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Foto di Derek Rosenkreuz

Riflessioni

Descrizione: la Rubrica "Riflessioni" si dedica a raccogliere pensieri e considerazioni legate al mondo delle materie Umanistiche e in particolare della Filosofia. Per essere aggiornati in tempo reale sulle nuove pubblicazioni della Rubrica e non solo, potete seguire la nostra pagina Facebook "IGNOTUS MAGAZINE"

ELOGIO DELLA STRUTTURA ASSENTE

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Come può l’”Esattezza” di Calvino riferirsi a Bach?
Esiste un parallelismo tra la cozzaglia di note distese su uno spartito e la teoria sulle grammatiche di Chomsky?
E, soprattutto, può un letterato parlare di musica e un musicista di letteratura?
In molti osservano le allegorie musicali riferite ai principia matematica rivelati da Italo Calvino nelle sue cinque illacrimate “Lezioni Americane” (ciclo compianto dal mondo accademico perché rimasto incompleto per via della scomparsa dello “scoiattolo della penna”).
Gli argomenti designati erano, come le poliedriche tendenze dell’autore all’eclettismo, talmente vaghi e profondi, che il maneggiare quell’abisso di significati avrebbe portato alle riflessioni poetiche proprie di Calvino. 

Egli scelse argomenti di discussione ispirati agli insegnamenti del maestro Borges: la leggerezza, la velocità, l’esattezza, la visibilità, la molteplicità e la coerenza.
Un esperto potrebbe osservare come, al posto di Calvino, si vollero citare nomi illustri e meritevoli di umanisti e, soprattutto, di musicisti. Occorre poi ricordare che, nelle lezioni tenutesi ad Harvard nel 1938, l’ospite d’onore dell’Alma Mater era nientemeno che Stravinskij. Fu poi il turno del classicismo di Aaron Copland, della semiologia musicale di Leonard Bernstein e delle avanguardie di Luciano Berio (amico e collaboratore di Italo Calvino).
Calvino definisce l’esattezza con la pianificazione, icasticità e precisione nel sostenere come “l’epidemia pestilenziale” dell’odierno multitasking subordina tutto a generiche forme superficiali di anonime astrazioni. L’autore usa poi verbi come “smussare”, “diluire” e “livellare” per definire la multimedialità dissipante che spegne le scintille del logos (profezia di trent’anni orsono).
Ma, discutendo di precisione, si giunge poi alla definizione della disciplina più prossima all’esattezza; parlando cioè della matematica attraverso illustri esempi letterari (per esempio sul concetto euclideo dell’infinità dello spazio in Leopardi o riflettendo sui personaggi creati dalla fantasia di Robert Musil).
Lo scrittore rivela poi la sua predilezione per le forme geometriche, le serie della combinatoria, le simmetrie e le proporzioni numeriche. Termini accostabili alla moderna dodecafonia e alla musicalità barocca.
L’autore prosegue parlando delle sue tendenze a “ficcare il naso nei libri scientifici alla ricerca di indizi per l’immaginazione”, rintracciabili nelle suggestioni delle città invisibili e negli stimoli formali di Palomar.
Però Calvino asserisce come “le lingue naturali” dicano sempre qualcosa in più rispetto ai ”linguaggi formalizzati” (soprattutto nel criticare il rischio dell’esattezza).
Il dissimulare la perfezione è un pericolo in agguato nelle scienze esatte che, per un eccesso di limpidità e limitatezza, si distaccano dalla molteplicità interpretativa della comunicazione imperfetta, rischiando quindi di precipitare nella dimensione astratta.
Sebbene in molti possano seccarsi, sono parecchie le teorie che vedono la musica come ente conciliante queste due dimensioni metalinguistiche.
Esiste quindi l’esattezza come metro musicale? In che misura può apparire?
È noto come, Albert Einstein fosse un discreto violinista e potendo godere di picchi di virtuosismo, ebbe occasione di suonare assieme agli affermati Arthur Rubinstein e Boris Schwarz. Fu quest’ultimo che, nel corso di un’esibizione serale per violino e pianoforte, notò un grave errore ritmico nel tempo tenuto da Einstein e, voltatosi di colpo, gli disse seccato: “Professore! Non sa contare?”.
L’accusa, per quanto provocatoria, non si rivelava infondata: così come per le tabellone, Einstein infatti aveva parecchi disagi nel contare (inventò poi un metodo personale, ma non imparò mai a riconoscere simultaneamente il risultato di sette per otto).

