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 Sezione di Musica

 

The white bird

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The White Bird

Interessante commistione di musica elettronica e orchestrale, The White Bird, album d’esordio del musicista Aléxein Mègas, si presenta in tutta la sua scorrevolezza e fluidità. Non si tratta di un concept EP, ma non siamo poi così lontani: «Ciò che accomuna i vari episodi presenti è l’imperterrita ricerca del proprio posto nell’universo da parte dell’uccello protagonista», spiega lo stesso autore. Quello che Alèxein Mègas vuole raccontarci è un percorso che porta alla libertà; a rompere gli schemi che la società ci impone, proprio come cerca di fare l’uccello bianco. L’animale, infatti, rappresenta «lo stato emotivo e mentale di un individuo che, metaforicamente imprigionato in una gabbia, affranto dalla noiosa sistematicità di una vita piena di vincoli sociali, cerca una via di fuga al fine di essere libero. Un percorso tortuoso e una lotta tra stati emotivi che alternano urla di rabbia, bisogno di solitudine e voglia di amore e libertà».

Con The White Bird, Aléxein Mégas denuda la sua anima per condividere i suoi pensieri e le sue emozioni; ci racconta una storia, il vissuto dei suoi ultimi anni. Ciò che ascoltiamo, insomma, sono stati d’animo musicati.

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Una musica concettuale, se vogliamo, che nasce dal bisogno di liberarsi, esprimersi e raccontare agli altri;  che cattura l’ascoltatore, coinvolgendolo in un in una storia che diventa anche la sua. Con il sottofondo di The White Bird i pensieri prendono vita, ed ogni traccia si trasforma nella colonna sonora di momenti passati e presenti che tutti abbiamo in comune, perché nessuno è veramente libero, fino a quando non decide di esserlo.

«The White Bird rappresenta uno stato mentale appartenente all'essere umano, rapportato ed immerso nella società odierna. Tutti che si affannano, tutti che corrono per raggiungere i propri obbiettivi perdendo, in realtà, di vista il vero scopo di ogni singolo respiro, di ogni singolo attimo condiviso con gli altri».

Ma il lieto fine c’è, e possiamo non soltanto ascoltarlo, ma anche vederlo: nel video ufficiale della title track,  velatamente autobiografico, è mostrato il percorso faticoso ed ingarbugliato di un uomo, che, però, si rivela la strada verso la tanto desiderata serenità.

Linda Vassallo

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Beatles e Pink Floyd come precursori del progessive rock

10 Ottobre 1969. La pubblicazione dell’album d’esordio dei King Crimson, In the Court of Crimson King, segna ufficialmente la nascita del progressive rock. Inizialmente, molte sono le incertezze della critica riguardo a questo nuovo genere del rock, talvolta considerato troppo ambizioso o bistrattato perché ritenuto pomposo.

Precursori progressive rock
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In the Court of Crimson King

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Quando nel 1971 esce Acquiring The Taste dei Gentle Giant, il “manifesto programmatico” del progressive rock è irrevocabilmente definito. «Il nostro obiettivo è quello di espandere le frontiere della popular music, a rischio di diventare molto impopolari» è ciò che si legge sulla copertina dell’album, nonché la comune aspirazione dei gruppi aderenti alla nuova ondata progressive. In altre parole, innalzare lo status del rock; cambiare il gusto, dare vita a “composizioni” e non più a “canzoni”. La strada da seguire è quella del virtuosismo individuale e di gruppo e delle tematiche psichedeliche; di un suono che non supera la prova del primo ascolto, ma che conquista il pubblico in un secondo momento, quando ad entrare in gioco è la riflessione sulla raffinatezza tecnica degli esecutori; del rispetto di convenzioni e norme tecnico-formali che ne definiscono fisionomia e statuto come l’elaborazione di concept album, la presenza di tastiere e strumenti prima d’allora estranei al rock, l’uso di musica scritta e di metri additivi(1). Un lungo percorso, questo, che culminerà quando i gusti degli ascoltatori, una volta per tutte, saranno pronti e ben disposti ad essere modellati. Cosa spinge gruppi come Jethro Tull, Genesis e Yes ad inoltrarsi nella strada del cambiamento, è la volontà di avvicinarsi a criteri di composizione tipici della musica colta, con l’obiettivo di trasformare uno dei generi più amati della popular music, il rock, in una forma d’arte.

 

Sebbene i gruppi sopracitati siano tra i capisaldi del genere, le radici del progressive rock vanno ricercate altrove.

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Acquiring The Taste

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La scintilla progressive divampa nella Londra degli anni ‘60, quando il concerto rock diventa una performance artistica. All’epoca i Pink Floyd si esibivano all’UFO club(2). Furono proprio loro, insieme ai Soft Machine, i primi a lanciare il prototipo del light show(3): uno spettacolo che, mescolando musica e immagine, regalava un’esperienza multi-sensoriale e psichedelica, assumendo la fisionomia di un evento d’arte performativa. L’importanza dell’aspetto tecnologico, l’utilizzo di luci e scenografie, la sperimentazione timbrica, le composizioni lunghe e articolate sono aspetti che dominano gli album dei Pink Floyd sin dai tempi di The Piper At The Gates Of Dawn (1967) e A Saucerful Of Secrets (1968). Tuttavia il dibattito riguardo all’appartenenza di tale gruppo al genere progressive, ancora divide fan e appassionati.

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Accusati di fare una musica più fascinosa che difficile, di gigantismo e autoreferenzialità – vizi capitali delle band progressive –, i Pink Floyd spesso furono (e sono) messi a margine di quel nucleo gruppi ritenuti simbolo di esemplarità per il genere; gli stessi che dettarono quella serie di norme comuni che ne costituiscono il nocciolo. Il più grande omaggio dei Pink Floyd alla poetica progressive è probabilmente l’album Atom Heart Mother (1970), ricco di effetti e timbri orchestrali, pur rigorosamente in metri non additivi. 

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Atom Heart Mother

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Certo il progressive rock è il risultato di un graduale processo di apprezzamento e assaporamento di un nuovo gusto musicale, maturato completamente solo tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ’70. Ma è curioso notare come alcuni elementi costitutivi delle pratiche e delle aspettative caratteristiche di tale genere, fossero già legati alla musica di gruppi angloamericani in classifica tra la fine degli anni ‘50 e i primi anni ‘60. L’attenzione al sound, all’arrangiamento, all’uso di soluzioni melodiche, armoniche e ritmiche originali – mirate unicamente a sorprendere e stupire gli ascoltatori – ne sono un esempio.

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Nel ‘63 a spopolare nelle classifiche sono i Beatles, che, dopo un esordio votato alla commercialità, ben presto dimostrano di voler andare oltre la ricetta iniziale del proprio successo. Si trovano, negli album ancora precedenti a Rubber Roul (1965), canzoni contraddistinte da armonie ambigue, sequenze di accordi insolite e parti vocali complicate. Un esempio è rappresentato da If I Fell del 1964, ma ancora più significativa è I Feel Fine – da alcuni considerata la prima antenata del progressive rock inglese – nella quale si trovano giustapposizioni tra sezioni corali omofoniche(4) e sezioni dove domina la polifonia strumentale(5). Effetti di spiazzamento, introduzione di suoni nuovi ed esotici si trovano nella produzione dei Beatles per tutto l’arco del 1965: la chitarra elettrica nel bridge finale di Ticket To Ride, il quartetto d’archi di Yesterday, il sitar in Norvegian Wood, sono solo alcuni esempi. Nel ‘67 esce Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, il primo album ad essere creato come l’opera. Un concept EP, spesso ritenuto il primo in assoluto – anche se Revolver (1966) fu probabilmente il primo vero tentativo di creare un lavoro unitario –, che mette in gioco la nuova vena psichedelica dei Beatles, presto sfoggiata anche in Magical Mystery Tour, notevole soprattutto per una canzone, I am The Walrus, che ne intensifica l’estetica psichedelica e che sarà presa a modello dai gruppi progressive dei primi anni ‘70. Con l’uscita di Sgt. Pepper’s, da sottolineare è la tendenza del pubblico a considerare l’album lp qualcosa in più rispetto ad una raccolta occasionale di canzoni che hanno già riscosso successo in qualità di singoli; i fan attendono l’album per giudicare se il loro gruppo preferito si sia cimentato in qualcosa di veramente nuovo e stupefacente. Con i Beatles, infatti, ogni album introduce sound inediti, soluzioni al primo ascolto sconcertanti, che solo successivamente riescono a conquistare l’ascoltatore, catturando maggiormente l’attenzione della critica. Infine, con Abbey Road, del ‘69, i Fab Four

(6)si ripresentano sulla scena nei panni del primo gruppo progressive rock, proponendo un repertorio che va dall’accenno a virtuosismi allo sfoggio di atmosfere oniriche prodotte da archi, fiati e pianoforte.  

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 Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band

 Magical Mystery Tour

Per concludere, i Beatles di Sgt. Pepper’s e Magical Mystery Tour e i Pink Floyd degli esordi, ebbero un ruolo chiave nella nascita del progressive rock, tanto da poterne essere considerati a pieno titolo i precursori.

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Linda Vassallo

NOTE:

1 Tempi dispari

2 Famoso locale londinese fondato nel ‘66, frequentato da band appartenenti alla scena underground della capitale britannica.

3 Spettacolo composto da luci e fumi utilizzato come coreografia utilizzato da molti gruppi tra la metà degli anni ‘60 e i primi anni ‘70.

4 Coro eseguito da più voci all’unisono.

5 Musica in cui sono combinate due o più voci, vocali o strumentali, indipendenti.

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BIBLIOGRAFIA

FABBRI F., Around The Clock – Una breve storia della popular music, Da Agostini Libri S.p.A, Novara, 2016.

FABBRI F., Il suono in cui viviamo – Saggi sulla popular music, Il Saggiatore, Milano, 2008.

ZANETTI F., Il libro bianco dei Beatles – La storia e le storie di tutte le canzoni, Giunti Editore, Firenze, 2012. 

