio umano” (7)

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A San Marco egli realizzò pale d’altare e affreschi sia per gli spazi collettivi del convento che per quelli privati delle celle, nelle quali rappresentò per ognuna un episodio delle Sacre Scritture in modo da ispirare le riflessioni e le preghiere dei frati. L’eccezionalità di questo progetto e della sua esecuzione rende il Convento di San Marco un posto unico nel suo genere.

Beato Angelico lavorò alla decorazione del convento per dieci anni, fino al 1447, quando fu chiamato a Roma da papa Niccolò V a decorare la sua cappella in Vaticano. Così, il resto della decorazione lasciata incompiuta fu completata da altri artisti che gravitavano al tempo intorno all’Angelico, tra cui Benozzo Gozzoli. Le celle da decorare erano in tutto 45, allineate ai due lati di tre corridoi. Per ciascuna era stato scelto un episodio del Nuovo Testamento, ripercorrendo, anche se in ordine sparso, la vita e la Passione di Cristo nei suoi momenti salienti, quegli stessi episodi che popolavano la vita contemplativa dei frati dell’Ordine, ispirandoli nella vita di tutti i giorni come esempi morali o favorendo la meditazione sul mistero divino in essi celato.

planimetria san marco celle.jpg

Figura 2. Planimetria del primo piano del convento. fonte: http://www.travelingintuscany.com/arte/fraangelico/conventodisanmarco.htm

Così, percorrendo i corridoi del secondo piano del convento e affacciandosi di volta in volta all’interno delle piccole celle laterali, ci si trova di fronte a come piccole apparizioni, delle visioni fatte di pigmenti e leganti, in cui a Cristo, alla Vergine, ai santi si accostano san Domenico e altre figure celebri di frati predicatori. Spesso questi ultimi sono anch’essi in meditazione di fronte ai misteri sacri, quasi come a indicare la via al frate in carne ed ossa della cella: questo è il caso, ad esempio, della scena del Cristo Deriso, in cui il tema sacro della mortificazione di Gesù è posto sul fondo della composizione, su di un piano rialzato e di fronte ad un pannello verde, indicando chiaramente il carattere effimero di quell’immagine. Ai piedi di questa visione, seduti su di un gradino si trovano la Vergine, a sinistra, e san Domenico a destra, i quali non guardano la scena alle loro spalle, ma sono rivolti al contrario verso l’esterno della composizione, o meglio, verso il loro interno, col capo chino. Maria accenna un sentimento di dolore, sfiorandosi il volto con la mano sinistra, mentre san Domenico è rappresentato pensoso, mentre legge le Sacre Scritture:“porta sempre con sé il vangelo di Matteo e le lettere di San Paolo, nonostante le conosca a memoria”: così viene tramandata la figura di san Domenico all’interno della comunità domenicana. (8)

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Figura 3. Beato Angelico, Cristo Deriso,

1438-1440, 195x159,

affresco, Museo del convento di San Marco, Firenze

I gesti delle due figure si contrappongono come in un riflesso speculare e la loro apparente indifferenza per quello che sta avvenendo alle loro spalle conferma che la scena di Cristo è concepita al pari di un’immagine mentale, prodotta nella testa dei due personaggi e non realmente presente dietro di loro. È un’immagine estremamente chiara e semplice, che deve suggerire allo spettatore una riflessione ben precisa sulle sofferenze patite da Cristo per salvare l’uomo da se stesso.

Le scene dipinte nelle celle sono di solito posizionate accanto ad una piccola finestrella da cui entra la luce e ci si può immaginare che ben poco altro riempisse quelle minuscole stanze al tempo di Beato Angelico; i frati domenicani, infatti, erano votati all’assoluta povertà, seguendo l’esempio massimo del fondatore del loro ordine, il quale, secondo la storia della vita del santo, dormiva “quasi sempre per terra o su una tavola” (9) e non disponeva nemmeno di una cella personale come gli altri frati. L’austerità del loro stile di vita era dettato dalla necessità di liberarsi di tutte le distrazioni terrene, materiali, al fine di dedicarsi completamente alla contemplazione divina. Addirittura i primi frati, al momento della fondazione dell’ordine, erano legati unicamente da un voto di ubbidienza verso la persona di san Domenico, senza fare riferimento ad una chiesa in particolare, se non temporaneamente. Questa indipendenza permetteva loro di spostarsi continuamente, come dei perenni pellegrini, in base ai bisogni dell’evangelizzazione.

Al tempo di Beato Angelico le cose erano fortemente cambiate; la Chiesa era in lotta e anche all’interno dell’Ordine si sentiva il bisogno di ritornare alle origini, alla purezza iniziale dell’istituzione, corrotta dal prestigio che essa stessa aveva raggiunto nel corso del tempo. I primi tentativi di riforma emersero già agli inizi del Trecento, ma i primi risultati si ebbero solo verso la fine del secolo attraverso l’attività di Raimondo da Capua, maestro generale dell’Ordine nel 1380, il quale diede un impulso decisivo alla restaurazione dell’ “Osservanza della regola”. Egli comprese che in quel clima di forti tensioni sarebbe stato impossibile, o quantomeno controproducente, imporre la riforma all’intera comunità e per questo motivo istituì un sistema di nuovi conventi dedicati al puro rispetto della disciplina e destinati solo a quei frati che avessero deciso volontariamente di farne parte. Il primo convento di “regolare osservanza” fu quello di Colmar, creato nel 1389, e in seguito ne vennero creati altri, prima in Germania e poi in Italia, di cui il primo fu quello di San Domenico a Venezia, del 1391. Questi nuovi conventi erano specialmente pensati per formare i giovani frati, affinché si dedicassero fin da subito alle pratiche della disciplina regolare. Per questo motivo fu istituito un “maestro degli studenti”, che non seguisse i novizi negli studi – una figura del genere esisteva già – ma che si occupasse dei loro progressi spirituali. L’Ordine domenicano doveva tornare alla sua vocazione originaria e principale di Ordine contemplativo, dedicato, cioè, allo studio, alla preghiera e alla meditazione. Queste attività erano considerate basi irrinunciabili per una buona predicazione, missione del tutto complementare a quella della contemplazione. Nei conventi doveva regnare il silenzio per permettere alla dottrina di “scendere come pioggia” nel “cuore semplice” del frate (10) e per permettere alle immagini delle miniature e degli affreschi di fondersi con le immagini mentali derivate dallo studio dei testi sacri e dalla preghiera. I soggetti principali delle rappresentazioni pittoriche nei conventi domenicani, nonché destinatari delle preghiere dei frati, erano il Cristo Crocefisso e Maria, “prima contemplatrice” e sede della sapienza; inoltre, anche i santi dell’Ordine sono spesso rappresentati, in quanto esempio da seguire: ricorrono, ad esempio, le figure di San Pietro martire, riconoscibile dal taglio sanguinante sulla testa (simbolo del suo martirio), Santa Caterina da Siena e, ovviamente, San Domenico.

Anche la costruzione del convento di San Marco a Firenze si inserisce in questo particolare contesto storico: alla base della fondazione del convento si trova Antonino Pierozzi, grande promotore della riforma e vicario generale dei conventi riformati italiani tra il 1437 e il 1445, esattamente gli anni della decorazione delle sale del convento. L’opera del Beato Angelico per San Marco va dunque letta in questa prospettiva: una guida privilegiata fatta di immagini semplici ma allo stesso tempo simboliche e cariche di profonda spiritualità, fatte per re-indirizzare i frati verso una rinnovata purezza attraverso la potenza evocatrice dell’arte. 

