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Sezione di Storia

Carlo II di Spagna: il re deforme

Il re Stregato

Carlo II è l'ultimo sovrano spagnolo di una stirpe reale che è divenuta famosa per i suoi eccessi in termini di unioni incestuose: gli Asburgo. Lo “Stregato” (così veniva soprannominato) nasce dall'unione di Filippo IV di Spagna con sua nipote, Maria Anna d'Austria. Questo matrimonio fra parenti è solo l'ultimo di una lunga serie di precedenti che ha portato come risultato un figlio come Carlo II: la nonna di Filippo IV, ad esempio, è anche sua zia. Filippo IV è padre e zio di Carlo II allo stesso tempo, di conseguenza la madre Maria Anna è anche sua cugina. La giustificazione di queste unioni è il desiderio degli Asburgo di mantenere la linea di sangue della famiglia “puro”, senza contaminazioni da altre casate. Lo sfortunato nuovo sovrano ha una vita terribile solo a causa di questa ossessione incestuosa della propria famiglia.

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Carlo II in giovane età. Notare il tipico mento asburgico.

Nasce il 6 Novembre 1661, durante una grande attività politica da parte degli Asburgo per governare su tutto il continente europeo. Carlo II diventa re a 4 anni nel 1665, ma non regna direttamente per il successivo decennio: questo compito spetta alla madre in quanto il giovane re è, fin dagli inizi, assolutamente problematico nella propria salute e psiche.

Carlo II non riesce quasi a mangiare a causa della propria mascella, ha una lingua così grande che parla a malapena e sbava in continuazione. Soffre di diarrea e vomito frequenti. Ha spasmi, allucinazioni e una testa sovradimensionata. È basso, magro e fisicamente debole.

Nonostante queste caratteristiche la famiglia reale ingaggia vari artisti per rappresentare il nuovo sovrano come un uomo forte e in salute.

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Quest'immagine del giovane Carlo II non rappresenta neanche lontanamente il vero sovrano.

Carlo II non migliora neppure con il passare del tempo. Non cammina fino a che non è quasi completamente cresciuto e non sa leggere, perché la sua famiglia non si preoccupa nemmeno di dargli un'educazione basilare in quanto sono tutti convinti che il nuovo re non vivrà a lungo. Per questa sua vulnerabilità Carlo II avrebbe bisogno di cure costanti e di un'educazione  amorevole e paziente per divenire un buon sovrano, ma questo è impossibile nell'ambito della vita di corte: troppe persone ambiziose sono interessate a mantenere il re in questo stato. Carlo II è ovviamente ingenuo, ascolta sempre i suggerimenti dei “consiglieri” da cui è completamente dipendente: inizialmente sua madre e il gesuita Nithard, poi il primo ministro Valenzuela e infine il suo fratellastro Juan José. Quest'ultimo nel 1675 torna a corte dall'esilio e, con le armi, assume la reggenza al posto di Anna Maria d'Austria. Juan Josè è importante da ricordare: nonostante non si faccia scrupoli e mantenga la gestione del governo fino al 1679 (anno della propria morte) è l'unica persona che davvero prova a incoraggiare la crescita del suo fragile fratellastro, tanto che solo in questa fase Carlo II vede un lieve miglioramento generale. Juan Josè cerca anche di negoziare con la Francia un matrimonio combinato per il sovrano con con Maria Luisa d'Orleans. Questa è ovviamente inorridita da Carlo II e resiste al  matrimonio, che viene celebrato ugualmente. Maria Luisa è anche messa sotto pressione per generare un erede, e il fallimento in questo compito la porta a soffrire di depressione. Non è certo aiutata dal fatto che la madre di Carlo II, desiderosa di continuare la linea ereditaria austriaca, cerchi in tutti i modi di isolarla dalla corte. Maria Luisa imputa l'impossibilità di un erede a Carlo II, che soffrirebbe di eiaculazione precoce. Il re è sconvolto dalla morte della moglie (nel 1689), ma sua madre Maria Anna sfrutta l'occasione per trovare una nuova regina: Maria Anna di Neuburg, ovviamente austriaca. Dopo che anche Juan José muore, la seconda moglie fa del sovrano una misera pedina nei suoi giochi di potere e rivela anche il vero motivo per cui Carlo II non riesce a dare un erede al trono: il re è impotente. Da questo momento Carlo II precipita ulteriormente nelle sue condizioni di salute: a 30 anni sembra già vecchio e il suo corpo sta disfacendosi.