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"... E giustizia per tutti", soprattutto per i METALLICA

And Justice for All

Pubblicato il 5 settembre 1988, quest'anno il quarto album in studio dei Metallica compie 30 anni e rappresenta un'importante svolta per la band dopo la prematura morte del bassista Cliff Burton e la pubblicazione di "Master of puppets", il loro capolavoro irraggiungibile. Il quartetto statunitense rientra in studio sapendo di aver raggiunto l'apice della propria carriera e dovendo nel contempo affrontare la perdita di un componente e grande amico. Su queste premesse nasce "..And Justice for All", il loro primo lavoro considerato più "commerciale", grazie al quale la band viene catapultata nel panorama internazionale. Seppur non criticato quanto la coppia Load-Reload e il detestato St. Anger, la registrazione lascia insoddisfatti i fan e passa alla storia come "il disco senza basso", tanto che alcuni dichiarano terminata la carriera del gruppo dopo solo 3 album. Jason Newsted, già conosciuto per aver suonato nei Flotsam and Jetsam, prende il posto del leggendario Cliff ed entra nel mondo dei Metallica con assoluto rispetto per quanto egli aveva realizzato nella stesura dei testi e nella creazione delle melodie. Inoltre, l'anno precedente aveva già registrato con la band The $5.98 E.P.: Garage Days Re-Revisited, al cui interno troviamo alcune cover che confluiranno nella successiva raccolta Garage Inc.

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Sebbene non sia un concept album, il materiale dei testi attinge ai fatti politici dell'epoca accompagnati da un groviglio di parti tecniche, tanto da essere definito da alcuni più progressive che thrash metal. Jason collabora alla stesura della traccia d'apertura, ovvero Blackened, focalizzata sulla distruzione della Terra e della razza umana. "Termination, expiration, cancellation, human race. Expectation, liberation, population, lay to waste. See our mother put to death, see our mother die." Passiamo alla title-track, la famosissima And Justice for All. "Halls of justice painted green, money talking": qui si parla di falsa giustizia e di come spesso i giudici siano corrotti e ricevano soldi per risolvere i processi. "Justice is lost. Justice is raped. Justice is gone. Pulling your strings. Justice is done." e allora la Lady Justice della cover è un monito per l'uomo che ha il compito e il dovere morale di restaurare la vera giustizia. Si tratta di una delle tracce più lunghe assieme alla strumentale To Live Is to Die, entrambe sfiorano i 10 minuti di durata. Eye of the Beholder è il secondo singolo estratto dall'album. "Freedom of choice is mad for you my friend. Freedom of speech is words that they will bend. Freedom with their exception." Hetfield e compagni riflettono sul tema della mancanza di libertà di espressione, con sonorità contorte e ritmi sincopati che non troviamo nei precedenti lavori.

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Ho avuto l'onore di vedere dal vivo i Metallica, che sono una delle mie band preferite da quando sono piccola, ben due volte, nel 2015 e nel 2018 e posso assicurare che poche volte nella mia vita ho avuto i brividi come quando parte l'intro di One. Si tratta di uno dei capolavori assoluti della band e non manca mai in scaletta. I Metallica amano essere pirotecnici e durante l'esecuzione di questo brano vengono spesso usati dei laser per simulare i proiettili, infatti l'ambientazione è quella della guerra e il protagonista è un uomo che ha perso sia le braccia che le gambe e può vivere solo grazie a dei macchinari. Nel finale incalzante il testo  si trasforma in una sorta di componimento che potremmo definire ermetico per contenuto e forma. "I cannot live. I cannot die. Trapped in myself. Body my holding cell." Le parole sono inquietanti, ma lo è altrettanto il videoclip musicale, che è anche il primo realizzato dalla band. L'ispirazione viene dal film E Johnny prese il fucile del 1971 e dall'omonimo romanzo, entrambi desunti da un fatto realmente accaduto, il che rende il tutto più angosciante di quanto già non lo sia.

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Segue The Shortest Straw, non meno felice della precedente dato che questa volta i protagonisti sono due coniugi che vennero condannati a morte come spie dell'Unione Sovietica durante la guerra fredda. "Suspicion is your name. Your honesty to blame. Put dignity to shame dishonor. Witch hunt modern day." E' chiara la volontà dei Metallica di creare un'ambientazione inquietante e macabra, che ritroviamo in Harvester of Sorrow, nonostante il suo significato sia abbastanza ambiguo.  Potrebbe trattarsi di un uomo che sprofonda negli abissi della pazzia e nel vizio dell'alcol, tanto da giungere ad uccidere la sua famiglia, compresi i figli. "All have said their prayers. Invade their nightmares. To see into my eyes. You'll find where murder lies." Dagli omicidi passiamo alla schizofrenia, ai sintomi e alle paure di chi è costretto a convivere con questa malattia in The Frayed Ends of Sanity. "Old habits reappear. Fighting the fear of fear. Growing conspiracy. Everyone's after me." E' il momento della sopracitata To Live Is to Die, una delle poche strumentali realizzate dalla band e l'ultimo indiretto omaggio allo scomparso Cliff e alla sua breve ma intensa carriera. Solo poche lapidarie parole,  tra cui "Cannot the kingdom of salvation take me home?" perchè questa volta è la musica a parlare. Chiudiamo con Dyers Eve, un ricordo dell'infanzia di Hetfield, in particolare il suo rapporto con i genitori. "Dear mother, dear father. What is this hell you have put me through?"

Tanti auguri And Justice for All!

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James Hetfield ricorda Cliff Burton con queste parole nel 2016: "Lui mi ha insegnato questo, lo sai? Lui mi ha aiutato insegnandomi che è giusto essere diversi e difendere ciò in cui credi. Non è necessario avere tutte le munizioni del mondo per combattere la guerra, sii semplicemente te stesso. E' sufficiente."

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Roberta Rustico

Recensione "ENJOY THE VOID"

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Enjoy the Void

Enjoy the Void è un progetto alternative rock ideato nei primi mesi del 2014 dalla mente del calabrese Sergio Bertolino, autore, compositore, cantante e tastierista, ma nato ufficialmente a Sapri nel 2015. Insieme a Sergio, a formare la band sono Tony Guerrieri al basso, Francesco Magaldi alla batteria, i chitarristi Lucio Filizola e Giuseppe Bruno ed il fonico Giovanni Caruso.

L’ascolto di Enjoy the Void, omonimo album d’esordio della band campana, si è rivelato una continua sorpresa. Traccia dopo traccia, infatti, ci ritroviamo immersi in atmosfere diverse e difficilmente prevedibili, caratterizzate da un sound generato dall’intreccio di molteplici generi: dal rock, all’elettronica, passando per il jazz, il pop ed il funk. Un eclettismo di fondo, questo, che non ha precluso alla band la creazione di un sound personale, un marchio di fabbrica riconoscibile in ogni pezzo dell’album. A risuonare è un clima inglese dall’impronta fortemente new wave. Non a caso  gran parte del materiale confluito nell’album ha preso forma durante il soggiorno di Sergio Bertolino a Manchester. «La più grande ambizione degli Enjoy the Void è elaborare uno stile personale, originale, che può richiamare tante cose, senza però assomigliare a nulla» spiega lo stesso Bertolino.

Con The Most Sublime, traccia d’apertura, a presentarci il sound degli Enjoy the Void sono un  ritmo lento ed una voce che si adatta perfettamente alla melodia ed è sostenuta da raffinate parti di chitarra solista. L’aura romantica che percorre l’intera canzone è immediatamente spezzata dall’attacco di Nanaqui, pezzo più energico, caratterizzato da un riff elettrico che ci trasporta in un’atmosfera, si potrebbe dire, spaziale. A seguire Our Garden, una lenta ballad  in cui il piano e la voce impregnano il pezzo di quel retrogusto malinconico che ne fa una perfetta canzone d’amore. Doubt attacca subito dopo. Qui il ritmo è “funkeggiante” e le sonorità sono nuovamente elettroniche, mentre linea di basso è limpidamente presente. Sprazzi di xilofono e cori sono il condimento di una traccia che si rivela tra le più  ricercate dell’album. In The Usual Blues, tra spunti elettronici e cori, a risaltare sono una voce che a tratti si fa più sporca ed un groove quasi ipnotico.

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Tracce come Something strange e A Prayer mettono particolarmente in risalto i richiami a band come Kasabian e Oasis, quest'ultimi tra l'altro fondatisi a Manchester. Lo stile di quest'ultime, infatti, oscilla tra l'alternative e l'indie rock, con sonorità prettamente 'britanniche' che risultano essere poco tipiche nel panorama underground italiano. Night è un breve intermezzo di quasi due minuti che ci traghetta verso la fine dell'album ed è seguita da Don't tell me no, che sembra abbandonare momentaneamente le sonorità fresche e godibili delle tracce precedenti per assumere uno stile un po' jazz e blues, ma anche hard rock sul modello dei Led Zeppelin. Stay away è la traccia più corta assieme alla già citata Night e se volessimo continuare a cercare un riferimento nel panorama della musica britannica, in questo caso ho avuto l'impressione di ascoltare una demo dei Muse, soprattutto per la componente elettronica tipica del trio di Devon. L'album si chiude con Song for the forgotten one e questa volta tra i gruppi che hanno ispirato la band potremmo citare anche i Depeche mode, per confermare ulteriormente il grande debito nei confronti della musica inglese.

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Insomma, non possiamo nominare gli Enjoy the void senza collegarli subito al sound britannico presente e passato. Nonostante l'obiettivo della band sia quello di creare un sound personale, i richiami ad altri gruppi sono frequenti ed evidenti, ma l'album nel complesso risulta ben riuscito e molto scorrevole all'ascolto.

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Linda Vassallo - Roberta Rustico

I TODAY'S INMATES presentano NO MAN'S LAND 

Today's Inmates

Immaginate di essere nel bel mezzo del deserto, a bordo di una jeep impolverata, sotto il sole cocente, mentre tutt’intorno regna la desolazione. Questa è la sensazione che ho provato nell’ascoltare No Man’s Land, title track del primo album della band cuneese Today’s Inmates. La stessa atmosfera desertica che ritorna nell’ultima traccia, quasi a completare una cornice. Ciò che lega le canzoni dell’album, ci rivelano i Today’s Inmates, sono soprattutto le tematiche: «Riguardando indietro ai pezzi scritti in questi anni, i testi sembrano ruotare tutti attorno al tema della violenza, e alla lotta ai suoi effetti negativi. È un risultato piuttosto casuale ma fisiologico se pensiamo che, in effetti, l’ingiustizia e la guerra sono tematiche centrali in questo periodo, in cui siamo tutti spinti a trovare un nemico per forza, da biasimare ed incolpare di tutto ciò che va male sia nel nostro Paese, sia nella vita quotidiana».