 

“dalle linee sobrie dell'architettura di Michelozzo, dagli affreschi luminosi e sereni di Beato Angelico esce una pace che invade l'anima di chi entra in San Marco. In nessun altro luogo siamo avvolti da tanta luce di grazia come in questo convento, vero angolo di Paradiso, dove l'arte e la fede sono unite per dare agli uomini un senso di vita soprannaturale e di mistica pace.” (11)

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Martina Panizzutt

NOTE

 

  1. http://www.ilgiornale.it/news/cronache/chiude-convento-savonarola-e-pira-12mila-firme-non-bastano/, ultima consultazione 10 agosto 2018

  2. storicamente si definisce “romana” tutta l’area di influenza italiana dell’Ordine

  3. Richa, Giuseppe, Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise ne' suoi quartieri, 1754-1762, Viviani, Firenze, vol. VI, lezione XII, p. 117

  4. https://quellidelmuseodisanmarco.blog/2016/10/28/chiostro-dei-silvestrini-una-scomoda-eredita/, ultima consultazione 11 agosto 2018

  5. Vasari, Le Vite, 1550, Firenze, vol. 3, vita di Fra’ Giovanni da Fiesole, http://vasari.sns.it/cgi-bin/vasari/Vasari-all?code_f=print_page&work=le_vite&volume_n=3&page_n=273

 

  1. https://restaurars.altervista.org/il-beato-angelico-la-sacra-luce-della-pittura/, ultima consultazione 12 agosto 2018

  2. Giulio Carlo Argan, Fra Angelico, 1955, citato in https://restaurars.altervista.org/il-beato-angelico-la-sacra-luce-della-pittura/, ultima consultazione 12 agosto 2018

  3. D’Amato, Alfonso O.P., L’ordine dei frati predicatori, 1983, Bologna, p. 47

  4. D’Amato, Alfonso O.P., L’ordine dei frati predicatori, 1983, Bologna, p. 43

  5. D’Amato, Alfonso O.P., L’ordine dei frati predicatori, 1983, Bologna, p. 51

  6. Giovanni Urbani, “Beato Angelico”, Mondadori 1957, p. 6

 

BIBLIOGRAFIA

 

  • Richa, Giuseppe, Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise ne' suoi quartieri, 1754-1762, Viviani, Firenze

  • D’Amato, Alfonso O.P., L’ordine dei frati predicatori, 1983, Bologna

  • Giovanni Urbani, “Beato Angelico”, Mondadori 1957

 

SITOGRAFIA

 

 

 

Georges Didi-Huberman e “la scissione del vedere”

Georges Didi - Huberman

Figura 1. Vassily Kandinsky, Impronta delle mani dell’artista, acquarello su carta, 1926, 30 x 42,3 cm, Centre Georges Pompidou, Parigi.

Georges Didi-Huberman è uno dei maggiori filosofi e storici dell’arte del nostro tempo. Le sue ricerche sono dedicate soprattutto alla storia e teoria delle immagini, in una rilettura e riconsiderazione della produzione artistica e dell’arte dell’età moderna e contemporanea attraverso prospettive di antropologia e psicanalisi, con un’attenzione particolare per le teorie filosofiche e psicologiche sullo sguardo. Allo stesso tempo, Georges Didi-Huberman coniuga le sue riflessioni nella sua duplice attività di insegnante, al Centro di storia e teorie dell’arte dell’Ecole des hautes études en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi, e di curatore indipendente, organizzando progetti e mostre in alcune delle istituzioni museali più importanti del mondo.

 

Uno dei testi capitali della sua opera scritta è il saggio “Ce que nous voyons, ce qui nous regarde”(1), che affronta la questione cruciale del rapporto psicologico e visivo che si instaura tra lo spettatore e l’opera d’arte. Pur essendo un testo a carattere essenzialmente filosofico, che raggiunge nelle pagine centrali livelli elevatissimi di pensiero, il presupposto fondamentale di questa impresa è, in effetti, un dato empirico dettato dall’esperienza diretta con le opere. Chi non si è mai sentito guardare da un dipinto? È una sensazione sottile, come un’impressione, che spinge l’osservatore a spostarsi da un lato all’altro dell’opera per sottrarsi al suo sguardo diretto, finendo quasi sempre poi per scoprire di sentirsi guardato lo stesso.

Didi-Huberman nella sua trattazione usa questo esempio come un trampolino iniziale per elevarsi nella questione – e allo stesso tempo approfondirla – dimostrando che la particolare sensazione di essere guardati non riguarda solamente le opere pittoriche, ma è estendibile al rapporto con le opere d’arte di ogni tempo e genere, che non possono evitare di costituire dei veicoli di immagini, pur loro malgrado: è il caso, ad esempio, dell’arte minimalista degli anni sessanta, ritenuta da alcuni critici ed esponenti del tempo come l’arte degli oggetti che non vogliono essere o comunicare niente di più di ciò che appaiono.

Al centro della riflessione artistico-filosofica dell’autore si trova il tema della porta, emblematico nel rapporto visivo con l’opera d’arte in quanto ne costituisce una metafora: infatti, la porta condivide, secondo l’autore, con l’oggetto artistico la dimensione di un varco aperto verso un interno: “Regarder, ce serait prendre acte que l’image est structurée comme un devant- dedans […] comme un seuil”(2). Ma l’interno di cosa? In effetti, tra lo spettatore e l’opera d’arte si instaura una comunicazione sviluppata in entrambi i sensi: da una parte lo spettatore riesce a percepire un significato culturale dell’opera che va oltre la sua consistenza materiale, dall’altra questo stesso significato si manifesta attraverso l’opera in modo da interpellare lo spettatore, interrogarlo nel profondo e chiedergli di partecipare. Questa modalità della visione viene definita da Didi-Huberman “la scission du voir”, dunque la “scissione del vedere”, e costituisce un paradigma visuale “ineluttabile”.

Figura 2. René Magritte, La riproduzione vietata, 1937, olio su tela, 81,3×65 cm, Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam

L’atto visivo, quindi, genera una sorta di riflesso in direzione contraria, rivolta all’intimo del soggetto stesso. Questa situazione ricorda molto da vicino la visione allo specchio: Hans Belting, nel suo saggio “Antropologia dell’immagine” (3) spiega come un soggetto, nel momento in cui osserva il proprio riflesso, sia spinto a mettersi in posa pur cercando un’immagine oggettiva di se stesso: ciò accade perché ciò che più lo specchio gli mostra non è il suo aspetto esteriore ma la distanza che intercorre tra esso (il suo aspetto) e l’idea che egli ha di se stesso. In effetti lo sguardo allo specchio implica la relazione dell’io con l’altro, o per meglio dire, con l’“altro io” che si trova di fronte.

Dopo aver introdotto il tema, l’autore si dedica alla definizione di quel “qualcosa” che ricambia lo sguardo dello spettatore nel momento stesso in cui è guardato. 

In effetti, l’autore precisa che questo fenomeno non avviene

ogniqualvolta un soggetto osservi un oggetto, come avviene del resto costantemente nella vita di tutti i giorni. Ciò che ha il potere di riflettere il nostro sguardo è un vuoto, un vuoto presente all’interno dell’oggetto. Si tratta di un vuoto che ci guarda poiché ci “riguarda” ed è per questo che ci sentiamo osservati nell’intimo: parla di noi.