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Carlo II in età adulta.

 

A soli 35 anni è calvo, ha attacchi epilettici, demenza senile e non riesce quasi a stare in piedi. Psicologicamente è ormai completamente instabile. Si ritira a vita privata e diventa ossessionato con i morti: fa riesumare i corpi dei propri antenati per guardarli e toccarli. Muore nel 1700 in condizioni pietose: le varie autopsie del tempo confermano che la sua testa fosse piena d'acqua e che il corpo non avesse quasi una goccia di sangue.

La morte di Carlo II, senza eredi legittimi, è la causa della guerra di successione spagnola.

Stefano DeGioia

 

Fonti/bibliografia

-Genevieve Carlton, “The strange life of Charles II of Spain”, m.ranker.com

-Martin Mutschlechner, “Charles II: the last Spanish Habsburg”, www.habsburger.net

-William DeLong, “The inbred Spanish king so ugly that he scared his own wife”, allthatisinteresting.com

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L’Armata invincibile: Parte 1-2

La storia dell’Invincibile Armada non è soltanto uno scontro tra la flotta inglese e quella spagnola al largo delle coste della Manica nell’estate del 1588. Le sue radici e la sua esistenza sono molto più profonde di un semplice conflitto militare tra due potenze navali nell’Europa del XVI secolo.

Come spesso accade alla base di un conflitto in età moderna, vi è una questione dinastica da risolvere. Alla morte di Enrico VIII, nel 1547, la corona inglese passò a suo figlio Edoardo (il primogenito maschio dopo aver avuto due figlie da due mogli diverse, Caterina d’Aragona la prima e Anna Bolena la seconda), il quale però morì privo di eredi nel 1553,  portando così all’incoronazione della figlia di Enrico VIII nata dalla sua prima moglie Caterina d‘Aragona, Maria: colei che sarebbe passata alla storia come Bloody Mary.

Differentemente da suo padre, la nuova regina era intenzionata a portare il regno inglese di nuovo nell’ovile della chiesa cattolica. A dimostrazione di tale intenzione e per rafforzare la sua posizione in tal senso sposò Filippo II, anche per il fatto che la stessa madre della regina era la zia del padre dell’imperatore spagnolo, ed il matrimonio consolidò i già forti legami tra le due potenze. Fu in questo momento che Filippo di Spagna, oltre a possedere alcuni territori sul continente e nel nuovo mondo, divenne anche re d'Inghilterra.

È a questo punto che si deve guardare con molta attenzione al panorama politico Europeo dell’epoca. Osservando una carta geografica del XVI secolo si può notare come Filippo II di Spagna avesse ereditato da suo padre, Carlo V, un’eredità immensa: il regno di Spagna con i suoi possedimenti nelle Indie Occidentali, la Borgogna, le provincie italiane, il ducato di Milano e le Provincie Unite. Si nota quindi una volontà di accerchiare la Francia, principale nemica sul continente, visto che la corona dell’Impero si trovava nelle mani dello zio dello stesso Filippo. Ovviamente non era tutto rose e fiori per il sovrano spagnolo, il quale dovette fare i conti con una grande crisi economico-finanziaria del suo impero. Ad aggravare la situazione poi vi era il problema religioso, soprattutto nelle Provincie Unite, già fortemente ostili verso il dominio spagnolo, tanto da scatenare delle forti proteste nel 1564 e due anni dopo una vera e propria rivolta armata, guidata da Guglielmo d’Orange (il taciturno) nel nord delle Provincie. Questa rivolta, chiamata dagli spagnoli dei gueux (pezzenti), si protrarrà fino al 1648 intrecciandosi con il destino dei conflitti che in questo lasso di tempo riguardarono l’Europa.