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Southern Hard’n’Heavy, così definiscono il proprio genere musicale. Ci troviamo nella terra di mezzo fra hard rock ed heavy metal, ma mai così lontano da influenze alternative. Il loro sound – come suggerisce “southern” – è soprattutto caratterizzato dalla capacità di evocare lucidamente atmosfere legate al territorio. «Il termine è nato da chi ci ha sentito suonare agli inizi, e crediamo sia abbastanza calzante. Sicuramente siamo amanti di atmosfere country e desertiche come quella ricreata in “No Man’s Land”, prima traccia del disco, ma siamo sempre alla ricerca di suoni e sfumature diverse. Per ogni pezzo, soprattutto ultimamente, cerchiamo di generare un “mood” specifico, in modo che ognuno di essi rappresenti, se vogliamo, una situazione o uno stato d’ animo ben definito» spiegano i Today’s Inmates. Sorprendente è infatti la maestria con la quale, in Black Forest Dance, la chitarra si trasforma in cornamusa, catapultandoci in quelle regioni inglesi di tradizione celtica. Certamente una delle perle dell’album, sebbene con questo pezzo la band abbia cercato di esplorare suoni nuovi, lontani dal proprio stile; un vero e proprio cocktail di ritmo ed energia, che, dopo un intro lento, scoppia in un chorus nel quale “cornamusa” e chitarra ritmica s’intrecciano sapientemente. A proposito del pezzo, ci raccontano: «In effetti il “mood” della canzone è nato, appunto, proprio dalla volontà di esplorare suoni un po’ diversi da quelli a cui siamo abituati. È stato un esperimento che si è rivelato divertente, e ha aperto nuove porte che non vediamo l’ ora di indagare nel prossimo lavoro».

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A seguire due canzoni che lasciano il segno. La prima è Holy Wizard, caratterizzata da un groove accattivante e da una voce rude e sporca, perfettamente in armonia con il sound aggressivo e distorto. Un chorus orecchiabile e ritmato è invece ciò che rende War Paint una canzone quasi ipnotica. Particolarmente apprezzabile è il cantato, che qui si fa più melodico e seducente. Il finale lascia posto ad un azzeccato assolo di chitarra che ne richiama il riff centrale.

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Un groove ritmato ed un breve accenno a quell’atmosfera desertica che già conosciamo, è ciò che caratterizza Law’s For Animal, meno incisiva rispetto alle precedenti, ma non per questo poco attraente. Buono anche l’assolo centrale, sebbene un pochetto corto. Wise Man è una di quelle tracce che mettono in secondo piano la voce, valorizzando lo strumentale. Malgrado questo intento, ciò che coinvolge l’ascoltatore è soprattutto un chorus a metà fra il melodico e l’urlato, supportato da echi e cori, che verso il finale lascia posto ad un assolo tutt’altro che banale. Segue Liar, una canzone che rimane in testa grazie al ritornello che ricorda un “coro da stadio”. Primal Land è un pezzo godibile, nel perfetto stile della band, ma non particolarmente memorabile. Lo stesso si può dire per Will You Kill, penultima traccia dell’album. Trovo invece When You Miss The Sun la perfetta chiusura per No Man’s Land. Qui, l’atmosfera nella quale ci immerge l’intro, è quella di un sole che, scomparendo dietro le dune, lascia il posto all’oscurità. Un cerchio che si chiude, insomma, partendo da una mattinata assolata nel deserto, finendo con il buio che dipinge di scuro la sabbia.

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No Man’s Land è assolutamente un album che vale la pena di ascoltare. Se vi abbiamo incuriositi e volete saperne di più, ecco di seguito qualche altra domanda che abbiamo posto ai Today’s Inmates.

Ciao ragazzi, come state? Illustrateci la formazione dei Today’s Inmates e raccontateci come vi siete conosciuti.

Ciao! La formazione attuale, risultato di evoluzioni durante gli anni, vede Mattia Rebuffo alla voce e chitarra, Filippo Uberti alla chitarra, Edoardo Sciandra al basso e Matteo Borgna alla batteria.

Come tante band, la nostra è iniziata con un paio di ragazzini in saletta, con il desiderio di avere la propria band, proprio come “i ragazzi grandi”.

Con il tempo, il gruppo ha visto alcuni cambi di formazione, fino a giungere a quella attuale.

 

Quali sono state le reazioni di chi vi sta attorno nell’ascoltare il vostro primo album?

Siamo molto felici che amici e famiglie siano stati così di supporto lungo tutto il periodo di realizzazione. Una volta uscito, tutti quelli che già ci conoscevano e seguivano il progetto si sono attivati per aiutarci a promuovere il disco, e la risposta è stata sorprendente.

È stato, ed è tuttora, motivo di grande orgoglio vedere che anche gente abituata a generi diversi ha speso il tempo per congratularsi, o semplicemente per dare un parere.

 

Scegliere il nome della band è stato semplice? Come siete arrivati a Today’s Inmates?

Il nome è nato quando eravamo ragazzini, e nel tempo ha acquistato un diverso significato per ognuno di noi. L’ idea di base che sta dietro a “Today’s Inmates” e di rappresentare la condizione di giovani che si sono ritrovati a suonare in un ambiente in cui la musica è spesso poco coltivata ed incoraggiata.

 

Quali band vi sono state d’ispirazione per plasmare il vostro stile personale?

Siamo soliti pensare che uno dei fattori che influenzano il nostro processo di scrittura sia il fatto che ascoltiamo tutti generi un po’ diversi, ed è stato sempre così;

Alcune delle band che più hanno influenzato ciò che suoniamo sono: Alter Bridge, Black Stone Cherry, Tremonti, Dorje, Black Label Society, Velvet Revolver, Mastodon…

 

È stato impegnativo scrivere i testi delle canzoni in inglese? Si tratta semplicemente di una scelta stilistica oppure l’idea è quella di coinvolgere un pubblico più ampio?

In realtà quella dell’ inglese è stata una scelta naturale fin dall’inizio. Il genere è storicamente inglese ed americano, e non sentivamo la necessità di tradurlo in italiano. Inoltre, spesso e giustamente la musica italiana fa molto affidamento sul testo per comunicare, mentre tendiamo a mettere al primo posto la musica. Cerchiamo di comunicare più con l’ atmosfera creata dai pezzi che con le parole in modo diretto, sebbene nessuna di esse sia mai scritta a caso.

 

Se non sbaglio sulla copertina di No Man’s Land è raffigurato un gufo. Che cosa rappresenta?

Il gufo è un po’ un richiamo all’ ambito southern, un po’ una mascotte ironica in contrasto con le solite tigri ed aquile, e rispecchia anche lo spirito della nostra musica, che non vuole essere necessariamente sempre aggressiva, ma assume varie sfumature.

 

Quattro anni di lavoro, ma alla fine ne è valsa la pena sentito il risultato. Davvero un ottimo album! Vi saluto chiedendovi ancora dove potremo venire a sentirvi prossimamente.

Grazie molte dei complimenti!

Saremo headliner al Cerveza Fest di Ceva Venerdì 20 Luglio, suoneremo al Padiglione 14 di Torino ad Ottobre e ci potremo vedere alle altre date previste per l’ estate, che potete consultare qui: bit.ly/todaysinmates

Vi ringraziamo molto del vostro tempo e speriamo di vedervi ad uno dei prossimi concerti!

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Linda Vassallo 

Le origini del Rock

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Un genere rivoluzionario: il rock’n’roll

“Noi ora siamo più popolari di Gesù. Non so cosa finirà prima, se il rock'n'roll o il Cristianesimo.”(1) – afferma John Lennon nel 1966, condannando i Beatles ad essere bollati dal Vaticano come satanici. Il rock’n’roll si dimostrò talmente rivoluzionario da poter permettere simili paragoni.

origini del Rock

Immagine 1: The Beatles

 

È il 1949 quando, negli Stati Uniti, la nota rivista musicale Billboard – punto di riferimento delle industrie discografiche Americane – sostituisce, nella propria classifica dei generi, l’etichetta Race music della musica blues afroamericana con quella di Rhythm & Blues (R&B), al fine di rimarcare tale genere come più ritmato, ma in realtà con l’intento primario di renderlo meno discriminatorio: i giovani americani bianchi, infatti, ascoltano il blues dei neri, rivelandosi preziosi consumatori sui quali il mercato musicale può azzardarsi a scommettere.

 

Quest’ultima è la premessa che porta alla nascita del rock’n’roll, il quale, perlomeno inizialmente, risponde ad una strategia di mercato puramente mirata a rendere più accessibile e consumabile una categoria musicale che già esiste. Pur assommando caratteristiche inedite (come la presenza di sonorità country e western), infatti, il rock’n’roll non è altro che il Rhythm & Blues tipicamente “nero”, riconfezionato e ripulito dagli elementi fortemente connotati dal punto di vista sessuale e razziale, cantato dai bianchi per i bianchi. Se inizialmente ad essere rivenduti sotto questa nuova etichetta sono cantanti afroamericani veterani del R&B, il primo tentativo di addolcire gli spigolosi tratti del rock’n’roll, si verifica nella seconda metà degli anni ‘50 col lancio sul mercato di molti artisti bianchi.

 

La parola rock’n’roll compare per la prima volta in un pezzo di Rhythm & Blues chiamato Sixty minute man (1951) – brano lento e rullante riempito da arrangiamenti di chitarra elettrica. Si tratta di una parola che, nella sua paradossalità, non soltanto si rifà al ballare, ma è anche un chiaro riferimento al sesso. La prima attestazione di tale termine in qualità di semi-ufficiale risale all’avvento della trasmissione radiofonica di Alan Freed(2): The Moon Dog House Rock’n’Roll Party. La svolta, però, arriva con Shake, Rattle and Roll di Big Joe Turner (1954), destinato a diventate il più antico singolo della storia del rock’n’roll.

Immagine 2: Elvis Presley

 

Secondo la mitologia del rock – come racconta Francesco Ceccamea(3) – la scintilla si accese nell’attimo in cui, tra la Highway 61 e la 49, una “nullità” di nome Robert Johnson(4) prese in mano la chitarra per la prima volta. Sarà proprio lui ad ispirare grandissimi musicisti come Eric Clapton e Jimi Hendrix. A lasciare un segno indelebile è Elvis Presley, anche noto come il Re del rock’n’roll, scoperto da un produttore discografico quando, per fare una sorpresa alla madre, si reca ai Sun Studios con l’intento di incidere una ballata ascoltata alla radio. Insieme a lui, a fare la storia sono idoli come Hank Williams, Billy Haley, Buddy Holly, Little Richard, Chuck Berry, Jerry Lee Lewis e Johnny Cash.