 

Struttura Assente
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Ma, curiosamente, anche Bach era impossibilitato nelle operazioni calcolatorie. Il compositore adorava però cimentarsi nei calcoli, sino a guadagnarsi l’appellativo di “numerologo” per via della sua ammirazione verso il numero 2138.
Non basta una grande sensibilità matematica per indovinare il significato di questa cifra.
Anzitutto non si tratta di un numero primo (l’otto è divisibile per due), constatazione che non è propria della numerologia quanto della matematica scolastica.
Occorre invece numerare l’alfabeto e individuare la combinazione di “B”, “a”, “c” e “h” (che è l’ottava lettera dell’alfabeto tedesco) e decifrare la firma del magister musicae.
Inoltre, come nel caso di Dante, rimase sedotto dalla simbologia delle addizioni nel calcolare come la somma dei quattro numeri che compongono la sua cifra (quattordici) possegga significati straordinari.
Il numero è infatti disseminato nelle sue creazioni. Basti citare i suoi “Quattordici canoni” sulle prime otto note del basso dell’aria delle Variazioni Goldberg. Variazioni che possiedono una struttura matematica molto contenuta a causa dall’aria suonata all’inizio e ripetuta alla fine e delle sue trenta variazioni (risultanti cioè due alla quinta).
Ovvero si tratta di un trentadue, sedici ripetuto due volte, quattro volte otto, otto volte quattro e sedici volte due.
Quest’aria è stata volutamente stilata da Bach in trentadue battute, che in realtà sono sedici ritornelli, otto periodi, quattro frasi e due parti.
Ovvero un gioco di frattali che, alternando una notevole varietà di dimensioni, riproduce la stessa struttura.
Bach amava talmente tanto il numero quattordici da sfruttarlo non solo come firma, ma anche come simbolo della summa della propria opera. Nell’aria prima citata, il compositore gioca sul ruolo del basso e, nelle prime otto note delle variazioni, inserisce quattordici canoni riferirti alla natura matematica del procedimento canonico.
Un allievo di Bach creò poi una società che, nel caso di Raymond Queneau e François Le Lionnais, si propose di unire le qualità dei letterati con le forze dei matematici.
Iniziativa a cui Calvino aderì nel suo periodo parigino con l’intento di fare letteratura seguendo strutture matematiche. Ma è possibile coniugare l’abisso della letteratura con i luoghi dell’algebra?
E, in altri termini, cosa può condividere l’Inferno di Dante con il teorema di Euclide?
A testimoniarlo è “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, l’ultimo romanzo di Calvino ed il più strutturato della sua avventura narrativa: dove si alternano una decina di ex ergo ed altrettanti capitoli sulla “ricerca”di un’ipotetica trama.
Anni dopo la pubblicazione, lo “scoiattolo” scrisse un breve saggio in cui istruiva il lettore sulle dinamiche a cui prestò fede il suo stile narrativo conformando sia la fabula che l’intreccio a quarantadue quadrati semiotici, figure correlate al rapporto del lettore con le strategie testuali dell’autore.
Il libro parla cioè dei dialoghi intrattenuti all’interno e all’esterno del testo secondo le dinamiche tracciabili su un quadrato. Il libro parla però, a sua volta, di ipotetici autori e lettori e, per decifrare la strategia narrativa, occorre chiarire dove le interazioni abbiano luogo.
Nella figura citata si intrattengono le relazioni tra i presunti lettori e un probabile autore che, nel corso della lettura, entrano in colloquio con le omonime figure extratestuali.
Connubio che sfrutta la combinatoria delle relazioni (intertestuali ed extratesuali) possibili (tra i due autori e il lettore fittizio) e impossibili (tra i personaggi fittizi e il lettore reale) rispettando le dimensioni del quadrato e seguendo le dinamiche geometriche che intercorrono nelle quarantadue strutture.
La società riuscì a creare progetti irripetibili e teorie narrative di ampio respiro.
Ma erano nate altre iniziative analoghe all’avventura parigina di Calvino: infatti, due secoli prima, era sorta un’organizzazione basata sulla collaborazione tra matematici e musicisti.
Per essere riconosciuti all’interno del gruppo occorreva presentare un’opera di matrice matematica.
Bach decise di aderire al progetto. Ma dovette attendere il momento propizio: entrò come quattordicesimo membro della società nel 1747 (cifra che nasconde un quattordici e due sette; la cui somma ripresenta la stessa cifra).
Il suo “biglietto da visita” doveva essere un’opera musicale ed un ritratto che doveva garantirgli l’ammissione.
Bach, ottenendo due risultati in un’unica operazione, commissionò un ritratto che lo raffigura in un abito con quattordici bottoni d’argento e presentò il “Canone triplo a sei Voci”. Opera presente nel quadro, dove il compositore si era fatto ritrarre posando con i suoi spartiti in mano.
Il canone a sei voci è rimasta una delle opere più complicate da eseguire e, dal punto di vista matematico, è stato definito “enigmatico”. Appellativo che assimila la forma ad un problema matematico scritto in maniera criptica: la forma non era aperta, non si riportavano i momenti di partenza e le altezze delle voci (erano forniti solamente i temi e le voci; i punti d’inizio delle sei voci erano a discrezione dei musicisti).
La composizione del crittogramma risultò talmente criptica che nessuno riuscì a trovare alcuna delle sei soluzioni e delle 480 possibilità (sino al 1840).
Ma come può, un canone musicale, contenere problemi matematici?