Invincibile Armada

La Spagna di Filippo II

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Fu nell’unione matrimoniale che i destini inglesi e spagnoli si incontrarono, tuttavia la morte prematura di Maria nel 1558 non diede tempo ai sovrani di generare un erede e il titolo di regina inglese andò alla seconda figlia venticinquenne di Enrico VIII, Elisabetta, avuta da Anna Bolena. Filippo non perse tempo e chiese la mano della sovrana senza neanche corteggiarla, ma dandole una sorta di ultimatum, sfruttò le pressioni provenienti da nord (Maria Stuart, regina di Scozia, era la seconda in linea di successione al trono inglese) e il fatto che lo stesso regno inglese risultasse debole e diviso dall’interno a causa delle precedenti persecuzioni religiose e lotte politiche messe in atto da Maria. La mossa di Elisabetta sorprese il monarca spagnolo, tramite una lettera ella dichiarava di non poter sposare il sovrano a causa del suo essere eretica. Filippo non si diede per vinto: optò per una moglie più devota e tentò di far sposare Maria Stuart all’eroe di Lepanto Giovanni d’Austria, diventato ora governatore generale dei Paesi Bassi. In questo modo dopo aver detronizzato Elisabetta, la corona sarebbe andata alla regina di Scozia e a quello che nei piani di Filippo al suo braccio destro Giovanni. Sfortunatamente per i suoi piani Giovanni morì nel 1578 di tifo, mandando all’aria questo progetto, che fu raccolto però dal suo successore nei Paesi Bassi, ovvero Alessandro Farnese duca di Parma. Quest’ultimo diede subito prova della propria abilità di comandante riuscendo ad arginare, seppur momentaneamente, la rivolta dei gueux. Parallelamente la stessa Elisabetta incoraggiò la ribellione olandese inviando nelle provincie 6000 uomini, che, seppur male equipaggiati diedero un sostanzioso contributo ai rivoltosi. Nonostante ciò Filippo non intraprese nessuna azione fino a quando non gli giunsero i resoconti delle attività dei corsari inglesi contro le sue navi, che nel frattempo erano anche impegnate nella lotta contro gli ottomani. A questo punto il sovrano assunse un atteggiamento da doppiogiochista: se da un lato prese le distanze dalla bolla papale che Pio V emanò nei confronti Elisabetta, dall’altro, servendosi del duca di Norfolk (il quale a sua volta puntava a sposare Maria Stuart), tirava le fila per fare assassinare Elisabetta. Ma anche questo piano andò in fumo, perché l’ottima rete di intelligence di Sir Francis Walsingham riuscì a sventare ogni complotto della parte cattolica della corte della sovrana, facendo arrestare Norfolk e giustiziandolo nel 1572. Per l’ennesima volta Filippo fu costretto a cambiare strategia. Maria restava ancora la chiave di tutti i complotti inglesi, ma l’idea di metterla sul trono si fece sempre meno interessante per lo spagnolo, visti i legami della stessa con la Francia. Si passò quindi ad una prima embrionale idea di Armada naufragata miseramente dopo che una violenta tempesta la disperse, all’inviare un corpo di spedizione a sostegno dei ribelli cattolici irlandesi contro la corona inglese; rivolta che tuttavia fu soffocata ne sangue nel 1580, ma che perdurerà sino alla fine del XVII secolo.

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In quegli stessi anni un altro sovrano fu pervaso dalle ambizioni di una crociata contro gli infedeli, Sebastiano I re di Portogallo, che però il 4 agosto del 1578 venne ucciso in Marocco. Questo evento rimescolò le carte ancora una volta sul tavolo geopolitico europeo. La corona portoghese passò al vecchio prozio del precedente sovrano Enrico. La situazione era perfetta per il re di Spagna, il quale non perse tempo ed invase il Portogallo. L’unico erede di Enrico fuggì nelle Azzorre, autoproclamandosi re di Portogallo, a nulla servì l’aiuto francese inviato sulle isole a sostegno di Dom Antonio. La flotta spagnola guidata dall’ammiraglio Alvaro de Bazan riuscì ad avere la meglio ed incorporare le Azzorre tra le proprietà spagnole, ovvero la stessa sorte che era toccata alla nazione lusitana e a tutti i suoi possedimenti. L’azione di Bazan fu efficace in quanto riuscì ad usare il punto di forza della flotta spagnola, ovvero le galee mediterranee nell’atlantico a supporto dei galeoni d’alto bordo portoghesi incorporati all’armata dopo la presa di Lisbona. Per Filippo la morte di Sebastiano fu un colpo di fortuna, ma il successivo funerale fu ciò che diede il via “all’impresa d’Inghilterra”. Nei primi giorni di marzo del 1587 la regina Elisabetta fece decapitare Maria Stuart.