Per dirla con Didi-Huberman, la “scissione” avviene “quando vedere significa perdere”. Per poter spiegare a cosa ci si riferisce con il termine “vuoto”, è indispensabile ricorrere al concetto di “aura”, elaborato da Walter Benjamin ed espresso nella sua opera L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), e che ritroviamo anche nel saggio di Didi-Huberman

L’aura è concepita da Benjamin come una “trame singulière d’espace et de temps”(4), un paradigma visuale costituito principalmente da due poteri dell’oggetto guardato. Innanzitutto, l’oggetto artistico possiede un potere di “distanza”, poiché l’oggetto porta in se stesso degli “indizi” di una perdita - di un vuoto – dovuta al tempo e allo spazio che ci separa dal momento della sua produzione. Questo senso di perdita si manifesta sempre come l’effetto di un’apparizione lontana prodotto dall’opera, anche se siamo tanto vicini all’oggetto da poterlo toccare. In secondo luogo, l’oggetto artistico possiede un potere “visivo”, che viene “prestato” – queste le parole di Didi-Huberman – dal soggetto all’oggetto guardato nel momento dell’incontro visivo, come potrebbe succedere in un museo o in una galleria d’arte: “Sentir l’aura d’une chose, c’est lui conférer le pouvoir de lever les yeux”(5). L’aura di un’opera d’arte costituirebbe dunque una traccia, l’impronta di ciò che resta di un qualcosa già irrimediabilmente lontano e “inapprochable”, legato al significato dell’opera stessa.

Certamente le opere d’arte e le immagini in generale costituiscono il contesto tipico del fenomeno della scissione del vedere, ma Didi-Huberman amplia la propria visione invitandoci a considerare anche altre situazioni in cui il fenomeno si verifica, come ad esempio il caso dell’osservazione di una tomba, oppure il momento della formazione delle immagini nella mente dei bambini piccoli nei primi contatti con il mondo esterno. Tutti questi casi sono accomunati da un gioco di apparizione-sparizione che coinvolge il soggetto e in un certo senso lo turba. La vista di una tomba, ad esempio, è caratterizzata dalla percezione di un’assenza, che è presente nel senso che “si fa sentire” presso l’osservatore. Così avviene con le opere d’arte: per Hans Belting, le immagini, in quanto rappresentazioni virtuali della realtà – o di una realtà – sono sempre immagini di un’assenza, o meglio, di una presenza passata e trasferita nell’immagine artistica (si pensi, ad esempio, ai ritratti). È suggestivo in questo senso il rapporto con la fotografia e il suo cosiddetto, “effetto thanatos” (6): le fotografie non corrispondono mai alla realtà, ma solo ad un istante di essa, bloccato per l’eternità in un’immagine che risulta del tutto simile al soggetto fotografato ma priva della sua vitalità. Per questo motivo, le immagini veicolate dalle opere d’arte necessitano di essere “animate” dallo spettatore, il quale può farlo con il proprio sguardo costruendo un rapporto con esse e attribuendo loro un significato.

Si comprende, così, come l’assenza sia percepita dal soggetto come un’alterità, come qualcosa che si configura come altro rispetto a se stesso, il quale, invece, non può fare a meno di considerarsi “ineluttabilmente” presente. Nonostante questo, si tratta di un’alterità con cui si è costretti a confrontarsi, poiché di quella perdita, di quell’assenza “qualcosa resta”: è l’immagine.

Figura 3. Donald Judd, Senza titolo, 1985. Acciaio inossidabile e plexiglas, quattro elementi, 86,4 x 86,4 x 86,4 cm ognuno. Saatchi Collection, Londra.

“Croyance ou tautologie”… o arte minimalista.

 

 

Per Didi-Huberman due sono le possibili reazioni alla scissione del vedere: lan “croyance” o la “tautologie”. La prima costituisce la reazione di chi, effettivamente, crede che ci sia una presenza al di là dell’oggetto e che sia questa presenza a guardarci. Si tratta evidentemente di un approccio religioso e spirituale all’oggetto, come quello che si può avere per un’icona sacra. La seconda reazione, invece, rappresenta un totale rifiuto di qualsiasi presenza o significato ulteriore che non sia quello strettamente legato all’esistenza dell’oggetto. È esattamente questo l’approccio che è stato ritenuto emblematico dell’arte minimalista da parte di alcuni suoi esponenti, come Donald Judd (fig. 3) e Frank Stella. Dalle dichiarazioni che rilasciarono tra il 1964 e il 1966, risulta evidente che essi concepissero la loro arte come la possibilità di dare vita a forme e oggetti “arbitrari”14, che sfuggissero cioè alla produzione di immagini e di significati che andassero oltre alla loro presenza e alla loro potenza intrinseca. “What you see is what you see”(7) era la parola d’ordine per un’arte pretesa “without feeling”.

 

La questione problematica posta da Didi-Huberman sta proprio qui: nel concetto di “presenza” che quelle forme minimaliste dovevano mostrare,

senza però cadere nell’immagine, nell’antropomorfismo e nell’antropologia. Cosa si intende allora per “presenza”? Stella e Judd avevano intenzione di imporre un tipo di arte fatta di oggetti che fossero “specifici, aggressivi e forti” proprio nei confronti dello spettatore, che venissero riconosciuti in quanto oggetti indipendenti. Il problema è che persino la creazione di un oggetto che pretende di non essere nient’altro che se stesso è una forma di comunicazione e che fin da subito questa nuova attività artistica è stata concepita proprio in relazione al pubblico, che doveva rimanere disorientato da quegli oggetti “specifici”.

In effetti, Robert Morris, un altro esponente fondamentale dell’arte minimalista, non rifiutava in modo così netto la componente esperienziale – e quindi soggettiva – delle proprie opere; Didi- Huberman ce ne chiarisce il significato riportando una citazione di Rosalind Krauss, tratta dal suo saggio “Sens et sensibilité” (8), in cui la storica e critica d’arte porta l’esempio delle tre “L” di Morris (fig. 4): esse costituiscono tre oggetti del tutto identici ma che sono stati posti in posizioni diverse nello spazio proprio per dare allo spettatore la sensazione della diversità, per far scaturire in lui tre diverse percezioni dello stesso oggetto. Del resto, gli oggetti minimalisti impongono effettivamente la loro presenza agli occhi dello spettatore, ergendosi di fronte a lui come dei corpi inermi che rimandano agli archetipi delle forme primordiali e mentali

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Figura 4. Robert Morris, Senza titolo, 1965. Compensato dipinto, tre elementi, 244 x 244 x 61 cm ognuno. Musée d’art contemporain, Bordeau

Si tratta di quella che Didi-Huberman definisce una “danse intime” (9), cioè di un movimento interiore rilevabile da quei corpi eppure immobili; una danza, un serpeggiamento interno che induce istintivamente lo spettatore a pensare che essi siano in realtà contenitori di qualcosa di nascosto alla vista, reiterando così l’idea di una presenza interna sotto forma di un vuoto, di una cavità dell’oggetto. Questo tipo di percezione da parte dello spettatore sembra essere stata compresa e sfruttata dall’artista Tony Smith nell’opera The Maze (fig. 5): in questo caso, tre blocchi di legno dipinto formano una sorta di perimetro

incompleto che lascia aperti dei varchi; lo spettatore si trova, così, a dover combattere tra l’irrefrenabile – “l’ineluttabile” – impulso ad entrare nel perimetro e l’inquietudine provocata dalla stranezza di una porta lasciata aperta.

A questo punto si comprende come l’arte minimalista si trovi a metà strada tra la “croyance” e la “tautologie”, proprio perché da una parte rievoca l’arte primordiale e arcaica ma senza fare di questa reminescenza il contenuto privilegiato, dall’altra rigetta gli ulteriori significati che possono esserle attribuiti ma non in modo definitivo, lasciando, cioè, un piccolo spiraglio sempre aperto. Per definire questa situazione particolare, Didi-Huberman parla di una “doppia distanza” che separa l’opera dallo spettatore, intendendo in questo modo l’eterna oscillazione tra la percezione di un abisso e l’assenza di contenuto che caratterizza questo genere di opere e che costringe lo spettatore ad uno stato di inquietudine irrisolvibile.

Figure 5. Tony Smith, The Maze, 1967. Legno dipinto, 203 x 305 x 76 cm. Paula Cooper Gallery, New York.