Nella seconda parte si risolverà la questione degli enigmi.

Qui mi fermo, e vi lascio al vostro prossimo fischiettio

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Carlo Alberto Ghigliotto

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IL PRESENTE INSITO NELLA FANTASCIENZA

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Presente e Fantascienza
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Siamo abituati a pensare alla fantascienza come qualcosa di totalmente lontano da noi, concepibile e improbabile allo stesso tempo. Nasce da un esercizio di immaginazione articolato e affascinante che trae il suo carburante dalla normale esigenza umana di sviscerare le possibilità che si nascondono nelle pieghe del mondo.
Questo bisogno è sempre stato presente nell’umanità. Un caso molto famoso della letteratura è La storia vera di Luciano di Samosata, il primo testo in cui si parla di un viaggio sulla luna, di civiltà aliene e di tecnologie che ricordano molto i nostri tempi (come la televisione). Celebre è anche l’artificio letterario di Ludovico Ariosto, che ne L’Orlando furioso racconta del paladino Astolfo che va sulla luna per recuperare il senno di Orlando.
Vi sono tante altre opere con diversi intenti in cui troviamo elementi fantastici e tecnologici all’avanguardia. E tuttavia ancora non si può parlare di fantascienza in senso stretto.
Allora c’è da chiedersi: qual è la caratteristica principale della fantascienza che la rende tale?


Il 1900.


Possiamo tutti essere d’accordo nel ritenere che la fantascienza sia un prodotto unico del XX secolo. È con la rivoluzione tecnologica che diversi autori iniziano a far correre il pensiero e ad immaginare altri mondi, o addirittura universi, che non aspettano altro che di essere esplorati. Ad una velocità incredibile, questo genere si espande e raggiunge velocemente il cinema, la televisione e successivamente i videogiochi.
Il motivo di tutto questo successo risiede nelle tematiche che costituiscono la narrazione fantascientifica. Quella che più di tutte ha lasciato un’impronta è il problema dell’intelligenza artificiale.
Lasciando da parte i viaggi spaziali e le società distopiche, vale la pena affrontare questo tema per capire meglio la vera natura della fantascienza.