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La decapitazione di Maria Stuart

La decapitazione diede a Filippo il giusto pretesto, il casus belli che stava cercando. Il sovrano spagnolo iniziò a fare pressioni al duca di Bazàn per l’allestimento della flotta, mentre dall’altra parte del continente anche il Farnese iniziava i preparativi per l’invasione. Il corpo d’invasione delle Fiandre (circa 30.000 uomini, 17.000 dei quali veterani) era uno dei migliori d’Europa ed avrebbe potuto contare su uno dei migliori generali del tempo quale il duca di Parma. Inoltre, l’Inghilterra aveva già dimostrato di non essere all’altezza di uno scontro del genere, in quanto ancora nel 1586, quando Elisabetta mandò un corpo di spedizione a supporto dei ribelli delle provincie Unite, questi avevano ancora in dotazione l’arco lungo, un arma medievale ormai obsoleta. Nella realtà dei fatti però le cose non erano così rosee come potevano apparire sulla carta. Infatti, prima di tutto lo stesso condottiero italiano era consapevole che il suo corpo non sarebbe bastato senza il supporto della flotta spagnola, in quanto nelle operazioni di avvicinamento alla costa inglese avrebbe dovuto fare i conti con una reazione inglese e con le audaci flottiglie olandesi, esperte nelle operazioni di guerriglia nei mari di “casa”. Non sembra poi coì assurdo quindi che il farnese si fosse dimostrato molto scettico in questo progetto. Anche per il fatto che far allontanare l’esercito dalle Fiandre avrebbe voluto dire lasciare i ribelli liberi di agire e quindi mettendo a rischio la regione delle Provincie Unite. Inoltre le navi spagnole e portoghesi (incorporate alla flotta iberica) avevano un pescaggio eccessivo, quindi sarebbero state sicuramente sì più potenti dal punto di vista dell’artiglieria, ma indubbiamente più lente i quelle dei “pezzenti di mare” olandesi e dei corsari britannici. Se il duca di parma avesse visto come il sovrano spagnolo stava allestendo l’Armada, i suoi dubbi sarebbero aumentati. Nei progetti di Filippo la flotta spagnola e l’incorporazione di quella portoghese rappresentavano solo un tassello dell’impresa: furono chieste navi anche ai vassalli dell’impero e in più un’ordinanza emanata dal re di Spagna nel 1585 impose che tutte le navi mercantili presenti nei porti dei possedimenti spagnoli (quindi anche inglesi) sarebbero state passate al setaccio e, se trovate idonee, sarebbero state armate in modo da essere reclutate nell’impresa. Si mobilitarono tutte le risorse possibili per equipaggiarle con cannoni, proiettili, polvere da sparo, pezzi di rispetto, botti d’acqua. Il porto di concentramento era Lisbona, ma navi e risorse si stavano radunando anche in altri porti come Barcellona, Napoli, ma anche nei porti delle Indie Occidentali. Questa situazione di allestimento risultò ideale per gli attacchi preventivi dei corsari inglesi. Nello specifico Francis Drake, che quindici anni prima era un semplice corsaro, adesso era un rispettabile ammiraglio e vantava sia un posto a corte sia una posizione politica. Egli partì per le Indie Occidentali con una flottiglia di mercantili equipaggiati per la guerra e quattro galeoni (grazie ad un investimento della corona inglese), saccheggiando i porti di Cartagena e Santo Domingo, dove gli spagnoli stavano accumulando risorse preziose da spedire in Spagna(1586), per poi lanciare un devastante raid contro le basi impegnate nell’allestimento dell’Armada: nel solo attacco a Cadice la squadra del Draque diede fuoco ad una quarantina di navi, causando danni di circa 170.000 ducati, dando fuoco inoltre a rifornimenti e materiali, compresa buona parte del legname che avrebbe dovuto essere destinato alla costruzione di botti per il trasporto di acqua nell’Impresa d’Inghilterra. Filippo tentò di minimizzare il colpo subito, ma la situazione stava sfuggendo di mano alla corona iberica, tanto che nell’inverno 1587-88 esplose una crisi, in quanto i costi della spedizione superavano i 900.00 ducati al mese, ovvero 80% delle spese dello stato. Alla fine del 1587 un rapporto sostiene che la flotta fosse nel caos: le forniture arrivavano in ritardo e nel massimo disordine, mancavano i barili per il trasporto di viveri, le diserzioni erano all’ordine del giorno, gli uomini a bordo erano in preda a malattie di vario tipo. Alcune delle navi erano così mal ridotte che si temeva che affondassero prima di uscire dal porto. Il vecchio duca di Bazàn consumò le sue ultime energie in un “braccio di ferro” con Filippo, era conscio del fatto che la spedizione era da annullare o quantomeno rimandare di un anno o più, ma il sovrano aveva già preso la sua decisione, anzi aveva già pronto un sostituto, aspettandosi una dipartita del vecchio duca, che effettivamente avvenne sei giorni prima della partenza. Al suo posto il re mise il comandante militare dell’Andalusia, Alonso Perez de Guzman, duca di Medina Sidonia. Per Filippo II di Spagna il dado era tratto, pronto o meno quello era il suo momento e non poteva tornare indietro.