 

Un incentivo allo sviluppo del rock(5) è l’avvento degli strumenti elettrici. La prima chitarra elettrica risale agli anni ‘30: The Log è il primo prototipo funzionante. Nel 1951 Leo Fender brevetta la Broadcaster, poi chiamata Telecaster, ed il basso elettrico. Nel 1952, è il turno di Gibson Les Paul, il quale introduce un nuovo modello detto solid body, che ribattezza con il proprio nome.

 

A promuovere questo nuovo genere, ingegnosa commistione di elementi tipicamente blues, country & western, R&B, jazz, boogie-woogie e folk, sono soprattutto la radio e la televisione. È infatti durante il Milton Berle Show che nel ‘56, un esordiente Elvis Presley, destando scandalo per una performance arricchita da spregiudicati movimenti pelvici, guadagna il soprannome di The Pelvis. In quegli anni una tappa obbligatoria dell’affermazione di ogni nuovo genere musicale è la sua etichettatura, da parte del senso comune, come trasgressivo e potenzialmente dannoso, ancor più se accompagnato da un ballo definito licenzioso. Per il rock’n’roll, ad alimentare una simile visione è soprattutto l’uscita nelle sale cinematografiche di Blackboard Jungle (1955) – in Italia conosciuto come Il seme della violenza –, film focalizzato sul tema della devianza giovanile, per il quale venne utilizzata la celebre Rock Around The Clock come colonna sonora. Provocando scalpore – o meglio, panico morale(6) –, Blackboard Jungle, in Italia, inizialmente fu addirittura censurato. Degna di nota è la copertina de La Domenica del Corriere datata 7 Ottobre 1956 con la quale fu presentato per la prima volta – in veste ufficiale, s’intende – il rock’n’roll: un ballo pericoloso. Uscite dal cinematografo in cui si era proiettato il film americano imperniato sull’ultima danza, il “rock’n’roll”, centinaia di giovani e ragazze invasero le principali vie di Oslo abbandonandosi a incredibili scene di follia. Ruppero vetrine, danneggiarono tram e autobus, cercarono di rovesciare auto. Un passante è rimasto ferito. Gli eccessi, compiuti sotto l’eccitazione dell’indiavolato ballo sbarcato da poco in Europa, sono cessati qualche ora dopo solo per l’intervento di reparti di polizia. Più di trenta giovani (e ragazze) sono stati fermati.

Il sistema dei media, più potenziato e in grado di dare eco globale al cosiddetto “nuovo ballo”, conduce il rock’n’roll ad un successo strepitoso, rendendolo il genere musicale più amato e ascoltato della popular music. L’incidente aereo del 3 Febbraio 1959, conosciuto come il giorno in cui la musica muore, non fermerà il progresso del rock’n’roll. Durante la catastrofe perderanno la vita Buddy Holly, The Big Bopper (autore di Chantilly Lace) e Ritchie Valens, mentre Little Richard, Chuck Berry e Jerry Lee Lewis, ancora con i piedi sulla terra ferma, uno ad uno cadranno annientati sotto la clava dell’opinione pubblica. Malgrado tutto ciò il rock’n’roll resisterà, preparandosi alla grande svolta segnata da Bob Dylan e dai Beatles, destinati a rivoluzionare in maniera indelebile il panorama rock (che ad oggi conta ben 49 sottogeneri) con sperimentazioni intuitive, innovazioni e tanta genialità.

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Linda Vassallo 

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Potete trovare altre notizie sul genere Rock e sui Beatles leggendo il nostro precedente articolo:

10 Canzoni con cui conoscere i Beatles

Note

(1) Nel 2010 i Beatles furono definitivamente perdonati.

(2) Alan Freed (1921-1965) è stato un noto disc jockey e conduttore radiofonico statunitense.

(3)   Francesco Ceccamea, noto per essere il redattore di Classix Metal e fondatore della webzine Sdangher.com, in Heavy Bone – La Storia del Rock a Fumetti riconduce la scintilla del rock all’incontro fra Robert Johnson e la sua chitarra.  

(4)   Robert Johnson (1911-1938) è stato un cantautore e chitarrista statunitense tra le massime leggende del blues.

(5)   Termine generico utilizzato per indicare una grande varietà di sottogeneri musicali che si sono sviluppati nel corso del tempo.

(6)  Il panico morale (in inglese Moral panic) è una forma di panico collettivo ingiustificato su una questione ritenuta da molte persone una minaccia o un pericolo.

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BIBLIOGRAFIA

FABBRI F., Around The Clock – Una breve storia della popular music, Da Agostini Libri S.p.A, Novara, 2016.

RIZZI E., CECCAMEA F., Heavy Bone – La Storia del Rock a Fumetti, Nicola Pesce editore, Roma, 2013.

INTERVISTA AI BEERBONG

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Come vi siete conosciuti? Avevate già esperienza prima di entrare nei BeerBong?

Ci siamo conosciuti per puro caso, ci siamo incrociati ad una festa e notando che indossavamo delle magliette di gruppi punk rock, all’epoca conosciuti solo da pochi, abbiamo capito che ci piaceva la stessa musica, da lì a iniziare a suonare assieme il passo è stato brevissimo.

 

Da dove deriva il nome della Band?

Il nome della band deriva da una canzone dei NoFX e ci piaceva perché rappresentava perfettamente il modo nel quale volevamo suonare, e cioè veloci e spumeggianti proprio come un Beerbong.

 

Perché avete scelto questo genere musicale?

Questo genere ci piace perché combina melodia ed energia unite ad una sana voglia di divertirsi e di divertire.  

 

A chi vi ispirate?

L’ispirazione nel modo di suonare deriva ovviamente dalla scena punk rock californiana nata nei primi anni 90; per la composizione invece le influenze sono svariate e vanno dal rock elettronico dei Depeche Mode agli Iron Maiden.

 

Come è nata l’idea dell’album? Qual è il messaggio di fondo?

Nel 2013 ci siamo contattati e abbiamo realizzato che era alle porte il ventennale dalla nostra prima formazione (1995-2015), quindi ci siamo detti un po’ per scherzo che avremmo dovuto organizzare qualcosa per tale ricorrenza; nessuno ci ha pensato per più di un secondo prima di accettare e senza battere ciglio ci siamo ritrovati di nuovo tutti assieme in sala prove a distanza di quasi dieci anni; l’effetto e’ stato come viaggiare in una macchina del tempo, e dopo le prime prove, necessarie per rinverdire i pezzi dei nostri album precedenti, abbiamo sentito la necessità di sviluppare alcuni dei riff rimasti in sospeso da oltre un decennio, quando Simone era ancora nella band; quei riff sono alla fine diventati Future Behind Us, un titolo che può avere diversi significati, dipende da che angolazione lo guardi, con addirittura sfaccettature filosofiche se vuoi, fatene l’uso di cui avete più bisogno! Come Beerbong pensiamo che per noi Future Behind Us significhi un ritorno alle origini, a comporre musica con i membri originali della band, mostrando con essa come saremmo stati se non avessimo mai smesso di suonare assieme nel corso degli anni.

 

Di cosa parlano i testi delle canzoni?

Simone a questa domanda piace rispondere come W. Burroughs "Non c’è che un’unica cosa di cui può scrivere uno scrittore: ciò che è davanti ai suoi sensi nel momento in cui scrive". In realtà, seppure il procedimento sia lo stesso, siamo consci di non avere pretese letterarie e voliamo molto più basso. Future Behind Us non è un concept EP, i testi sono uno diverso dall’altro e di solito nascono spontaneamente una volta completate le parti strumentali. Adattandosi alla musica si va dalle parole usate come fossero coltelli di Feed Forward per descrivere il famelico istinto di sopravvivenza umano amplificato fino alle macro scale, al jingle di Shocking Wave come mantra per risorgere più forti dalle priore ceneri come una fenice; dall’inno o formula filsofico-quantistica di Future Behind Us per creare il proprio futuro pescandolo dalla varietà infinita di futuri possibili, alla fredda consapevolezza che siamo gli artefici dei nostri propri limiti di You Might!; dalle tematiche più dirette della perseveranza nella propria opera di One More Chance fino al reagire e dare forma ai propri sentimenti e aspirazioni in Straight No Chaser.    

 

Nelle ultime due tracce il sound pare più distorto ed aggressivo. Si tratta di una scelta stilistica mirata o di una casualità dovuta all’ispirazione del momento?

Mental emptiness è un remake di un nostro vecchio pezzo, che abbiamo voluto registrare con l’utilizzo di suoni più moderni. Straight No Chaser invece è un pezzo scritto in sala prove come reazione a un periodo di incertezza sul nostro continuare o meno. Metterle alla fine del disco è stato deciso una volta che avevamo finito le pre-registrazioni. 

 

Avete sempre scritto i testi delle vostre canzoni in inglese? 

Pensiamo che per il nostro genere l’inglese sia una lingua musicalmente più adatta ed è una scelta che abbiamo fatto all’inizio dei tempi e poi sempre mantenuto. 

 

Quali sono le vostre prossime tappe? Dove potremo venire a sentirvi?

La nostra data zero a valle dell’uscita dell’EP sarà nella nostra regione, il 22 giugno ALL IN; si tratta di una data in casa per rivedere tanti dei nostri amici che ci seguivano anni fa, oltre che nuove leve che speriamo siano numerose. In agosto suoneremo anche al Bayfest, il 12 agosto nella serata in cui i Lag Wagon faranno da headliners. Stiamo allacciando un sacco di nuovi contatti con tantissimi gruppi e ogni volta ci promettiamo di organizzare qualcosa assieme, ci stiamo dando da fare per organizzare delle date sia in Italia che all’estero per la seconda metà dell’anno, vi terremo aggiornati oltre che postare tutte le date sia su Facebook che Songkick.

  

Perché la gente dovrebbe venire ad un live dei Beerbong?

Dovrebbe venire perché proponiamo un live set energico e melodico, e soprattutto perché offriamo un sacco di birre ai più scatenati.

 

Cosa pensate dell'attuale scena hardcore italiana?