Note.

 

1. Georges Didi-Huberman, Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, Les éditions de minuit, s.l., 1992, p. 14

 

2. Georges Didi-Huberman, Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, Les éditions de minuit, s.l., 1992, p. 192

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3. Hans Belting, “Antropologia dell’immagine”, Carocci Editore, Roma, 2011

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4. Georges Didi-Huberman, Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, Les éditions de minuit, s.l., 1992, p. 103

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5. Ivi, p. 104

 

6. Hans Belting, “Antropologia dell’immagine”, Carocci Editore, Roma, 2011

 

7. Georges Didi-Huberman, Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, Les éditions de minuit, s.l., 1992, p. 32

 

8. Rosalind Krauss, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte di oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, trad. Elio Grazioli, p. 38

 

9. Georges Didi-Huberman, Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, Les éditions de minuit, s.l., 1992, p. 32

 

Bibliografia.

* DIDI-HUBERMAN GEORGES, Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, Les éditions de minuit, s.l., 2014 [1992]

* BELTING HANS, Antropologia delle immagini, Carocci editore, Roma, 2011, trad. Salvatore Incadorna [Bild-Antropologhie. Entwürfe für eine Bildwissenschaft, W. Fink Verlag, Paderborn, 2002]

* KRAUSS ROSALIND, Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte di oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, trad. Elio Grazioli [Reinventing the Medium. Critical inquiry, The University of Chicago Press, 1999]

* STOICHITA VICTOR, L’image de l’autre, Hazan, Paris, 2

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Sitografia immagini

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* Vassily Kandinsky, Impronta delle mani dell’artista, acquarello su carta, 1926: https://www.pinterest.fr/pin/438538082435701033/

​

* René Magritte, La riproduzione vietata, 1937: https://www.mowwgli.com/27052/2017/11/01/annee-2017-magritte-heritiers-contemporains/

* Donald Judd, Senza titolo, 1985: https://www.pinterest.fr/pin/164029611401520505/ * Robert Morris, Senza titolo, 1965: http://art-history.over-blog.com/2013/12/le-minimaliste.html * Tony Smith, The Maze, 1967: https://dailyartfair.com/exhibition/3872/tony-smith-matthew-marks-gallery

“Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera” (F. Nietzsche)

Scambio di sguardi (PARTE 2)

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Come abbiamo già accennato, comprendere il significato dei “travestimenti” di Rembrandt equivale a comprendere il significato degli autoritratti stessi.

Il noto professore di storia dell’arte della Columbia University di New York, Simon Schama, ritiene che alla base dei “travestimenti” dell’artista ci sia il desiderio di “dissolversi” in più personaggi, di “insinuarsi sotto la pelle dei suoi soggetti per capire come volevano essere visti dagli altri”[11]. Un genio indagatore quindi, che studia l’animo umano non scientificamente ma attraverso l’immagine esterna che gli uomini vogliono dare di se stessi.

Nonostante ciò, i suoi autoritratti non vogliono costituire una rassegna sistematica di tipi sociali, disegnati come figurine all’interno di un taccuino; Rembrandt finge di perdere la propria identità per “provarsi addosso”[12] gli abiti, le espressioni, gli atteggiamenti dei personaggi che indaga; li vive dall’interno, immaginandoseli davanti allo specchio. Emblematico in questo caso risulta l’autoritratto di Rembrandt come mendicante. Si tratta di un'incisione realizzata nel 1630 in un solo stato e rappresentante i tratti dell’artista negli abiti di uno dei tanti mendicanti che si potevano incontrare per le strade di Amsterdam e che gli artisti del suo tempo abbozzavano nei loro disegni (fig. 6).

Scambio di sguardi

Di recente, studiosi come S. Alpers concordano nel riconoscere la centralità dell’elemento teatrale all’interno di molte opere di Rembrandt[13]. Hoogstraten, pittore allievo dell’artista, nel suo trattato sull’arte[14] suggerisce di usare lo specchio per mimare la scena da attore prima di dipingerla; Houbraken[15] invece, allievo a sua volta di Hoogstraten, ricorda di come il maestro incoraggiasse gli allievi a recitare e talvolta trasformasse il suo studio in un piccolo teatro dove gli allievi mettevano in scena delle rappresentazioni, alle quali anche parenti ed amici potevano assistere. Questa era la sua formula per realizzare “il genere più nobile dell’arte”[16], ossia i dipinti detti “di storia”. Rembrandt si dedicò a questo genere di opere soprattutto nel suo periodo di Leida. Visto che Houbraken fu allievo di un allievo di Rembrandt, si può ipotizzare che questo consiglio fosse stato dato la prima volta proprio dal maestro. Sono stati addirittura trovati dei disegni realizzati a penna e acquerello di mano di Rembrandt rappresentanti delle scene bibliche che non corrispondono a nessun dipinto prodotto dalla bottega e che probabilmente ebbero una funzione didattica all’interno dello studio[17].

La Alpers è convinta che il rapporto di Rembrandt con il teatro debba essere in futuro preso maggiormente in considerazione. In un trattato in versi di Andries Pels del 1681, Gebruik en Misbruik des Toonels (“Uso e Abuso delle scene”), in cui l’autore traccia una storia del teatro, vengono criticate duramente le commedie dal gusto popolare di Jan Vos. A metà del poema l’autore chiama in causa anche Rembrandt, criticandolo per il suo rifiuto delle regole dell’arte, proprio come Vos ignorava quelle del teatro[18]. Inoltre, Rembrandt era lodato al suo tempo proprio per la sua capacità di  rendere le emozioni e i comportamenti delle figure in maniera naturale e drammatica: del resto, è lo stesso Rembrandt a definire in questo caso la sua arte: in uno dei pochi documenti autografi dell’artista a noi giunti, una lettera scritta a Huygens a proposito di due dipinti che gli aveva appena mandato, una Deposizione e una Resurrezione, Rembrandt si scusa con il segretario per il ritardo nella consegna scrivendo che voleva rendere die meeste ende die naetuereelste beweechgelickheijt[19], ossia “il movimento più grande e più naturale”; a parte la disputa che si accese tra la critica per quanto riguarda il significato da dare al termine “movimento”, se quello esteriore e fisico o quello interiore dei sentimenti, è interessante constatare che l’intento dell’artista era quello di dare naturalezza alla scena e di rappresentare in modo ampio il “movimento” (che la Alpers intende come movimento interiore, considerata la connotazione retorica della parola e considerata anche la specificazione che l’artista fa nel testo della sua lettera, menzionando lo sconcerto dei soldati di guardia al sepolcro al momento della Resurrezione). Inoltre, la cultura umanistica ricevuta alla scuola di Leida da ragazzo – Rembrandt fu l’unico dei suoi otto fratelli a poter accedere alla scuola superiore – di certo gli permise di studiare il latino e le fonti antiche ed approcciarsi così alla consapevolezza secondo la quale l’esistenza umana non è altro che l’interpretazione di un ruolo sociale di fronte al mondo e al proprio Io.

Questo concetto era infatti già presente nella cultura antica; in latino si utilizzava il termine persona per indicare la maschera teatrale e questo gioco semantico era reso esplicito dal motto sua cuique persona[20], tramandato nel XVII secolo dalle fonti antiche. L’anta scorrevole di un ritratto attribuita a Ridolfo del Ghirlandaio e realizzata intorno al 1510 sfrutta questo topos in modo sorprendente. Essa mostra al centro una maschera teatrale sovrastata dal motto latino, affinché l’anta dipinta celasse e allo stesso tempo rivelasse la vera natura del ritratto sottostante (fig. 7).