Nicolò Zanardi 

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"I Morti non... Parlano"

Lettere di due condannati a morte fedeli all'Italia

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Oggi vi mettiamo di fronte a due scritti di un tempo sufficientemente lontano per definirsi “Passato”, ma ancora sufficientemente “Presente” da condizionare il nostro modo di pensare e vedere le cose al punto da rimarcare, invece di assottigliarle, quelle divisioni che un tempo portarono ad una drammatica guerra fratricida tra italiani. Come molti avranno intuito mi riferisco alla Guerra Civile Italiana che si svolse tra il 1943 e il 1945, nel bel mezzo quindi della Seconda Guerra Mondiale. Quel conflitto talmente drammatico e colmo di sfaccettature da riuscire a disgustare e al contempo affascinare tutti coloro che vi entrano in contatto. 
I protagonisti che vi presenteremo facevano parte di due schieramenti opposti. Il loro nomi erano Emanuele e Giancarlo. Entrambi hanno combattuto per ciò che amavano più di ogni altra cosa: l’Italia; questo possiamo comprenderlo dal modo in cui sottolineano il loro intento all’interno delle lettere che scrissero ai propri cari in due momenti drammaticamente differenti l’uno dall’altro. 
Nello specifico, Emanuele Frezza fu uno dei tanti giovani che volle arruolarsi nella XMAS dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Combatté a Nettuno tra le file del Barbarigo, morendo in combattimento nel tentativo di difendere la propria postazione. Mentre Giancarlo Puecher Passavalli fu uno tra gli organizzatori dei gruppi partigiani e prese parte a numerose azioni fino a quando non venne catturato il 12 Novembre del 1943 e poi fucilato il 21 Dicembre dello stesso anno. 
Entrambi i giovani, che affermano di aver combattuto per difendere la loro amata Italia, al momento della morte non avevano più di 20 anni.

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Nell'Immagine: Un'Italia martoriata cerca di reggersi in piedi, nonostante le ferite infertegli dal nemico e dai suoi stessi figli, intendi a combattere tra di loro in un insano scontro fratricida per il quale potra i segni ancora oggi.   