Dobbiamo essere sinceri, siamo stati assenti per diverso tempo e ci sentiamo ancora un po’ fuori dal giro. Tra gli anni 80 e 90 ricordiamo che ogni persona che conoscevamo aveva almeno un gruppo e si suonava ogni sera e in ogni luogo. Il ricordo di quei tempi forse filtra la nostra visione odierna, spingendoci a guardare alle band ancora attive con cui avevamo condiviso palchi ed esperienze in precedenza. Riteniamo che una scena hardcore genuina sia quella creata dai fratelli Caldari a Livorno attorno al mondo 7years e Inconsapevole Records.

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Linda Vassallo

I BeerBong presentano: Future Behind Us

BeerBong

Ecco a voi – per chi ancora non li conoscesse – i BeerBong, un gruppo melodic hardcore punk in attività sin dal 1995. Giunti al ventennale della loro prima formazione, un po’ per scherzo, un po’ per festeggiare quell’importante ricorrenza, la band goriziana si è riunita in sala prove per lavorare a quello che sarebbe diventato il loro quarto album in studio: Future Behind Us. Si tratta di un album sorprendente, in cui sono ripresi e sviluppati alcuni riff rimasti in sospeso per oltre un decennio. Il titolo – spiega la band – può avere diversi significati, addirittura un’accezione filosofica, tuttavia ognuno può farne l’uso di cui ha bisogno. Ma Future Behind Us, prima di tutto, rappresenta un ritorno alle origini; è la dimostrazione di come sarebbero stati i BeerBong, se non avessero smesso di suonare assieme. Sette brevi tracce che si rivelano un mix di energia e velocità, condito da ritmi serrati e sincopati. A spalancare il sipario è Feed Forward che, giocando sulla lentezza di un intro in grado di coinvolgere ed incuriosire, inaspettatamente scoppia in una rapida successione di accordi accompagnati dal ritmo di una batteria che regna sovrana, rivelando il cuore punk della band. Ancora più energica è Shocking Wave, il cui cantato, supportato da cori, si presenta più melodico e meno urlato; stessa impostazione della title track, Future Behind Us, dove a fare da padroni sono il ritmo sincopato e la velocità strumentale di chorus e middle-eight.

Leggermente anticonvenzionale appare l’inizio di You Might!: un’orecchiabile melodia in rallentamento, che all’istante si innesta in uno strumentale quasi altrettanto tranquillo. Azzeccato è l’assolo di chitarra che si snoda nel cuore della canzone, senza smentire un’avversione tipicamente punk al virtuosismo.

One More Chance è certamente uno dei pezzi più riusciti: una convincente commistione di fluidità sonora basata su orecchiabili successioni di accordi puliti, frapposta a potenti passaggi di batteria. D’ispirazione speed/thrash metal è Mental Emptiness, pezzo plasmato nell’accostamento di velocità e sound dalla maggiore aggressività e distorsione. Straight No Chaser, traccia di chiusura, è la vera perla dell’album. Qui, cantato punk e sonorità metal si incontrano all’insegna di grinta e velocità; più che apprezzabili sono i fraseggi armonici di chitarra che, come un inciso, spezzano il groove ritmando la canzone.

Cosa racconta Future Behind Us? Non stiamo parlando di un concept EP. I testi, rigorosamente in inglese per ragioni di musicalità, sono estremamente variegati. Si va dalla descrizione del “famelico istinto di sopravvivenza” di Feed Forward, al “reagire e dare forma ai propri sentimenti e aspirazioni” di Straight No Chaser – come i BeerBong ci rivelando in occasione di un’intervista.      

Future Behind Us è quindi un album da ascoltare? Se siete alla ricerca di una band che vi faccia riacquistare fiducia nel panorama musicale nazionale, sì, fa proprio al caso vostro!

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Linda Vassallo

Intervista agli ALOGON

 

  1. Cosa significa il nome Alogon?

Questa è una domanda alla quale si potrebbe rispondere in più modi. Principalmente il nome trae origine dalla parola greca Logos, che può significare “parola” o “discorso”, a seconda delle interpretazioni.  Da parte nostra, la α (alfa) che abbiamo aggiunto come iniziale serve ad ampliare il “discorso”, a farci andare oltre ad esso e ottenere così una notevole libertà compositiva. Simultaneamente però, nel nostro liberarci dai limiti, concediamo la stessa possibilità anche al pubblico, che riteniamo libero di dare la propria interpretazione al nostro nome.

Intervista Alogon

  2. Quali sono le vostre ispirazioni?

A livello di gruppo, le nostre ispirazioni seguono l’andamento compositivo di tutta la scena progressive metal odierna. Però ci affidiamo anche a tracce di quel progressive che potremmo definire “storico”, del quale seguiamo più il modo di comporre, piuttosto che i contenuti. Apprezziamo molto il gruppo italiano Area, per fare un esempio. Mentre a livello singolo, ognuno di noi è libero di seguire le ispirazioni nate dalla propria cultura musicale, che non devono limitarsi per forza solo al progressive. Alcuni membri del gruppo hanno militato nella scena rock/metal genovese o sono legati alla Fusion, al Funk, allo swing.

Per esempio Giacomo nutre un grande attaccamento compositivo verso i Tool. Francesco deve molto a quel grande batterista che è Gavin Harrison e prova un grande affetto per l’heavy metal, genere col quale è cresciuto, nonostante adesso sia improntato verso altri generi. 

Alla fine ci riserviamo il diritto di seguire le nostre influenze personali, ma quando componiamo la nostra musica quello che ci piace lo utilizziamo senza esitazioni, indipendentemente da chi ci ispiriamo.

    3. Qualche settimana fa, prima ancora che fosse in programma quest’intervista, uno dei nostri redattori ha avuto modo di sentirvi suonare a Genova. Ha detto di essere rimasto subito rapito dalla vostra musica pur non avendo mai ascoltato prog, perché molto particolare e coinvolgente. Qual è l’idea di base che si nasconde dietro alle vostre composizioni e al vostro primo album?

Prima di tutto ringraziamo per i complimenti. Apprezziamo molto ricevere simili apprezzamenti, considerando che siamo un gruppo underground nato da poco. Per rispondere alla domanda… possiamo dire che il “gruppo” sia nato da tre persone: Giacomo, Francesco e Alberto. L’idea iniziale era molto semplice: vederci per fare musica insieme, con l’intenzione di divertirci e senza covare troppe aspettative. Tenevamo a sperimentare e improvvisare in piena libertà. Però col tempo, grazie anche all’entrata di Andrea e Damiano, le cose si sono evolute con naturalezza e trovando un nostro modo stabile di comporre e  collaborare abbiamo deciso di lanciarci in un progetto più concreto, smettendo di creare musica destinata a nascere e morire in sala prove. 

Fortunatamente possiamo dire di essere cinque teste in perfetta sintonia. Ci troviamo facilmente d’accordo su quello che facciamo, sul palco abbiamo la giusta intesa e questo ci rende molto positivi per i progetti futuri.

Riguardo alle tematiche, hanno trovato il loro punto di partenza con Alberto, che ha sempre collezionato la passione per il Tarocchi. Soggetto sul quale abbiamo riflettuto molto, prima di deciderci ad adoperarlo, perché non potevamo comporre musica su qualcosa che non conoscevamo come si deve.

 

   4. “The Fool” è un pezzo accattivante in cui strumentale e voce concorrono alla realizzazione di una melodia variegata e mai noiosa, trascinando l’ascoltatore all’interno di un’atmosfera misteriosa e talvolta notturna. Ma in che modo il testo si lega alla melodia? Chi è il fool?

Occorre forse una piccola premessa. Scrivendo le nostre canzoni usiamo i tarocchi in due modi, come metafora e come pretesto. Se dovessimo prendere in considerazione la carta del giudizio, per fare un esempio, utilizzeremmo il tarocco come metafora dell’argomento in se, parlando però anche di ciò che ci ispira ampliando notevolmente il discorso raccontando una storia o di uno stato d’animo. Non ci fermeremmo mai a parlare della carta in sé, rischiando di fare un discorso fine a se stesso.

In “The Fool” parliamo del Folle. Il significato della carta indica esattamente: tenere un approccio che va a cambiare una situazione preesistente, con un certo coraggio, senza conoscere i rischi a cui si sta andando incontro. Tra di noi Andrea tiene il maggiore attaccamento verso la carta del folle, che ha saputo reinterpretare creando una storia in cui un soggetto (che potrebbe essere un maschio o una femmina, non ha importanza) prende una determinata decisione: lasciarsi la società alle spalle. Scelta che, paradossalmente, lo porterà a diventare succube della società, dovendo comunque, per sopravvivere, fare i conti con essa anche se in minima parte. 

Tutto ciò resta poi a far parte di una storia, non intendiamo porci come maestri di vita. Rimaniamo fedeli ai dettami della carta e creiamo un discorso, una riflessione, intorno ad essa.

Abbiamo cercato di esprimere il concetto di The Fool anche con la copertina del singolo, dove il soggetto guarda con occhi sognanti il futuro, senza rendersi conto di avere davanti a se un baratro. Il cane dietro di lui rappresenta il suo ultimo residuo di coscienza che cerca di allontanarlo dal destino che si è scelto.

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   5.   Chi di voi si occupa di scrivere i testi e come trovate le idee per comporre le melodie?

Generalmente delle melodie musicali se ne occupa Giacomo, mentre ad Andrea spettano le composizioni vocali. Poi chiaramente la struttura definitiva di una canzone viene arrangiata da tutti noi e chiunque può proporre le proprie idee. L’importante è trovare un sound che ci piaccia, nella speranza che convinca anche il pubblico. Per ora abbiamo deciso di seguire questa linea per realizzare il nostro primo album. In futuro potremmo cambiare completamente direzione, non lo sappiamo, ma ci riserviamo un’assoluta libertà di scelta anche intrinseca nel genere.

  6.  Il vostro primo album sarà un concept?

Si, per ora siamo sicuri che il nostro primo album sarà un concept sui Tarocchi, poi dipenderà dalla nostra volontà stilistica scegliere se adoperarli ancora nei prossimi album oppure no. Probabilmente è troppo presto per parlarne.