Dopo aver realizzato circa un autoritratto al mese tra il 1629 e il 1631, a partire dal 1645 Rembrandt smise di ritrarsi per circa sette anni, riprendendo solo nel 1652. L’artista dopo sette anni ci appare decisamente invecchiato e con occhi molto più saggi e comunicativi degli autoritratti precedenti.

Probabilmente è la forte espressività dei suoi occhi maturi a spingere gran parte della critica a considerare gli autoritratti dell’artista come strumenti di introspezione indirizzati all’auto-comprensione. Come abbiamo visto nell’introduzione, questa è la posizione di Stoichita, che paragona gli autoritratti di Rembrandt alle pagine degli Essais di Montaigne. Al contrario, la Alpers ritiene che i suoi ultimi autoritratti non vogliano andare in profondità ma analizzare sempre più attentamente la superficie, identificandosi sempre di più con la sua pittura.

Di recente Ernst Van de Wetering ha proposto una nuova interpretazione degli autoritratti: lo storico dell’arte si immagina Rembrandt mentre si osserva nello specchio non pieno di domande su se stesso, bensì con un programma ben preciso: assecondare gli interessi dei collezionisti e amanti della pittura. Per questa ristretta categoria di persone, infatti, contavano di più la tecnica pittorica 

e l’effetto visivo che non il soggetto rappresentato, che finiva così per essere un espediente per dare vita alla magia della sua arte. Questa ipotesi viene ampiamente affrontata nel testo esplicativo del catalogo sugli autoritratti di Rembrandt, pubblicato nel 1999 dalla National Gallery di Londra, Rembrandt by himself. Come prova a favore di questa innovativa interpretazione, è stato preso in considerazione l’ampio sviluppo nel Seicento di quella categoria di amanti della pittura, che collezionavano le opere dei più importanti artisti dell’epoca per esporle nelle proprie dimore e ricreare, spesso in forma ridotta, le grandi gallerie di ritratti dei palazzi nobiliari.

In particolare, man mano che gli artisti acquisirono sempre più rilevanza sociale[21], si creò un vero culto delle celebrità sulla base della gloria antica dei grandi artisti. Il veicolo principale di questo culto fu l’acquisto di ritratti di artisti famosi che, a partire dal Cinquecento, andarono ad aggiungersi alle sopra citate gallerie di ritratti. Chi non poteva permettersi un ritratto dipinto si procurava un’incisione a stampa. In particolare questi collezionisti potevano richiedere che i pittori fossero ritratti insieme a un esempio del loro stile pittorico o del genere artistico per il quale erano famosi. In questo modo il collezionista avrebbe ricevuto un doppio ritratto dello stesso artista, uno attraverso i tratti del volto e l’altro attraverso l’arte che lo contraddistingueva. A conferma di questo, in relazione alla collezione di autoritratti della famiglia Medici, il gesuita Luigi Lanzi scrisse nel 1782 che ogni autoritratto di pittore

contiene in se stesso sia la rappresentazione fisica dell’artista che un esempio del suo stile[22]. Questa potrebbe essere una valida spiegazione del motivo per cui Rembrandt realizzò così tanti autoritratti, mentre Rubens, che al tempo era molto più celebre di lui, ne realizzò solo quattro. Infatti, mentre Rubens era conosciuto soprattutto per i dipinti storici e le allegorie, Rembrandt veniva apprezzato per la particolare tecnica pittorica e per l’abilità nel rappresentare in modo molto naturale e profondo le emozioni.

Di conseguenza, anche i dipinti in cui l’artista si rappresenta come comparsa potrebbero essere spiegati in questo modo, proprio perché in queste opere i collezionisti si aspettavano di vedere rappresentate le passioni umane nella maniera tipica dell’artista; inoltre l’inserimento del suo autoritratto in mezzo alle altre figure poteva sollecitare la curiositas degli amanti della pittura.

Questo tipo di “doppio ritratto” costituisce un tema illuminante per quanto riguarda la concezione degli gli artisti che si stava sviluppando in quell’epoca: probabilmente di pari passo con l’elevazione dello status dell’artista, l’identità di quest’ultimo venne associata sempre di più alla sua opera. Questo fenomeno avrà due conseguenze principali: innanzitutto svuoterà gradualmente il ruolo del committente, in quanto l’artista concepirà se stesso – e di conseguenza la propria arte – sempre più indipendente dalle imposizioni esterne (sotto questo aspetto, l’autoritratto stesso potrebbe essere considerato un punto d’inizio di questo processo, in quanto si tratta di un genere artistico che non necessita di un committente). Secondariamente, questo processo porterà negli anni alla totale sovrapposizione dell’identità dell’artista con l’opera d’arte.

A questo proposito, di particolare interesse risulta un dipinto realizzato da Rembrandt nel 1639 e raffigurante un uomo in piedi nell’atto di tenere per le zampe il corpo morto di un tarabuso, un uccello appartenente alla famiglia degli aironi (fig. 8). Una parte della critica ha riconosciuto nel volto del personaggio i tratti dell’artista, identificando quindi il soggetto del dipinto come uno dei tanti autoritratti. Non tutti gli esperti, però, sono d’accordo: in effetti, la figura umana nel dipinto in questione occupa una posizione del tutto secondaria rispetto all’animale, il quale invece viene rappresentato nei minimi dettagli, con una precisione degna di una natura morta. In più, se i tratti dell’artista sono vagamente riconoscibili, è probabile che si tratti dell’ennesima occasione in cui, come nei tronies, quest’ultimo ha utilizzato se stesso come modello senza tuttavia aver l’intenzione di realizzare un autoritratto.

Significativamente, negli anni novanta del secolo scorso è stato notato che “tarabuso” in olandese veniva tradotto al tempo di Rembrandt con la parola pitoor, del tutto simile al termine latino pictor, che significa “pittore”[23]. Se l’interpretazione risultasse corretta, il dipinto in questione costituirebbe il massimo esempio di identificazione da parte dell’artista con l’arte stessa della pittura, evidenza del resto riscontrabile in altri suoi autoritratti, come avremo modo di vedere nel prossimo capitolo…

di Martina Panizzutt

Note

[11] S. Schama, “Gli occhi di Rembrandt”, 2000, Mondadori, p. 322

[12] Ivi, p. 323

[13] S. Alpers, L’officina di Rembrandt: l’atelier e il mercato, 1990, Torino, Einaudi pp. 40-41

[14] S. van Hoogstraten, Inleyding tot de hooge schoole der schilderkonst: Anders de Zichtbaere Werelt (Introduzione alla scuola avanzata di pittura, o Mondo Visibile), 1678, in Alpers S., op. cit. pp. 43-44

[15] A. Houbraken, De Groote Schouburgh der Nederlantsche Konstschilders en Schilderessen (Il Grande Teatro dei Pittori e delle Pittrici Olandesi) 1718-1721, in Alpers S., op. cit. p.44

[16] S. van Hoogstraten, op. cit.p. 44

[17] S. Alpers, L’officina di Rembrandt: l’atelier e il mercato, 1990, Torino, Einaudi, p. 49

[18] Ivi p. 57

[19] ivi p.54

[20] “a ciascuno il proprio ruolo”, Seneca, …

[21] Grazie anche alla diffusione a stampa delle Vite di Giorgio Vasari che ripresero la forma antica

dell’aneddoto utilizzata per la narrazione della vita degli uomini illustri

[22] L. Lanzi, “La Real Galleria di Firenze accresciuta e riordinata per comando di S. A. R. l’Arciduca Granduca di Toscana”, in Giornali de’ letterati tom. XLVII, 1782, Pisa, p. 22 (ristampa anastatica 1982)

[23] C. White, Q. Buvelot a cura di , Rembrandt by himself, 1999, National Gallery London Publications, p. 167

Martina Panizzutt
Rembrandt

“Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera” (F. Nietzsche) 

Gli autoritratti di Rembrandt (PARTE 1)

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Una novantina sono gli autoritratti attualmente riconosciuti all’interno della produzione artistica di Rembrandt van Rijn. L’artista sembra aver dedicato una parte considerevole della sua produzione artistica alla rappresentazione di se stesso e le ragioni di questo fenomeno dalla modernità straordinaria hanno da sempre suscitato l’interesse della critica, considerando soprattutto che l’epoca in cui l’artista si colloca è precedente alla rivoluzione “introspettiva” del Romanticismo.