Lettera di Emanuele Frezza, La Spezia, 20 Novembre 1943:
Babbo e mammina carissimi, 
vi scrivo oggi poche ore prima di arruolarmi volontariamente in qualità di aspirante ufficiale nella Xa Flottiglia MAS. 
Lotte segrete di parti, fermentate dal più vile servilismo hanno condotto nel baratro la nostra bella Italia e con essa gli Italiani. 
Un vile tradimento, un odioso armistizio hanno portato all0invasione di buona parte del nostro sacro suolo. Ed in quella parte calpestata dalle tanto odiate orde nemiche vi trovate voi. Il destino ci ha separati. 
Da molto tempo –sembrano secoli- siamo da ambo le parti privi di notizie; il conforto della parola ci è venuto a mancare. Solo la fervida speranza ci sorregge riunendoci nel pensiero e nella preghiera. Così al dolore della Patria distrutta si è aggiunto il dolore di noi stessi. Forse nel momento cruciale che attraversiamo non si dovrebbe più parlare di sentimento patrio, perché non si sa quale sia il vero nemico. Così Ognuno è lasciato al proprio arbitrio; c’è chi odia i tedeschi, c’è chi odia gli angloamericani. Io, e spero anche voi, sono compreso fra i secondi… Ho dovuto assistere a tante scene che mi hanno fatto vergognare di essere italiano. Non ve le descrivo perché il rivederle mentalmente mi fa maggiormente vergogna. Sono state scene apocalittiche che anche il più fine regista non potrebbe mai realizzare sulla scena del cinematografo. Così, in quell’immane travaglio, solo pochi valorosissimi, spinti dal più puro ideale, hanno preso la guida della pericolante nave dell’onore italiano per condurla verso la cala del riscatto. Essi si sono rivolti ai giovani Ai giovani è affidato il compito di riscattare l’onore perduto. Io ho 19 anni: sono un giovane italiano. Il mio dovere è uno: combattere!
Babbo e mammina tanto cari, voi che mi avete dato alla luce del mondo, voi che mi avete allevato, voi che mi avete infuso il pensiero, voi che avete tanto sofferto e tanto vi siete sacrificati per me, voi mi comprendete. Come posso restare sordo all’appello della Patria? Il mio nemico è uno: l’Inghilterra.
Contro di esso combatterò con tutte le mie forze. Forse la lotta è vana, ma il risultato sarà grande lo stesso: laveremo col sangue l’onta del disonore. Perciò non piangete se il destino mi riserverà la fine degli eroi oscuri. Dovreste essere fieri del vostro Lello che tutto avrà dato per la Patria. Siate forti come sempre lo siete stati nei momenti più cruciali della vostra vita. Quando si è giovani bisogna osare e lottare perché la vita è lotta. Smetto di scrivere allegando alla presente due mie recentissime foto: so che vi sono gradite. Con la speranza che un giorno vi sia recapitato, affido questo scritto alla persona che a Spezia mi è stata più cara:………. Durante qualche licenza ho avuto occasione di parlarvi di essa: è tanto buona. Le ho sempre voluto bene e ne è degna! Vogliatele bene anche voi. 
Salutare per me i parenti tutti e a quelli che più mi hanno voluto bene vada il mio pensiero più caro. Ad Anastasia e Linuccia do tutta la mia tenerezza. A Peppino, Pio, Vito e Mario lascio una sola consegna: amare la patria sopra ogni cosa e difenderla contro tutto e contro tutti. 
A voi, carissimi, affido ciò che ho di più caro: il mio cuore; in esso sono racchiuse tutte le mie ansie e gli affetti dei miei 19 anni; custodi telo. 
Questo è il mio testamento spirituale.
Babbo e mammina carissimi, mi arruolo con la certezza della vostra comprensione.
Beneditemi!”[1]

Giancarlo Puecher Passavalli, dicembre 1943. 
Muoio per la mia Patria. Ho sempre fatto il mio dovere di cittadino e di soldato: Spero che il mio esempio serva ai miei fratelli e compagni. Iddio mi ha voluto... Accetto con rassegnazione il suo volere. Non piangetemi, ma ricordatemi a coloro che mi vollero bene e mi stimarono. Viva l'Italia. Raggiungo con cristiana rassegnazione la mia mamma che santamente mi educò e mi protesse per i vent'anni della mia vita. L'amavo troppo la mia Patria; non la tradite, e voi tutti giovani d'Italia seguite la mia via e avrete il compenso della vostra lotta ardua nel ricostruire una nuova unità nazionale. Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non sanno che l'uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia. A te Papà l'imperituro grazie per ciò che sempre mi permettesti di fare e mi concedesti. Gino e Gianni siano degni continuatori delle gesta eroiche della nostra famiglia e non si sgomentino di fronte alla mia perdita. I martiri convalidano la fede in una Idea. Ho sempre creduto in Dio e perciò accetto la Sua volontà. 
Baci a tutti. 
Giancarlo[2]