Robot coscienti o robot intelligenti?
 

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Quella dei robot che sviluppano coscienza è una storia che conosciamo tutti molto bene. Un film cult a riguardo è Blade Runner, in cui si immagina una società in cui certi cyborg arriveranno a livelli talmente alti di imitazione dell’uomo da riuscire a sviluppare una piena e completa coscienza. Il 25 Maggio 2018 inoltre la Quantic Dream fa uscire un videogioco che ha come tema centrale proprio l’intelligenza artificiale, dal titolo Detroit: Become Human.
In tutte queste storie, lo schema generale è sempre lo stesso. C’è una società altamente tecnologizzata in cui i robot hanno sostituito molti dei lavori che prima svolgevano solo gli uomini. All’improvviso uno o più cyborg rompono l’armonia sviluppando una coscienza di sé stessi, a cui segue un tentativo di comprensione o di ribellione nei confronti dell’umanità che li governa. Da qui la situazione può evolversi in diversi modi. Possono esserci dei tentativi da parte delle macchine di soggiogare l’umanità, come in Matrix o in Io, robot. Oppure ci può essere un tentativo di dialogo e di confronto, dove vediamo sempre un cyborg dalla grande sensibilità e capace di riflessioni estremamente profonde.
Questi scenari accendono mille emozioni negli spettatori. A seconda della storia, ci si può immedesimare con terrore o stupore in una situazione davvero incredibile. Ci si ritrova di fronte ad un cyborg che ci indica, in modo inquietante e piacevole, un saldo accoppiamento o una schiavitù oltreumana. Tuttavia, anche se le sensazioni che proviamo sono forti, se si pensa più attentamente a questi episodi emerge un dubbio fondamentale: è davvero possibile che le macchine nel futuro siano capaci di acquisire coscienza?
Al giorno d’oggi, questa è una delle questioni più spinose della filosofia, delle scienze cognitive, delle neuroscienze e dell’etica. Sono tutte concordi nel dire che essere coscienti non corrisponde ad essere intelligenti.
Si dice di una macchina che è intelligente quando è capace di compiere operazioni di calcolo complesse che portano ad un output specifico. Per entrare ancora più nello specifico, l’intelligenza artificiale è tale quando riesce a ricavare da certi dati il risultato migliore. Questa sua specifica caratteristica ha portato numerosi filosofi e scienziati ad interrogarsi sul futuro dell’umanità quando queste macchine avranno invaso il mercato del lavoro.
Avere coscienza è una cosa del tutto diversa e riguarda la sfera soggettiva di ognuno. Sono cosciente di una sensazione o di una credenza quando provo qualcosa in relazione a quella sensazione o credenza. Questo meccanismo così misterioso non è ancora stato spiegato e una spiegazione totalmente fisica della coscienza non riesce a portare evidenze tanto forti da dichiarare il dibattito chiuso.
Cosa ha a che fare con tutto questo la fantascienza? In realtà, assolutamente niente. La fantascienza in questione non ha la pretesa di fondare alcuna considerazione riguardo al futuro della tecnologia e alla teoria che la giustifica. Essa affronta invece questioni molto più vicine a noi di quanto possiamo pensare.

 

Fantascienza e critica sociale.