Eppure, gli autoritratti di Rembrandt costituiscono un insieme tutt’altro che unitario ed omogeneo e per questo motivo qualsiasi analisi che ne voglia analizzare le varie funzioni e caratteristiche risulta estremamente vasta e complessa. Infatti, il termine di “autoritratto” è utilizzato per semplicità per indicare dipinti, disegni e incisioni di varia natura in cui compaiono le sembianze dell’artista. Ad oggi, però, solo trentatré dipinti su cinquanta, quattro incisioni su trenta e tre disegni su dieci possono essere definiti “di diritto” dei veri autoritratti.

Cosa si intende, quindi, per “autoritratto”? O meglio, cosa NON si intende per “autoritratto”?  In generale, bisogna considerare separatamente i cosiddetti tronies o têtes de fantaisie (come erano noti nella Francia del Settecento), gli studi d’espressione e di luce, realizzati soprattutto nella prima fase della sua carriera, quando l’artista si trovava ancora a Leida. In questi tre casi l’artista ha probabilmente usato se stesso come modello senza l’intenzione di produrre degli autoritratti in senso stretto. Come afferma lo storico dell’arte Ernst Van de Wetering, l’artista è il modello più “paziente”, specialmente se si tratta di trattenere sul volto una determinata espressione per tutto il tempo necessario a studiarne la riproduzione in immagine.

In particolare, nelle prime rappresentazioni di se stesso, l’artista si ritrae non oltre le spalle, non essendo evidentemente interessato a mostrare nessun tipo particolare di abbigliamento, come invece farà più avanti; anzi, il suo obiettivo principale sembra essere quello di sperimentare il chiaroscuro e varie espressioni facciali da riutilizzare all’interno di altri dipinti. Nel 1630, ad esempio, egli realizzò una serie di quattro incisioni con le quali, attraverso il suo stesso volto, studiò diversi tipi di “umori”: la rabbia, la sorpresa, la risata e il dolore[1](fig. 1).

Un genere a parte è costituito dai tronies, invero molto diffuso nell’Europa del nord del Seicento

e caratterizzato dalla rappresentazione di busti di persone ideali che dovevano incarnare

specifiche categorie sociali, come il giovane, il soldato, l’anziana, l’orientale; nonostante la loro

somiglianza con il genere del ritratto, in queste immagini l’identità della persona raffigurata

– che era di solito un modello qualsiasi – era di secondaria importanza. L’obiettivo principale di

queste immagini era quello di veicolare un’espressione o un concetto, come la rabbia, la gioventù,

la vecchiaia, la transitorietà. Si tratta inoltre di una produzione generalmente non legata ad una

committenza, come nel caso del ritratto, ma destinata alla commercializzazione nel mercato

aperto e le dimensioni di queste opere sono generalmente ridotte. Rembrandt realizzò numerosi

tronies soprattutto nella fase giovanile della sua carriera, sia attraverso la tecnica dell’incisione

che dipinti, usando se stesso come modello; proprio perché l’identità del modello era secondaria,

in queste opere spesso Rembrandt apporta delle piccole modifiche all’immagine di se stesso che vede

nello specchio (anche se, ovviamente, non potremo mai sapere se l’artista è stato realmente fedele al vero). Ad esempio, alcuni autoritratti realizzati tra il 1629 e il 1630 mostrano delle capigliature troppo diverse per essere state tutte vere in quel breve arco di tempo[2].

Ad esempio, nell’autoritratto di Norimberga (fig. 2) in cui si rappresenta sotto le spoglie di un ufficiale – un’immagine molto in voga al tempo insieme a quella del soldato – Rembrandt deve aver “aggiustato” anche la sua acconciatura, adottando la tipica cadenette, ossia un ciuffo più lungo di capelli portato generalmente sul lato destro e tipico delle capigliature aristocratiche. In ogni caso, possediamo dei documenti dell’epoca dai quali si deduce che le sembianze di Rembrandt vennero riconosciute dai collezionisti fin dalle prime opere. Il fatto che egli venisse riconosciuto pone queste sue opere a metà tra il ritratto e i veri tronies, mettendo spesso in difficoltà la critica circa la definizione del loro genere di appartenenza. Ad esempio, alcuni autoritratti di Rembrandt si trovano negli inventari seicenteschi sotto la dicitura “een trony van Rembrants sijnde sijn contrefeytsel” (“una testa di Rembrandt con le sue fattezze”)[3]:  ci  si  chiede, dunque, se il sostantivo trony fosse dovuto al genere specifico, nonostante l’identità del modello fosse ben riconoscibile, oppure genericamente al formato dell’immagine, rappresentante una “testa” di Rembrandt fatta da se stesso.

Un altro caso interessante è costituito dai dipinti cosiddetti “di storia”[4], nei quali l’artista integrò la propria immagine. Da ragazzo l’artista si fece introdurre all’arte proprio da due pittori di storia, prima a Leida da Jacob Isaaczoon van Swanenburg (1571 - 1638) e poi ad Amsterdam da Pieter Lastman, da cui trasse numerosi modelli per le sue opere[5]. In effetti, questo tipo di autoritratto 

contestuale[6] è più tipico delle opere giovanili, quando ancora i richiami all’arte di Lastman sono facilmente riconoscibili. Quella di inserire la propria immagine all’interno di opere più grandi rappresentanti una scena a carattere storico o biblico è una pratica in realtà molto comune a tanti altri pittori, anche precedenti a Rembrandt. Generalmente gli artisti si rappresentavano in mezzo alle altre figure che partecipano all’evento-chiave del dipinto, ma con un atteggiamento che si potrebbe definire “distratto”: essi non osservano quello che sta succedendo al di qua del dipinto, ma guardano verso l’esterno, verso lo spettatore, incrociando il suo sguardo. Invadendo così lo spazio della sua creazione, l’artista diventa egli stesso un’opera d’arte ed avvia con l’osservatore un’intima comunicazione.

Nelle opere di Rembrandt, però, l’artista sembra sempre direttamente partecipe all’avvenimento. Ad esempio, nel dipinto raffigurante l’Elevazione della croce, Rembrandt si rappresenta nell’atto di aiutare gli altri personaggi ad alzare la croce, esattamente come una comparsa che si pretende anonima (fig. 3).