Emanuele Bacigalupo

Immagine di Tommaso Debernardis

Note
[1]: Lettere dei Condannati a Morte della R.S.I., B&C, Roma, 1976, pp.43-44-45.
[2]:http://m.flcgil.it/…/25-aprile-le-lettere-dei-condannati-a-…


Bibliografia: 
Lettere dei Condannati a Morte della R.S.I., B&C, Roma, 1976

Sitografia:
http://m.flcgil.it/…/25-aprile-le-lettere-dei-condannati-a-…
https://toscano27.wordpress.com/…/giancarlo-puecher-passav…/

 

PELLEGRINAGGI E PELLEGRINI

Pellegrini e Pellegrinaggi
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1 Il pellegrinaggio all’interno della cultura medievale e le sue tematiche:

La cultura europea può essere considerata medievale quando la tradizione classica latina viene mutata da due elementi: quello cristiano e quello germanico. Per la cultura prodotta dalle usanze cristiane il  principio cardine era la fede nel Cristo. Una fede trasmessa attraverso la predicazione di Cristo ai suoi Apostoli e dagli Apostoli ai loro successori. La fede non è di per se una cultura, ma ha influenzato la morale e ha dato alla luce la cultura teologica, ovvero la riflessione su Dio e, all’interno di essa, sull’uomo e sul cosmo.

L’egemonia culturale cristiana su quella pagana era stata raggiunta nel IV secolo, secolo in cui la civiltà cristiano-pagana deve confrontarsi con la tradizione germanica la cui  cultura era tramandata oralmente. L’integrazione della cultura classica con quella cristiano-germanica e la conversione al cristianesimo dei sovrani germani sono fenomeni molto lenti, che possono dirsi compiuti nel XI secolo. La fede cristiana era stata in grado “di egemonizzare una società ponendosi al centro di essa come il referente necessario per le coordinate che reggono i valori e le convinzioni di tutti”.[1] Proprio in un contesto di questo genere il Medioevo conosce un nuovo fenomeno che è quello del pellegrinaggio. Va osservato che il pellegrinaggio non è un’usanza prodotta dal cristianesimo, basti pensare ad esempio, al buddismo e al recarsi dei suoi fedeli nei luoghi legati a Budda. 

Elemento importante del pellegrinaggio cristiano è il culto delle reliquie. Per capire meglio la singolarità di questo culto possiamo basarci sulle parole di Viltricio, vescovo di Ruen, contenute nel De laude sanctorum. È un trattato  sul ruolo che il santo ha nella vita dei fedeli.  

I santi sono delle guide per i cristiani e sono corporei e consanguinei a Cristo. La reliquia non è solo un ricordo del santo e dell’eroe, è il segno di una perfezione raggiunta, cioè di quell’unione Dio-uomo che è propria del Cristo, e dunque dell’unione uomo-Dio possibile al fedele di Cristo.

Connessa al tema del pellegrinaggio è la problematica dell’esilio che trova un legame profondo con l’ebraismo, dal momento che nell’Esodo e nel Vecchio Testamento, il popolo ebraico viene rappresentato nell’angosciata condizione dell’esilio che, tuttavia, riesce a raggiungere la terra promessa. Dal punto di vista della tradizione cristiana medievale, la patria del fedele è il cielo, Dio stesso. Il fine dell’uomo è nell’aldilà ed è Dio nel Cristo che permette quel viaggio. Gerusalemme è solo una figura, è figura di un viaggio in cui l’uomo è in esilio, è un pellegrino che viaggia con lo scopo di trovare la patria in cui raggiunge la vera felicità e la pienezza. Il suo è un viaggio inanzitutto spirituale che si fonda sul riconoscimento di Dio che da un senso alla vita e  prega lo spirito di Dio affinché diventi spirito dell’uomo, dove inizia un amore gratuito non solo verso sé stesso, ma verso tutti. Questo è un tipo di viaggio che trasforma realmente l’uomo per cui è sia spirituale che concreto. “Ciò non toglie che nel pellegrinaggio, nella meta terrena, non rimanga una dimensione sacrale, come si può rintracciare anche nei pellegrinaggi non cristiani: il luogo, il santuario, la reliquia considerati come la mediazione verso il divino”.[2]