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Come detto sopra, i romanzi e i film fantascientifici che hanno per oggetto il rapporto dell’uomo con il robot non affrontano le tematiche che stanno più a cuore agli scienziati cognitivi e ai filosofi. Essi invece sfruttano la figura del cyborg per indagare il rapporto tra individui diversi tra di loro, trasformandolo in un simbolo. Il cyborg non è infatti una semplice macchina, ma un essere molto più ambiguo. Esso può corrispondere tanto ad un essere umano potenziato quanto ad un robot con sembianze umane. Dunque è simbolo di un qualcosa di ben lontano dall’essere umano comune che, abituato a ragionare attraverso dicotomie, non riesce a gestire la diversità che si trova di fronte e la teme. Per questo in Blade Runner la caccia ai replicanti è così centrale, essendo quest’ultimi elementi troppo estranei per essere integrati in una società umana. Il tema è evidente: il diverso viene emarginato ed eliminato in favore di una identità assoluta e immodificabile.
La lotta per il riconoscimento è un tema centrale nella fantascienza, la quale ha saputo veicolare e valorizzare i sentimenti di milioni di persone in modo unico e speciale.
Con la pretesa del futuro, questo genere è riuscito a sviscerare il presente con tutti i suoi problemi più profondi. E così ha lasciato agli abitanti del terzo millennio una lezione che non bisogna dimenticare.

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Giulio Mastrorilli

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LA FEDE IN UN SEGNO: DALLA CORNICE AL LABIRINTO

Una delle metafore religiose più comuni nelle fedi occidentali e orientali è quella del labirinto. Immagini analoghe si susseguono nel decorso di secoli che separa Uruk dall’intelligenza artificiale. Queste filosofie dell’interpretazione e sul segno, talvolta alternative, talora complementari e sensibili a questioni differenti, sono specchi di status quo, credi esoterici e culti misterici.

I nodi delle opere pittoriche rappresentano un cruccio per i critici, una passione per gli studiosi, un’ossessione per gli esperti e, per gli artisti, una perversione.

Mentre, per personalità del calibro di Ananda Kentish Coomaraswamy, è stata una missione e, probabilmente, un divertimento. Fu l’umanista dello Sri Lanka a dedicare, con 

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Il Labirinto

profonda dedizione, studi e osservazioni sul significato simbolico dei nodi che costellano le incisioni di Albrecht Dürer. I grovigli dell’artista sono l’itinerario tracciato di una linea continua disposta su una figura circolare.

La complessa raffigurazione rivela, spesso, la firma del pittore o il termine “Knoten” (tradizione la cui paternità è attribuita a Leonardo da Vinci o ad una presunta organizzazione iniziatica di ispirazione massonica: Academia Leonardi Vinci. Quest’ultima avrebbe inoltre riportato in auge l’iscrizione Et in Arcadia ego –rintracciabile tra i grandi dipinti fiamminghi e sulle tele di Niccolò Pussino).

Queste opere sono state designate come “labirinti” o “dedali”, il cui canone possiede stretti rapporti con l’ordine tecnico dei gineprai presenti nelle pavimentazioni di molte chiese medievali (che, secondo alcuni studi, costituiscono la firma collettiva delle corporazioni dei costruttori). Il legame tra le opere e l’artista è stato interpretato secondo i significati offerti dalle “catene d’unione” dei membri delle antiche logge italiane. Occorre notare che, le linee raffigurate, non presentano alcuna soluzione di continuità o esigenze di interruzione.

In alcuni casi, come ad Amiens, il capomastro stesso si fece raffigurare nella parte centrale; dove Leonardo e Dürer ponevano i loro nomi. Qui, i due artisti, si situavano simbolicamente in una Terra Santa dall'autorevole prospettiva dell’onnipotenza (in un luogo riservato agli eletti: il riflesso del centro del mondo materiale e spirituale. Occupando cioè quel luogo che, nei mosaici bizantini, è riservato all’imperatore o al Pantocratore) e presiedendo la compiutezza dei percorsi iniziatici.

Il cammino è la figura dominante del simbolismo interiore, il cui culmine è rappresentato dall’equilibrio centrale, termine ultimo della molteplicità degli stati (esistenza manifesta del definito, punto raggiunto dopo errori e, soprattutto, con la dedizione verso l’indefinito).