 

  7.  So che sul palco, come in sala prove, vi piace molto improvvisare. Come gestite la cosa?

Dipende dalle circostanze. Come detto prima ci riteniamo fortunati per la sintonia che abbiamo raggiunto come gruppo, il che ci permette di gestire le improvvisazioni tramite segnali sonori o fisici. Ad esempio suonando un piatto della batteria in un determinato modo per segnalare un attacco di chitarra, come di un altro strumento. Vocalizzi e acuti fatti in determinati momenti. Raggiungere una simile intesa non ci è costato poco, abbiamo passato numerose serate in saletta per fare pratica e ne è sempre valsa la pena.

 

  8.  Da quanto tempo suonate insieme?

Abbiamo iniziato a suonare verso la fine del 2016 con la formazione a tre, poi verso marzo si è aggiunto Damiano alla seconda chitarra; da lì abbiamo visto che le cose potevano diventare più serie e abbiamo cominciato a pensare all’idea di aggiungere un cantante, cosa concretizzatasi con l’ingresso in line-up di Andrea intorno ad ottobre/novembre.  

  9.  Nell’anteprima del singolo, a rapire l’attenzione è l’assolo di tastiera dai toni elettronici ed orientaleggianti. L’utilizzo di simili tonalità elettroniche sarà una caratteristica di tutto l’album?

Ci piacerebbe, ma è un altro aspetto del quale non siamo sicuri. Al momento The Fool è il brano col maggiore utilizzo del sintetizzatore. Potremmo usarlo anche negli altri brani, ma verosimilmente più per quanto riguarderà il lato studio che non quello live: essendo infatti Giacomo già impegnato a suonare il basso per la necessità dettata dal tiro degli altri pezzi, gli verrebbe difficile suonare anche il synth.

Un aspetto che non sottovalutiamo è l’importanza di creare brani possibili da riprodurre dal vivo, senza strafare componendo pezzi con strumenti che non possiamo portare dal vivo. Teniamo che il nostro show sia il più realistico e federe possibile rispetto al disco originale.

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  10.  Quando pensate di registrare il prossimo singolo? Potete farci qualche anticipazione?

Per quanto riguarda il prossimo singolo non abbiamo ancora troppe anticipazioni perché il brano verrà registrato tra un mese e mezzo circa. Per ora non sveliamo nulla di concreto sul brano perché sarà una sorpresa, ma ovviamente seguirà il filone del concept dei tarocchi, e molto probabilmente sarà accompagnato da quello che a tutti gli effetti potrebbe essere il nostro primo video ufficiale. 

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"Finalmente - Cartabianca"

Recensire un album non è mai facile. Si tratta infatti di un’esperienza piena di ostacoli e intrighi pronti a colpirci in qualunque momento e sempre sotto forme diverse. In questo caso, quando cominciai a scrivere dei Cartabianca, il primo intoppo che mi capitò fu il mio stesso entusiasmo. Nella testa mi frullavano centinaia di parole con cui speravo di descriverli e presentarli come meritavano, trovandomi infine a comporre un insieme confusionario di paroloni che portavano solamente a distogliermi dal centro del discorso, ossia che i Cartabianca sono un gruppo sorprendente.

Un simile riconoscimento potrà sembrarvi spropositato, ma come potrete vedere è ben motivato e insieme ad esso anche tutta l’euforia che suscitano nelle persone quando ascoltano e comprendono la loro musica. Ma chi sono effettivamente i responsabili di tanto entusiasmo?

I Cartabianca nascono da un’idea dei fratelli Francesco e Fausto Ciapica, due ragazzi che hanno fatto dell’essere estroversi e imprevedibili il loro marchio di fabbrica.

Grazie ai genitori sono cresciuti nell’ambiente musicale fino a conoscerne anche gli aspetti più reconditi e soltanto dopo aver fatto parte di diverse formazioni, intorno al 2010, hanno fondato ufficialmente il loro duo. Risultato costato loro non poche fatiche. Prima di cimentarsi in una simile impresa hanno sondato attentamente il terreno per capire quale percorso avrebbero dovuto seguire, comprendendo che il loro destino non si sarebbe compiuto su una solida strada di asfalto, ma in mezzo ad un mare in tempesta colmo di avventure e sorprese.

Conoscendo i Cartabianca si può notare che la loro bandiera è “il contrario di tutto” e quanto hanno scelto di fare oggi potrebbe ribaltarsi completamente domani, portandoli-portandoci sempre di fronte a qualcosa di inaspettato, quanto imperdibile. La stessa scelta del nome Cartabianca è una garanzia del loro essere, perché chiamandosi in questo modo mirano a sottolineare la scelta di non voler seguire soltanto un genere musicale, ma quello a cui si sentono più vicini sul momento.

Qual è però l’obiettivo di  Fausto e Francesco? La sincerità. Ciò che colpisce dei due fratelli è il loro attaccamento alle persone, l’affetto che rivolgono al prossimo e il desiderio che provano a rincuorare o divertire chi ne ha bisogno, tramite la loro musica e senza raccontare menzogne a nessuno. Certo, con le canzoni riescono a trasportare l’ascoltatore all’interno di un rifugio, personale e immaginario, ma alla fine tengono a ricordare che stiamo vivendo sempre nel mondo reale e bisogna reagire di fronte ad esso. Provocano così, volutamente, uno sfondamento della quarta parete rivelandosi per ciò che sono, persone, cercando in particolare di annullare le distanze poste dalla tecnologia.                                                  

Quella dei Cartabianca è quindi una struttura multiforme, adesso improntata sulla musica d’autore; alla quale sono molto legati grazie a figure come Ivan Graziani e De Gregori (per citarne soltanto due). L’album che vi presentiamo è il primo di questo eccentrico duo, dal titolo: FINALMENTE.

Nella scaletta non troverete canzoni o parole ad esso collegate, perché lo scopo del nome è quello di tirare un sospiro di soddisfazione dopo tutte le fatiche ed i sacrifici compiuti per realizzare l’album e portarlo sul palco.                                                    

La sincerità, presentata sopra, si percepisce subito con la traccia “Cazzate anni 70”, prima canzone dell’album, dedicata a Genova e al misticismo che molti legano ad essa nel corso degli anni 70. L’attacco di chitarra rimanda subito al passato da rockettari dei due fratelli, provocando un’esplosione di euforia non appena subentrano gli accompagnamenti del basso e della batteria. Anche all’interno del testo vive l’influenza musicale di quel periodo, impressa nel DNA del duo grazie all’educazione impartita loro dai genitori, anche se poco di quello che vi dicono potrebbe essere stato scritto in quegli anni.  Lo scopo di “Cazzate anni 70” infatti non è quello di immergere del tutto il pubblico negli anni 70 genovesi, ma di far rivolgere su di essi un rapido sguardo per rendersi conto che “Genova funziona non come prima né più di prima” ed è “inutile parlarne ad ogni costo, è lo stesso posto”.

Le tracce successive proseguono in maniera indipendente, sempre grazie all’imprevedibilità dei Cartabianca che non hanno dato all’album un’unica tematica.

L’altra storia” è difficile da spiegare quanto da comprendere, soprattutto per il pubblico esterno, ma non manca di attrarre e intrigare grazie al velo di mistero che la avvolge. A un lento intro di chitarra si aggiunge l’energia della batteria che, sancendo l’attacco della canzone infonde una punta di brio. La melodia si fa quindi più allegra e allo stesso tempo malinconica, regalando un insolito retrogusto agrodolce. Ad alimentare tale effetto è l’entrata in gioco di un violino dal suono dolce e scandito.

Con “Domenica (cinismi da spiaggia)” si entra in contatto con un’atmosfera ironica, dove regnano simultaneamente allegria, spensieratezza e dolore, soprattutto quando la si ascolta guardando il suo videoclip, dove il protagonista è un cavatappi (come quello in copertina) che va alla ricerca di un nuovo cuore dopo aver perso il suo nel “via vaivaivaiii di mille giorni, a sentimenti alterni, e andate e poi ritorni”.

Dai tratti decisamente singolari è la canzone sullo sfortunato “Principe Rosa”, con cui viene sfatata l’idealizzazione della storia d’amore tipicamente fiabesca, riportando tutto ai problemi della realtà quotidiana. Quando chiesi ai Cartabianca di parlarmene mi dissero subito che si trattava di un brano onesto, nato da difficili esperienze personali e per questo scritto con urgenza, così da non perdere il significato delle parole che stavano prendendo forma nella loro testa. Se si fossero fermati a rifletterci sopra probabilmente avrebbero tramutato la canzone in un mero esercizio, privandola così di tutte le sue qualità artistiche. Mentre fu quasi casuale la scelta del nome: Fausto aveva pensato inizialmente di intitolarla “principe rosso”, per contrapporlo al privilegiato principe azzurro, prima che il T9 del telefono scambiasse rosso con rosa e da quel momento non si è mai pensato di cambiarlo.

Un altro aneddoto divertente riguarda la canzone “Stramalodio” e la sua protagonista Anna, citata prima del ritornello “aaamore mio, ti aaamore mio, ti aaamore mio ti odio”. In origine i Cartabianca volevano dire nana, ma grazie ad un’incomprensione del pubblico si trovarono accanto questa nuova personalità femminile alla quale si affezionarono subito (perché Anna è anche il nome della madre).

L’originalità di “Stramalodio” si rivela sentendola parlare di un amore estroverso, semplice e all’apparenza irreale (come può accadere con una fidanzata estremamente logorroica e distratta, un sigaro troppo caro per quanto dolce o una birra amara  ma dissetante) capace però di persistere nonostante i difetti degli uni e degli altri.

L’ultima traccia che vi presentiamo vanta a sua volta tratti molto particolari, ed è “Melina”. Con rammarico dei Cartabianca risulta spesso la più sottovalutata nonostante i suoi significati nascosti. In questo caso la protagonista non è frutto di alcuna fantasia nè di casualità, ma una persona reale alla quale Fausto e Francesco riconoscono tutto il loro affetto: Melina Riccio.

Nata nel 1951, questa dolce signora sentì a 30 anni di essere stata scelta da Dio per salvare il mondo e da quel momento non ha mai smesso di compiere la sua missione riempiendo le strade con le sue opere d’arte; quasi sempre composte da scritte in rima dipinte sui muri o da oggetti riciclati per darvi nuova vita. Ormai è conosciuta in quasi tutto il mondo, ma quella di Genova è sicuramente la città a cui Melina ha dato il suo maggior contributo. Guardando con attenzione potrete notare su muri, bidoni e porte alcuni suoi messaggi come “Il sole illumina i saggi fulmina i malvagi”, oppure “basta moneta vita per tutti lieta d’amor completa”.