Per quanto riguarda gli autoritratti indipendenti – ossia in cui nessun altro soggetto compare insieme all’immagine dell’artista – l’abbigliamento con il quale Rembrandt si mostra, oltre ad essere una delle peculiarità tipiche della sua produzione artistica, costituisce una chiave di lettura essenziale: l’artista si ritrae abbigliato come i grandi maestri del Rinascimento, all’ultima moda del suo tempo, in abiti da lavoro oppure in veste da sovrano orientale. In quegli anni, i mercati e le fiere di Amsterdam si riempirono di prodotti esotici grazie all’apertura dei commerci d’oltremare e la ricchezza, spesso anche elevata, raggiunta dalla borghesia attraverso l’attività mercantile permise la diffusione di questi prodotti a larga scala. Questo fenomeno riguardò anche Rembrandt, che, proveniente da una famiglia della piccola borghesia di provincia – il padre era 

un mugnaio e la madre era figlia di un fornaio – dopo essersi trasferito ad Amsterdam nel 1632, raggiunse nel giro di pochi anni l’apice della sua carriera, soprattutto grazie all’attività molto produttiva di ritrattista. Inoltre, egli godette della dote consistente della moglie, figlia di un borgomastro, Saskia van Uylenburgh, che sposò nel 1634. Del resto, l’inventario redatto alla morte dell’artista (1669) mostra fino a che punto l’artista amasse circondarsi di oggetti esotici, parti di armature e vari esemplari del mondo animale e vegetale, fino a ricreare un vero e proprio cabinet de curiosité, tipico dei grandi collezionisti del XVI e XVII secolo[7]. Tutto questo va sommato ai dipinti, alle stampe e ai disegni che acquistava tramite le aste pubbliche. Baldinucci[8] lo criticava per il suo vizio di accumulare in casa vecchie armi e vecchi vestiti; in realtà, mentre le armi sono state confermate dall’inventario, i vestiti no: sembra infatti che Rembrandt si servisse soprattutto della sua raccolta di stampe per prendere “in prestito” gli abiti da mostrare nelle sue opere.

Per quanto riguarda gli autoritratti in cui si ritrae alla moda del suo tempo, questi sono in numero nettamente inferiore e sono concentrati nel periodo tra il 1631 e il 1633, forse perché si era da poco trasferito ad Amsterdam, dove iniziò a fare fortuna soprattutto come ritrattista (fig. 4). 

Trasferendosi da Leida ad Amsterdam, Rembrandt vide la sua fama accrescersi nel giro di pochi anni fino ad oltrepassare i confini olandesi. In certi casi, egli sfoggia addirittura abiti di una raffinatezza superiore alla sua estrazione sociale. Un anonimo avvocato di Amsterdam, J. Van B., nel 1662 scrisse un pamphlet in cui si lamentava della pratica comune alla classe borghese del suo tempo di girare per le strade della città abbigliati come se fossero dei nobili, con la seta e il velluto. I pittori erano tuttavia in qualche modo  giustificati dall’autore, perché ritenuti degli eccentrici per natura[9].

 Un’ulteriore tipologia di autoritratto mostra l’artista in abiti da lavoro ed è tipica soprattutto della produzione più matura dell’artista. Mentre molti altri pittori del suo tempo si rappresentano nel proprio studio sfoggiando abbigliamento molto formale, Rembrandt mostra sempre degli abiti umili, ma certamente più comodi per dipingere. Giovanni Paolo Lomazzo, nel 1590 scrisse che per un pittore, indossare gli abiti da lavoro era un segno di profonda umiltà verso la nobile arte della pittura; del resto, l’autore ricorda che lo stesso Dürer aveva l’abitudine di girare per strada vestito in abiti da lavoro[10].

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 Man mano che si avanza negli anni, il taglio che Rembrandt dà alla sua immagine si fa sempre più ravvicinato: l’abbigliamento risulta solo accennato, in quanto tutta l’attenzione dell’artista è focalizzata sul suo volto, ma anche in questo caso, l’artista lascia intravedere qualche accessorio che lo identifica come “pittore”, come il tipico berretto bianco di lino menzionato nell’inventario del 1669, oppure il pennello e l’appoggiamano (fig. 5).

​​

di Martina Panizzutt     

 

NOTE

[1] C. White, Q. Buvelot a cura di , Rembrandt by himself, 1999, National Gallery London Publications, pp. 125-128

[2] C. White, Q. Buvelot a cura di , Rembrandt by himself, op. cit., p. 61

[3] ibidem

[4] Il termine indica in generale scene narrative di ampio respiro, tratte dal mito, dalla Bibbia o da eventi storici, il genere considerato il più prestigioso in assoluto nel Seicento.

[5] S. Alpers, L’officina di Rembrandt: l’atelier e il mercato, 1990, Torino, Einaudi, p. 72.

[6] Si intende un autoritratto inserito all’interno di una composizione più complessa, opposto all’autoritratto indipendente, dove figurano solo le fattezze dell’artista.

[7] S. Zuffi, Lo specchio infranto, 2006, Milano, Longanesi, p. 34

[8] F. Baldinucci, Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua, 6 voll., 1681-1728, Firenze (in C. White, Q. Buvelot a cura di , “Rembrandt by himself”, 1999, National Gallery London Publications, p. 68)

[9] C. White, Q. Buvelot a cura di , Rembrandt by himself, 1999, National Gallery London Publications, p. 64

[10] G. P.Lomazzo, Idea del tempio della pittura, 1590, Milano, http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k111876v/f147.item.r=Lomazzo,+Giovanni+Paolo,+Idea+del+Te mpio+della+pittura.langFR.zoom, dalla Biblioteca Nazionale di Francia.

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Martina Panizzutt
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Martina Panizzutt

Caporedattrice Sezione di Arte

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Nel caso della ricostruzione dell’abito indossato da Paolina Adorno, alla meticolosa ricerca di soluzioni che rispettassero quelle originali dell'epoca si è aggiunta, per le indispensabili decorazioni a gallone presenti nell'abito, la costruzione di una passamaneria ad hoc, costituita da quattro elementi cuciti insieme. Ne sono stati impiegati oltre 150 metri, quantitativo già previsto nei libri di conti della famiglia Brignole-Sale. Nel 1626, infatti, per il solo corpetto dell'abito di Paolina, vennero spese 129 lire genovesi per 200 palmi (49 metri) di "lavor d'oro". A completare la ricostruzione, la gorgiera e i manicelli rifiniti in pizzo, secondo la moda dell'epoca, con l'utilizzo di notevoli quantitativi di materiale: 15 metri di pizzo per la gorgiera, 5 metri per ciascun manicello [17].

 

Per la scelta del tessuto, nell'ottica di avvicinarsi il più possibile ai colori originali dell'abito del ritratto di Van Dyck, si è ottenuta la collaborazione di Gianfranca Carboni del laboratorio San Donato di Genova, che nel 1997 ha restaurato il dipinto e che ha cortesemente fornito le prove di colore ottenute durante la pulitura.

Per tutti i costumi, la realizzazione ha comportato in primo luogo la rigorosa ricerca di linee e soluzioni sartoriali in grado di restituire il più fedelmente possibile l’immagine tramandata dai dipinti – impresa spesso non facile perché le "licenze pittoriche" di Rubens e Van Dyck (specie nelle proporzioni degli abiti e delle decorazioni) hanno reso spesso problematica la traduzione in concreto degli effetti visivi offerti dal dipinto. In secondo luogo si è cercato di completare gli abiti con decorazioni – ricami e gioielli – il più possibile aderenti al soggetto raffigurato.

Così, mentre l’abito di Paolina Adorno ha le maniche riccamente ricamate con motivi a foglie d’acanto, eseguite su rilievo dall’artista chiavarese Franco Casoni, per Caterina Balbi-Durazzo si è studiato il particolare damasco dorato delle maniche. Inoltre, per ciascuno dei due abiti è stato studiato uno specifico gallone dorato, realizzato appositamente avendo presenti i tipi dell’epoca presenti su abiti ecclesiastici (pianete) ancora conservati nelle chiese della diocesi di Genova.

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Martina Panizzut - Lucia Zavatti - Sebastian Victor Vug

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NOTE

 

1. Contrariamente a quanto si è abituati a leggere e a sentire, il rapporto che legava Van Dyck a Rubens era più di collaborazione che di discepolato, anche se è indubbia l’influenza che il più vecchio esercitò sul più giovane. Antoon infatti, si era già formato nella bottega del pittore H. van Baelen e, a soli 17 anni, aveva già aperto un proprio studio. Inoltre, nel 1618, contemporaneamente all’inizio della collaborazione con Rubens, l’artista entrò a far parte ufficialmente della Gilda di San Luca di Anversa, la corporazione dei pittori.