La linea continua è allora l’immagine del sutratma, figura multiforme e assimilabile al filo di Arianna e alla sfida del nodo di Gordio.

Il carattere chiave è però quello della cornice, simbolo che avvolge il centro di molte opere di Leonardo e Dürer con grovigli di matasse e capelli intrecciati.

Il rinvenimento, presso Corinto, di due modellini d’argilla di case dell’età geometrica, ha aperto gli orizzonti sulla concezione dei meandri delle òikos. 

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La rappresentazione del labirinto è, in questo caso, chiaramente difensiva: il distacco dai nemici, dalla natura e dagli animali, appare come un riluttante allontanamento dalle influenza psichiche ostili. La protezione è un significato profondo che, attraverso il distacco, matura nell'atarassia spirituale. È semplice intendere che, in una cultura priva della concezione religiosa di sacro e profano, la casa rifletta l’immagine del Cosmo, incorniciata dal confine dell’ignoto –così come, nella simbologia della Loggia, l’identità della cornice è la catena d’unione; cioè il limite spazio-tempo dello scibile.

Ma, il simbolismo della cornice labirintica, fornisce molteplici esempi provenienti dall’oriente: infatti, i caratteri cinesi della fissazione della condizione di status e dai riti di passaggio, hanno una funzione di “emancipazione” (il carattere héng, anticamente, era formato da una spirale che attraversava due linee rette –poteva anche trattarsi di due cerchi concentrici).

Il labirinto è quindi, come sostenne Lao-tseu, la figura retorica dell’integrità degli spazi i cui confini sono rappresentati dai due modelli dell’albero e del labirinto.

Qui si esemplificano gli studi sulla metafora, sulle tecniche medievali di falsificazione e, in minima parte, sulla ricerca secolare di un centro del mondo.

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Carlo Alberto Ghigliotto

LECTOR IN FABULA

In molti hanno detto che, in un romanzo, è necessario distinguere tra partecipazione narrativa ed emozione estetica, perché vi sono due livelli di lettura di un testo narrativo: un livello semantico (che mira a capire come andranno a finire le cose, cioè se i protagonisti si sposeranno o chi è l’assassino) ed uno estetico (che cerca di cogliere ed apprezzare tutti gli artifici mediante i quali il narratore ci rende partecipi di un gioco di attese e anticipazioni). Talora si ricerca la strategia testuale dell'intrigare mettendo tra parentesi il corso degli eventi narrati, per apprezzare il modo in cui essi vengono narrati. La partecipazione emotiva può verificarsi solo al primo livello. 
Ma possiamo davvero dire che l’opposizione tra lettura semantica e quella estetica sia così netta?

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Lector in Fabula

Il fatto è che, salvo quando si scrive una riflessione critica su un romanzo, noi leggiamo oscillando dall’uno all’altro polo. E se possiamo spesso giustificare la nostra partecipazione emotiva grazie ad una fredda analisi dello stile linguistico e della forma narrativa, ciò non vuol dire che, in molti casi, non si partecipi come se la storia che ci viene narrata fosse realmente accaduta. 