In questo caso, dunque, cos’hanno voluto raccontare i Cartabianca? Una storia d’amore inusuale, surreale ma non impossibile e comunque irripetibile. Perché in fondo Melina è proprio questo, una persona capace di entrare nella vita delle persone per ravvivarla e poi andarsene come una farfalla che abbiamo potuto tenere tra le nostre mani per pochi secondi. Sensazione che viene ben trasmessa dalle parole “melina ti vengo a prendere… ma poi ti lascio andare” e da una sinfonia dai ritmi quieti a cui chitarra, pianoforte, basso, e batteria donano sincere sfumature romantiche.

In quanto alle altre canzoni, come “Faccia di (s)bronzo”, “Tetti” e “Moka”, vi lasciamo il  piacere di scoprirle da soli anticipandovi soltanto che riusciranno sempre a sorprendervi.

Per concludere come si deve, ringrazio le mie collaboratrici Linda Vassallo e Roberta Rustico per aver scritto le domande con cui intervistare questo mitico duo. Ringrazio Chiara Costa, la fotografa della nostra redazione, per le sue splendide foto e rivolgo un caloroso saluto ai fratelli Francesco e Fausto Ciapica, che con la loro disponibilità e sincerità sono riusciti ad appassionare più di un membro della nostra redazione.

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Emanuele Bacigalupo

Emanuele Bacigalupo
Beatles

Il corto ma tortuoso viaggio dei Beatles ebbe inizio precisamente il 6 luglio del 1957, quando a Liverpool un John Lennon sedicenne, indubitabilmente ubriaco, mise il proprio braccio attorno alle spalle di un “perfetto scolaretto” – così si definisce McCartney stesso, ricordando l’episodio – chiamato Paul.

Prendendo le mosse da un gruppo skiffle1 fondato da Lennon nel ‘56, McCartney, George Harrison ed infine, nel 1962, Ringo Starr, si aggregarono a quella che sarebbe diventata la più influente band del millennio. Quarryman, Johnny and the Moondogs, Beatals, Silver Beetles, ma alla fine il nome scelto fu proprio The Beatles.

 

Ecco 10 canzoni per conoscere e comprendere la portata rivoluzionaria dei Beatles, ripercorrendo i momenti salienti della loro carriera.

 

1) Love Me Do – singolo, 1962

2) From Me To You – singolo, 1963

3) We Can Work It Out – singolo, 1965

4) Yesterday – singolo, 1965

5) Eleanor Rigby – Revolver, 1966

6) Taxman – Revolver, 1966

7) Tomorrow Never Knows – Revolver, 1966

8) Strawberry Fields Forever – singolo, 1967

9) I Want You (She’s So Heavy) – Abbey Road, 1969

10) The Long And Winding Road – singolo, 1970

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1) Love Me Do – singolo, 1962

Si tratta del primo singolo della discografia ufficiale dei Beatles, registrato due volte e pubblicato in entrambe le versioni. Nella prima delle due, infatti, la performance di Ringo non convince George Martin – storico produttore discografico della band di Liverpool, considerato “il quinto beatle” – tanto che, per la seconda, al suo posto viene ingaggiato un turnista di nome Andy White, mentre il “beatle triste” si limita a suonare il tamburello. Il 45 giri (il cui b-side è P.S I Love You) si guadagna il diciassettesimo posto in classifica.

Già da questo primo successo emerge lo schema che per buona parte della carriera dei Beatles sarà alla base delle loro canzoni: una struttura chorus/bridge alla Tin Pan Alley2 (contrapposta al più comune verso/ritornello). Sarà proprio con questa “strategia” che i Beatles comporranno canzoni ingegnose ed orecchiabili, destinate a portare una ventata di aria fresca nel mondo della musica leggera.

 

2) From Me To You – singolo, 1963

Pubblicata nel ’63, From Me to You è il primo singolo dei Beatles a raggiungere il primo posto in tutte le classifiche inglesi. Accreditata alla coppia Lennon-McCartney – a cui sono attribuite la stragrande maggioranza delle canzoni del gruppo – se letta fra le righe, si rivela molto più che una banale canzone d’amore. Come spiega Franco Fabbri3, questa canzone “postale” – la frase From Me To You si rifà infatti ad una formula epistolare – si accende di significato solo tenendo in considerazione la morale dell’epoca. Una morale secondo la quale una ragazza non avrebbe dovuto cedere allo “spasimante” finché questo non le avesse messo l’anello al dito; un’etica alla quale si stava pian piano affacciando una generazione più spensierata e pronta a godersi la vita con scambi affettivi e sessuali svincolati da qualsiasi responsabilità. Si tratta di una canzone che allude alla fisicità dell’oggetto e che man mano, in questo senso, si fa più esplicita culminando con la frase and keep you satisfied accompagnato da un oooh e, molto probabilmente, da uno scuotimento di capelli a caschetto. Una “coreografia”, questa, mirata ad esercitare un ben preciso effetto sulle adolescenti in preda alla beatlemania, accostata ad un testo che sottende (e contribuisce in maniera efficace) alla liberazione dei costumi sessuali di una generazione.

 

3) We Can Work It Out – singolo, 1965

John Lennon, riferendosi alla canzone, ha affermato: “La prima metà è di Paul, il middle-eight è mio. [...] io me ne uscii con life is very short, and there’s no time for fussing and fighting, my friend. La parte di Paul è ottimistica e propositiva, la mia è spazientita e insofferente”. We Can Work It Out è non a caso considerata una delle migliori testimonianze della vena compositiva Lennon-McCartney, rappresentanti di due scuole contrapposte: l’una fondata sull’approfondimento, l’altra sulla spensieratezza.

Alla canzone fu affiancata una performance bianco e nero in playback a scopo promozionale, finalizzata soprattutto ad evitare apparizioni live. Il filmato è considerato, insieme ad altri, precursore degli odierni videoclip musicali. Nel video, il vestiario e la capigliatura identica (caschetto che, ispirando le mamme di tutto il mondo, avrebbe rovinato le generazioni a venire) concorrono a rafforzare l’immagine della coesione di gruppo, di cui i Fab Four4 sono l’emblema. È fondamentale, infatti, l’apporto dei Beatles alla definizione del concetto di band moderna.

Il videoclip si macchia involontariamente di quella che, a posteriori, in letteratura verrebbe definita ironia tragica: John, Paul, George e Ringo Starr sembrano avvolti

in un velo di tristezza. Lennon, che verrà assassinato da uno squilibrato nel 1980 all’età di quarant’anni, accompagna il ritornello cantato da McCartney, pronunciando la frase da lui composta: la vita è troppo breve, e non c’è tempo per agitarsi e litigare, amica mia. Tuttavia non lascia scappare qualche sorriso, quasi egli stesso ironizzasse sul suo avvenire.

 

4) Yesterday – singolo, 1965

Considerata la canzone più bella dei Beatles e scelta dalla rivista Rolling Stone (nonché dall’emittente MTV) come canzone pop numero uno di tutti i tempi, Yesterday è attribuita al genio di Paul McCartney. Lo stesso McCartney racconta: “Abitavo in una specie di piccolo appartamento nell’attico ed ero riuscito a farci entrare un pianoforte. Molto artistica come situazione. Su quel piano ho trovato gli accordi di Yesterday, una mattina appena sveglio”. L’aveva sognata la notte, ma il dubbio di averla già sentita da qualche parte lo tormentava. “Ho iniziato a farla sentire in giro a tutti i miei amici, chiedendo loro che canzone fosse: ‘La conosci? È una bella melodia, ma non credo di averla scritta io perché me la sono sognata’, e non mi era mai successo di creare una canzone in quel modo” – spiega l’ex beatle. McCartney arriva alla conclusione che, come un oggetto smarrito, se nessuno l’avesse reclamata dopo qualche settimana, allora poteva tenerla.

Yesterday, affrontando per la prima volta un tema privato, rivela l’intenzione dell’autore e del gruppo di andare oltre alla ricetta iniziale del proprio successo. Sebbene la tematica sia personale, l’intreccio tra voce e strumentale è in grado di trasmettere qualcosa che supera il mero significato testuale. Articolandosi in un armonioso accostamento di chitarra e quartetto d’archi, la canzone riesce a coinvolgere emotivamente tanto da far provare nostalgia per qualcosa che non si riesce a definire. In fondo, anche se forse non è stato “ieri”, ognuno ha il suo “yesterday” da ricordare con malinconia.

5) Eleanor Rigby – Revolver, 1966

Eleanor Rigby, che ottenne un Grammy nella categoria Best Contemporary Rock and Roll Vocal Performance Male, è il simbolo di un momento chiave della carriera dei Beatles: è una delle meglio riuscite testimonianze della trasformazione della band, intrapresa a partire dall’album Rubber Soul del ‘65 (soprattutto grazie all’influsso di Bob Dylan), da gruppo orientato principalmente al pop a gruppo più serio e sperimentale. È proprio a partire da Rubber Soul che allo schema tipico della

produzione Tin Pan Alley, subentra la creazione di comedy songs basate sulla narrazione di brevi storie, nella prospettiva di canzoni meno spensierate.

Con questo pezzo interamente scritto per d’archi, i Beatles si rivelano una delle prime band – se non la prima in assoluto – ad approcciarsi alla musica colta. Optando per registrare ogni strumento singolarmente (in maniera del tutto innovativa rispetto al tradizionale metodo di registrazione), la canzone raggiunge una nitidezza e politezza del suono senza eguali.

 

6) Taxman – Revolver, 1966

A partire da Revolver, George Harrison – a cui è attribuita la traccia – inizia a mettersi in luce, ricevendo addirittura l’onore di aprire l’album. Sarà con Something che Harrison raggiungerà la vetta più alta della sua carriera da compositore nei Beatles, anche se non meno meritevole rimane While My Guitar Gently Weeps, sensuale ballata rock.