Si possono ritrovare queste informazioni su http://www.treccani.it/enciclopedia/antoon-van-dyck/, ultima consultazione il 3/01/2019

2. Bellori, Giovanni Pietro, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, 1672, p. 255

3. Bellori, Giovanni Pietro, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, 1672, p. 253

4. gruppo di danza storica fondato nel 1986 a Lavagna e diretto da Marco e Manuela Raffa, che si impegna e si diletta a ricostruire "danze, costumi e atmosfere", dal Medioevo al Seicento. La pagina ufficiale su http://www.legratiedamore.com/

5. ossia a metà strada tra la presentazione frontale e quella di profilo. Si tratta di una posa che permetteva di dare un’impressione di tridimensionalità, non sovrapponendo semplicemente la figura ad uno sfondo, ma inserendola verosimilmente in uno spazio fittizio.

6. Monica di Carlo e Luca Leoncini, https://genovaquotidiana.com/2016/05/22/caterina-balbi-durazzo-la-donna-del-ritratto-di-palazzo-reale/, ultima consultazione il 3/01/2019

7. http://www.archivi.beniculturali.it/archivi_old/sage/testi/balbi.pdf, ultima consultazione il 3/01/2019

8. per maggiori informazioni, consultare Grendi, Edoardo, “L’ascesa dei Balbi genovesi e la congiura di Gio Paolo” in Quaderni storici. Nuova serie, vol. 28, n. 84 (3), dicembre 1993, pp. 775-814

9. Leoncini, Luca, Museo di Palazzo Reale: catalogo generale, vol. 1, p. 154, 2008, ed. Skira, Milano

11. ivi, p. 155

12. Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, 1672, p. 256

13. http://www.museidigenova.it/it/content/anton-giulio-brignole-sale-cavallo-1627, ultima consultazione il 3/01/2019

14. Raffaella Besta, http://www.museidigenova.it/it/content/paolina-adorno-brignole-sale-1627, ultima consultazione il 3/01/2019

15. Cataldi-Gallo, Marzia, "Storia dell'arte, storia del costume e norme suntuarie", in Disciplinare il lusso, Muzzarelli, Maria Giuseppina, Campanini, Antonella (a cura di), pp. 183-202, 2003, Roma

16. https://www.baroque.it/abbigliamento-e-moda-nel-barocco/, ultima consultazione il 3/01/2019

17. Raffa, Marco, "Abiti tra danza e storia: ipotesi di ricostruzione", conferenza "Costume Colloquium II: Dress for Dance", 7-4 novembre 2010

 

BIBLIOGRAFIA

 

- Bellori, Giovanni Pietro, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, 1672

- Cataldi-Gallo, Marzia, "La moda a Genova nel primo quarto del Seicento" in "Van Dyck a Genova – grande pittura e collezionismo" , 1997, Electa

- "Per Una storia del costume genovese nel primo quarto del Seicento" in "Van Dyck 350 . Symposium" , Washington 1994.

- Berger jr, Harry, "Fictions of the Pose",2000, Stanford University Press

- Leoncini, Luca, Museo di Palazzo Reale: catalogo generale, vol. 1, p. 154, 2008, ed. Skira, Milano

- Jackson, Mrs. F. Nevill, “Lace of the Vandyke Period”  in The Connaisseur, Vol.2 (1902)

-“I classici dell’arte”, Corriere della Sera, L.E.G.O. S.p.a. 2012

 

SITOGRAFIA

- http://www.legratiedamore.com/

- http://www.restituzioni.com/opere/ritratto-di-caterina-balbi-durazzo/

- http://www.treccani.it/enciclopedia/antoon-van-dyck/

- www.arthemisia.it

 

- www.museidigenova.it

 

- http://siusa.archivi.beniculturali.it/cgi-bin/pagina.pl?TipoPag=prodfamiglia&Chiave=39779

- https://www.baroque.it/abbigliamento-e-moda-nel-barocco/la-moda-maschile-dal-1550-al-1600.html

 

IMMAGINI

- figura 1. dettaglio, Antoon van Dyck, Ritratto della Marchesa Balbi, 1623, olio su tela, 196,5 x 133,8 cm, National Gallery of Art, Washington

- figura 2. Antoon van Dyck, Autoritratto, 1622-1623, olio su tela, 116,5 x 93,5 cm, the State Hermitage Museum, San Pietroburgo

- figura 3. Antoon van Dyck, Ritratto di Caterina Balbi Durazzo, 1624, olio su tela, 220,2 x 149 cm, Palazzo Reale, Genova

- figura 4. Antoon van Dyck, Ritratto di Marcello Durazzo, 1624, olio su tela, 205 x 125 cm, Galleria Franchetti, Ca’ d’Oro, Venezia

- figura 5. Antoon van Dyck, Ritratto di Paolina Adorno Brignole-Sale, 1627, olio su tela, 286 x 151 cm, Palazzo Rosso, Musei di Strada Nuova, Genova

- figura 6. Antoon van Dyck, Ritratto di Anton Giulio Brignole-Sale, 1627, olio su tela, 282 x 198 cm, Palazzo Rosso, Musei di Strada Nuova, Genova

- figura 7. Antoon van Dyck, Ritratto di Geronima Sale-Brignole con la figlia Maria Aurelia, 1627, olio su tela, 226,3 x 151,8 cm, Palazzo Rosso, Musei di Strada Nuova, Genova

- figura 8. fotografia di Chiara Costa, dettaglio della manica della ricostruzione dell’abito di Caterina Balbi Durazzo, 2018, modella Elisa Girotti, Le Gratie d’Amore

- figura 9. fotografia di Chiara Costa, dettaglio dell’acconciatura e della gorgiera della ricostruzione dell’abito di Caterina Balbi-Durazzo, 2018, modella Elisa Girotti, Le Gratie d’Amore

- figura 10. Ricostruzione dell’abito di Paolina Adorno, Fernanda Venturini

- figura 11. fotografia di Chiara Costa, dettaglio delle maniche dell’abito di Paolina Adorno Brigole-Sale, 2018, modella Daniela Raffa, Le Gratie d’Amore

 

 

Come i ritratti devono essere animati dallo sguardo dello spettatore per assolvere le loro funzioni, così gli abiti vanno indossati affinché possano effettivamente parlare di sé: con la collaborazione del gruppo di rievocazione Gratie d’Amore si è cercato di far rivivere gli abiti di Caterina Balbi Durazzo e Paolina Adorno Brignole-Sale all’interno delle stanze di Palazzo Rocca di Chiavari. Fatto costruire dalla famiglia Costaguta tra il 1626 e il 1635 su progetto del celebre architetto Bartolomeo Bianco (padre di via Balbi e, tra gli altri di palazzo Balbi-Senarega e del Collegio dei Gesuiti, ossia rispettivamente delle sedi della Scuola di Scienze Umanistiche e dell’Ateneo genovese), custodisce oggi una ricca pinacoteca e preserva l’arredamento e le decorazioni delle stanze storiche del palazzo, così come vennero ristrutturate nell’Ottocento dall’ultimo proprietario, Giuseppe Rocca. Un’occasione unica per mettere a confronto abiti e ritratti e farli dialogare all’interno di un contesto certamente diverso da quello di origine, ma ugualmente evocativo. 

Questo fecondo dialogo è stato reso possibile grazie alle due modelle del gruppo Gratie d’Amore che hanno indossato - e quindi dato vita - agli abiti, Elisa Girotti e Daniela Raffa, ed è stato “catturato” dalla nostra fotografa di redazione, Chiara Costa, che ha saputo cogliere nei suoi scatti il bagliore prezioso dei ricami in oro e il nobile portamento delle dame tra le stanze decorate di Palazzo Rocca. 

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