Ma ora pensiamo alla possibile morte della persona amata. La fantasticheria può durare alcuni minuti ma, alla fine, se ci chiediamo se l’amata o l’amato siano realmente morti, siamo i grado di dirci, con sollievo, che sono ancora vivi e vegeti. 
Al contrario, se ci chiedono se Anna Karenina sia infine morta, noi risponderemmo che è “davvero morta” e non c’è nulla da fare. Inoltre noi soffriamo se immaginiamo di essere abbandonati dalla persona amata, fantasmi dei quali si nutre la gelosia, ma non soffriamo (se non per tenue e umana simpatia) quando l’abbandonato è un altro. Nessuno ha mai commesso suicidio perché il suo amico è stato abbandonato dall’amata. Mentre tante fanciulle romantiche si sono suicidate partecipando ai dolori del giovane Werther. Perché allora piangiamo sul fato di persone che non esistono nel nostro mondo e perché possiamo considerare un personaggio fittizio come un nostro simile? Dobbiamo pertanto affrontare il problema del modo d’essere dei personaggi fittizi. Esistono oggetti fisicamente esistenti, come questo dispositivo, le scarpe che indossi, la tua stessa persona, la città di Pordenone o il presidente Trump (questa nozione si estende anche agli oggetti che sono esistiti realmente nel passato, come Augusto e il presidente Kennedy). Invece nessuno vorrà concedere che, personaggi fittizi come l’Ispanico e Calandrino, siano oggetti realmente esistenti. Ma questo non significa che non siano oggetti in alcun senso. Basta adottare un’ontologia particolare (per gli esperti, alla Maylong) per ritenere che oggetto di pensiero sia ogni cosa che si possa pensare come fornita di certe proprietà e di cui l’esistenza fisica non sia una proprietà indispensabile. Avicenna aveva già detto che l’esistenza era solo una proprietà accidentale di una sostanza, un “accidens avvenies quidditate”. E così come rimane oggetto di pensiero l’unicorno, che eppure non esiste in natura, ci possono essere oggetti astratti, come il numero 17 o l’angolo retto. Ma Don Chisciotte è qualcosa come l’angolo retto? Per diventare materia di una riflessione ontologica, un oggetto deve essere considerato come indipendente da una mente umana. 
Come accade all’angolo retto, che molti matematici e filosofi ritengono come una sorta di entità platonica. 
Così che la proposizione “l’angolo retto ha 90°” dovrebbe rimanere veritiera anche se la specie umana sparisse, e anche per eventuali alieni venuti dallo spazio. Al contrario, che Don Chisciotte abbia combattuto contro i mulini a vento, dipende dalla competenza di infiniti lettori umani viventi e registrata in innumerevoli libri. Ma verrebbe scordato se la specie umana scomparisse assieme a tutti i libri di questo pianeta. È pur vero che si potrebbe obbiettare che l’angolo retto continuerebbe ad avere 90° una volta scomparsa la nostra specie o se, le menti venute dallo spazio, condividessero con noi una geometria euclidea. Ma non intendo prendere posizione sulla natura platonica degli oggetti matematici, nè vanto alcuna informazione sulle geometrie degli alieni. Assumo semplicemente l’idea che possiamo considerare probabile, sino a dimostrazione contraria, che il teorema di Pitagora sia vero, anche se attualmente nessuno vi stia pensando; mentre è certo che per attribuire qualche forma di esistenza ad Anna Karenina, abbiamo bisogno di una mente quasi umana capace di trasformare il testo di Tolstoj in qualche fenomeno mentale.

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L’unica cosa che mi sento di sostenere è che ci sono persone che si commuovono all’idea che Anna si sia suicidata, mentre nessuno ha pianto sino alle lacrime scoprendo che in un triangolo rettangolo l’area del quadrato costruita sull’ipotenusa è equivalente alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui due cateti –tranne forse Pitagora, la prima volta […]-.
Pertanto, poiché il problema che stiamo discutendo è perché dei lettori si commuovono su dei personaggi fittizi, non assumerò un punto di vista ontologico, mi sento solo obbligato a considerare Anna Karenina, madam Moralì o Don Chisciotte, come oggetti dipendenti da una mente: ovvero oggetti di atti cognitivi mediante i quali riconosciamo che certe entità, contraddistinte da un nome, posseggano determinate proprietà. E dunque non intendo rispondere alla domanda “dove?”, in quale regione dell’universo esistono i personaggi fittizi, bensì alla questione “in che modo parliamo di essi come se vivessero in qualche regione dell’universo?”. Se i testi di finzione parlano di persone non esistenti e di eventi che non si sono mai verificati nel nostro mondo (e proprio per questo ci richiedono, come voleva Coleridge, una sospensione dell’incredulità, dal punto di vista di una teoria logica della verità) le asserzioni di un testo fittizio dovrebbero sempre riguardare ciò che è il caso, cioè ciò che non è.