È proprio da Taxman che Gianfranco Salvatore5 trae ispirazione per scrivere un libro intitolato I primi quattro secondi di Revolver. All’inizio di Taxman, nei primi quattro secondi, appunto, in ordine temporale si susseguono un conteggio (non a tempo e non finalizzato all’attacco della canzone), un colpo di tosse, un rumore di nastro riavvolto ed un leggero ronzio elettrico. Il disco presenta quella che appare come un’introduzione: si tratta di qualcosa d’inedito e innovativo per l’epoca, preso atto del fatto che l’introduzione fosse prerogativa delle opere colte. I Beatles per la prima volta cercano di imprimere al proprio lavoro l’idea di “opera nel suo insieme”, che verrà ripresa e sviluppata con Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (1967), da molti considerato il primo concept album6 nella storia della popular music. Il conteggio, inoltre, dichiara l’artificialità dell’opera: quelle che si sentono sono azioni tipiche dello studio di registrazione. Già con il singolo Paperback Writer, i Beatles avevano evidenziato lo spazio di registrazione come completa finzione, creando un effetto di evidente irrealtà.

 

7) Tomorrow Never Knows – Revolver, 1966

Tomorrow Never Knows è l’ultima canzone della seconda facciata di Revolver, ma anche la prima dell’album ad essere stata registrata. George Harrison ha raccontato a proposito del titolo apparentemente insensato: “Ringo diceva spesso frasi grammaticalmente scorrette, che ci facevano ridere.”. “È che mentre dicevo una cosa me ne veniva in mente un’altra, e finivo per confonderle. John se le segnava, le mie frasi. Questa mi pare di averla detta in un’intervista televisiva” – ha precisato Starr. La canzone – insieme a A Day In The Life – rappresenta il più alto livello di

innovazione introdotta dai Beatles. Con Tomorrow Never Knows i Beatles ed il loro team danno vita alla più alta inventiva acustica mai sperimentata in qualsiasi studio di registrazione sul finire degli anni ’60. Partendo da un’idea di John Lennon, il quartetto di Liverpool decide di lavorare interamente con i nastri e, in particolare, con il loop di nastri elettromagnetici giuntati ad anello per riprodurre lo stesso suono ciclicamente (furono i primi a provare una simile tecnica). Si trattò quasi di un’operazione di bricolage: tra i vari loop vi sono anche la risata di Paul, una chitarra elettrica registrata al contrario, un accordo orchestrale in SI bemolle maggiore e un mellotron7 suonato con il registro del flauto.

 

8) Strawberry Fields Forever – singolo, 1967

Ideata da John Lennon e considerata uno dei migliori brani del gruppo, Strawberry Fields Forever (che sarebbe dovuta comparire nell’album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, ma di fatto uscita come singolo, per poi essere inclusa in Magical Mystery Tour), insieme a Lucy In The Sky With Diamonds, rappresenta la massima espressione del rock psichedelico inglese. Secondo l’aneddotica si tratta di una canzone che diede molto da fare ai Beatles i quali, mai entusiasti del risultato, ne registrarono circa 24/25 take. La trovata che portò alla realizzazione finale, fu quella di montare insieme due versioni diverse della canzone (delle quali una arrangiata con il mellotron). Ciò rese necessario rallentare la take più veloce, per poterla innestare all’altra esattamente sul going del secondo ritornello. Il montaggio, che per la prima volta modifica la struttura di un brano, grazie all’ingegnoso camuffamento dello stacco fra le due take, porta ad un sorprendente risultato. Tale tecnica di montaggio con finalità strutturali sarebbe poi divenuta essenziale nel jazz e nel progressive rock. I Beatles, tuttavia, si rifaranno all’esperienza di Strawberry Field Forever per concepire le strutture ancora più elaborate di alcune canzoni di Sgt. Pepper e del White Album.

 

9) I Want You (She’s So Heavy) – Abbey Road, 1969

Dopo aver lasciato incompiuto il progetto Get Back (uscito “postumo” con il titolo di Let It Be), tentativo dei Beatles di “tornare alle origini”, la band si presenta nell’album Abbey Road con un nuovo volto. I Fab Four si incarnano così nel primo gruppo di rock progressivo. A risultare particolarmente anticonvenzionale è la traccia I Want You (She’s So Heavy), che Lennon scrisse pensando alla moglie Yoko Ono. Si tratta di un pezzo “heavy rock”, lungo quasi otto minuti, durante il quale vengono ripetute un totale di quattordici parole. Quattordici parole che sono un concentrato di significato, evocando passione, sensualità ed istinto animale: un vero e proprio effetto

alla “m’illumino d’immenso”, con il quale l’autore riesce a cogliere pienamente l’essenza dell’attimo vissuto. Lo strumentale si basa su un riff che, in un crescendo di cupezza e minacciosità, sembra addirittura anticipare quello che verrà a chiamarsi doom metal8. I Beatles, che già avevano varcato le soglie dell’hard rock e del proto-metal con canzoni come Revolution, Happiness Is A Warm Gun, Hey Bulldog ed Helter Sketler – da molti considerata la prima canzone heavy metal della storia – si dimostrano perciò grandi sperimentatori anche sul piano dei generi.

Lennon ha affermato, riferendosi ad I Want You (She’s So Heavy): “Un recensore ha scritto di me, a proposito di questa canzone: ‘Pare aver perso il suo talento per i testi, da come questo è semplice e noioso’. She’s so heavy parla di Yoko. E, come ha detto lei, se stai annegando non mormori ‘Sarei davvero molto lieto se qualcuno avesse l’occasione di prendere atto che sto andando a fondo e venisse nella mia direzione per salvarmi’: gridi ‘aiuto!’ e basta. È quello che faccio io in I Want You (She’s So Heavy)”.

Lo strumentale, che pian piano trascina ed ingloba in un’atmosfera sinistra e surreale, interrompendosi bruscamente risveglia la coscienza assopita dell’ascoltatore, che solo allora realizza di aver appena ascoltato una registrazione.

 

10) The Long And Winding Road – singolo, 1970

The Long And Winding Road è la facciata A dell’ultimo singolo ufficiale dei Beatles. McCartney e Lennon ne registrano un provino nel ’69 durante una seduta dedicata al cosiddetto progetto Get Back, finalizzato ad eliminare sovraincisioni e montaggi per riportare le canzoni allo stato di “naturalezza” degli inizi. John Lennon, tuttavia, all’insaputa di McCartney, affida il materiale del progetto ad un famoso produttore americano: Phill Spector. Il provino della canzone viene da lui risistemato in una tessitura sinfonica e corale hollywoodiana.

Con The Long And Winding Road, divenuto un grande successo dei Beatles, la band – come spiega Franco Fabbri – in un certo senso corona il proprio obiettivo di tornare alle origini: riappare, infatti, il caro e vecchio schema alla Tin Pan Alley (che, in realtà, non fu mai del tutto accantonato), proprio quello del loro esordio con Love Me Do.

Una volta ascoltato il risultato, McCartney annuncerà la sua uscita dal gruppo, segnando la fine di un importante capitolo nella storia della popular music.

 

Certo non bastano 10 canzoni per conoscere un gruppo dalle 1000 sfaccettature! Degne di essere menzionate sono anche Hey Jude e Let It Be, note soprattutto per i

loro testi e per l’energetico e travolgente finale della prima. Da non dimenticare è I Am The Walrus, altro eccellente esperimento di musica psichedelica. Un’attenzione particolare meriterebbe Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band come opera d’insieme, ma anche per l’interessante dispiegamento delle sperimentazioni con il sound, oltre che per la messa in gioco di tematiche che si rifanno alla guerra, alla droga e alla ribellione, dimostrandosi un perfetto sottofondo allo stato d’animo di un mondo immerso nella guerra del Vietnam, negli stupefacenti e nella violenza. Pietra miliare è anche l’album Abbey Road, che contiene tracce intramontabili come Something (il capolavoro di George Harrison), Come Together, Oh! Darling (in cui la voce di McCartney passa continuamente dall’essere dolce, all’essere “sporca”) ed un b-side all’insegna del virtuosismo. Qui, riff tutt’altro che anonimi, campane, archi, cori ed armonizzazioni vocali quasi oniriche, si mescolano in più rapsodie composte da piccoli capolavori (da ascoltare rigorosamente in successione) come Golden Slumbers, Carry That Weight e The End. Ed anche il cosiddetto White Album, anteriore rispetto ad Abbey Road, merita di essere citato: costituisce l’esempio più evidente di quattro solisti nel pieno della propria maturità artistica, riuniti a suonare nello stesso album. In ultimo, per chiudere il cerchio, termino l’articolo citando Don’t Let Me Down, il cui official video Vevo, tra quelli della band, è il primo ad aver superato le 100.000.000 visualizzazioni su youtube. Nel videoclip, tratto dal famoso The Beatles’ Rooftop Concert, i Beatles si dimostrano, malgrado i litigi e gli screzi che li avrebbero condotti al vero e proprio The end, sorridenti ed in perfetta armonia, nelle vesti dei personaggi da loro costruiti e consolidati nel tempo: non ci sono più i quattro ragazzi che scuotono il caschetto al ritmo di Twist and Shout, ci sono solo un John Lennon che domina il palco con maestria quasi innata, un Paul McCartney disinvolto e “ballerino”, un George Harrison ridente ed un Ringo Starr dalla tecnica affinata.

Linda Vassallo

NOTE:

1. Genere musicale paragonabile al folk americano, che prese piede in Inghilterra negli anni ‘50 e ‘60.

2. Tin Pan Alley è il nome dato all’industria musicale newyorkese, utilizzato poi per indicare una determinata tipologia di canzone a carattere di recitativo. 

3. Franco Fabbri, musicista (con gli Stormy Six) e musicologo, ha insegnato materie collegate alla storia, all’estetica e all’economia della popular music all’università di Torino, Genova e Milano. È stato presidente della International Association for the Study of Popular Music.

4. Soprannome dei Beatles.

5. Musicologo e critico musicale italiano. È docente di Civiltà musicale afroamericana e Storia della popular music presso la facoltà di Lettere, Filosofia, Lingue e Beni culturali dell'Università del Salento.

6. Album musicale le cui tracce sono incentrate su un unico tema o sviluppano una storia. 7. Strumento musicale a tastiera divenuto popolare alla fine degli anni ‘60.

8. Sottogenere dell’heavy metal caratterizzato da sonorità molto cupe e lentezza di motivi e riff.

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BIBLIOGRAFIA

FABBRI F., Around The Clock – Una breve storia della popular music, Da Agostini Libri S.p.A, Novara, 2016.

FABBRI F., Il suono in cui viviamo – Saggi sulla popular music, Il Saggiatore, Milano, 2008.

ZANETTI F., Il libro bianco dei Beatles – La storia e le storie di tutte le canzoni, Giunti Editore, Firenze, 2012

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Linda Vassallo

Caporedattrice Sezione di Psicologia

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