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Carlo Alberto Ghigliotto

L'IDIOTA INTELLIGENTE

Il cretino intelligente, come ci ha insegnato Sciascia, è chi agisce inseguendo valori (soprattutto personali) inalienabili con fanatismo e minacciando la collettività. 
“Ebete intelligente” è, dal punto di vista della retorica linguistica, un ossimoro, cioè l’accostamento di un termine al suo contrario per antonomasia. 
“L’estate fredda dei morti” (Ungaretti), “La morte di sconta vivendo” (Montale) sono esempi chiaramente oscuri (notate) di ossimori.
Ma non occorre la frequentazione assidua delle poesie ermetiche per indovinare come, “ordinaria straordinarietà”, “iniqua giustizia”, “lucida pazzia” e “obbligo flessibile”, siano mezzi linguistici formidabili nelle espressioni che valicano i sistemi ordinari di significazione. 
La letteratura è pervasa di figure retoriche simili e, l’esempio più elevato, appare fra i versi dell’ultimo canto della Divina Commedia.

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"vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio"

L'idiota Intelligente
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La contrapposizione dei termini nell’esprimere il concetto di “vergine madre” è evidente, ma gli opposti sono utilissimi a Dante per descrivere il dogma cristiano della verginità di Maria.

Ma se una legge è obbligatoria, come traspone flessibilità? In realtà non occorre scomodare il senso comune per capire come, ognuno di noi, può agire liberamente secondo norme ragionevoli e quindi facilmente rispettabili. In tal senso è possibile comportarsi in modo lucidamente folle. 
Occorre una “squilibrata imparità” per far tornare i conti e bilanciare la parzialità, e una “giusta ineguaglianza” per soddisfare le esigenze della comunità e garantire solidità alle istituzioni.
È “aiuto dannoso” se si traghetta un centinaio di persone mettendo a disposizione due gommoni, ciascuno dei quali ne supporta una ventina. 
Se invece incontri cinque clochard e doni a loro una banconota da cinquanta euro da dividersi in parti uguali, agisci secondo validi principi di solidarietà, ma dimostri una “crudele compassione”.
È “egoistica condivisione” soffocare nei debiti che dovrebbero essere pagati dai componenti della società, così come lo è trincerare le proprie frontiere in nome dell’accoglienza universale.
L’uso frequente delle antitesi ha creato concetti distanti dalle giustapposizioni e nuove realtà linguistiche. 
L’ossimoro “ghiaccio bollente” lo dobbiamo ad Alfred Hitchcock (soprannome con cui definì la bellezza algida e sensuale di Grace Kelly) nell’indovinare i profili di attrici che, come il bruciore dei cubetti di ghiaccio tenuti in mano, evocano un calore gelato. 
Poi ci sono gli illustri sconosciuti, il disgustoso piacere, il silenzio assordante, il paradiso infernale, il buio luminoso […].
Sono infiniti gli esempi possibili e, nel cinema, si potrebbe citare “Gli amanti del Pont-Neuf” (1991) di Leos Carax per notare la curiosa presenza del non-luogo al centro di Parigi: il ponte è uno spazio inesistente tra routine e immaginazione, tra avvera e sistema.
Basta osservare il dipinto “L’impero delle luci” di Renè Magritte (1954) per cogliere l’ossimoro tra l’intensa limpidità del cielo (azzurro e percorso da nuvole bianche) e il cupo buio notturno in cui è immersa una casa neoclassica (circondata da un bosco). Nell’ombra appare la luce solitaria di un lampione e, nel chiarore del cielo estivo, s’innalza un albero ombroso. 
La luce è oscurata e, l’ombra, è luminosa. 
Gli ossimori possono portare a delusioni poetiche, narrazioni talora noiose o rivelare tecniche letterarie di realtà irreali poste fra cielo e terra.

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Carlo Alberto Ghigliotto

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