2 Chi erano i pellegrini:

Tutti potevano partire per il pellegrinaggio. Si può pensare che la maggior parte dei pellegrini fossero uomini, sani e forti, ma invece tra coloro che viaggiavano erano presenti molte donne, bambini e malati.  Dalla testimonianza dei miracoli di Sant’Elisabetta risulta evidente che veniva chiesto di fare un voto più frequentemente alle donne che non agli uomini.[3] Negli ordinamenti degli ospizi, dei monasteri e degli alberghi più poveri era prevista la presenza di donne. Sempre secondo le testimonianze delle relazioni dei miracoli di Elisabetta, 62 dei 106 guariti era al di sotto dei 16 anni, il che corrisponde al 58%.[4] 

Vi furono casi in cui i bambini partirono spontaneamente per il pellegrinaggio, anche contro il volere dei genitori: nel 1455 è avvenuto un pellegrinaggio di bambini verso Mont Saint Michelle, in Normandia. Di questo viaggio è rimasta una fonte che contiene in sé tutte le caratteristiche di un vero e proprio pellegrinaggio poiché si parla della riunione in piccoli gruppi, dell’andamento processionale, dello stendardo, delle difficoltà e degli aiuti ricevuti durante il viaggio.[5]

Le persone malate che prendevano la via del pellegrinaggio partivano con la speranza che Dio potesse guarirli grazie all’intercessione di un santo. Come si legge nel Vangelo, Gesù aveva ridato la vista ai ciechi, l’udito ai sordi e guarito i malati.

Nelle raffigurazioni il pellegrino indossa camicia, pantaloni, calze e scarpe. Importante era il mantello che proteggeva dal freddo e dalla pioggia. Sulla testa egli portava un cappello a tesa larga  che proteggeva dal sole. Portava con sé il bordone, un bastone lungo dal manico ricurvo, usato non solo come punto d’appoggio, ma anche come efficace arma per difendersi da eventuali nemici.

3 Percorsi storici delle principali mete del pellegrino[6]

Nel Vecchio Testamento vi è spesso il ricordo della città santa, meta del pellegrinaggio del popolo eletto. Gerusalemme possedeva tutto quello che potesse soddisfare lo spirito con il tempio, il tabernacolo, l’arca santa. Gerusalemme è venerata dagli ebrei, dai musulmani e dai cristiani. Questa città, nella sua storia assistette più volte alla deportazione dei suoi cittadini, alla sua distruzione e riedificazione. Nel IV secolo, con l’adesione di Costantino al cristianesimo, iniziò un periodo di pace per la Chiesa e fu il secolo in cui iniziò l’epoca dei pellegrinaggi. Gerusalemme era una città che possedeva una ricca biblioteca per cui era frequentata da molti studiosi. Fu una città per la quale non si spense mai quel fascino che attirava i pellegrini che dal IV secolo continuarono ininterrottamente ad arrivare, anche nei momenti di maggior pericolo. I pellegrini viaggiando verso Gerusalemme sapevano di compiere la “peregrinatio maior”.[7]

Con le crociate, l’alta spiritualità che vi era nei pellegrini si affievolì, anche perché esse per molti aspetti furono un insuccesso. La prima delle cause d’insuccesso fu l’impreparazione nell’affrontare un problema come quello del riscatto di una terra contesa per motivi religiosi e composta da gente di paesi e etnie diversi. Crociati e pellegrini sembravano di andare di pari passo scambiandosi facilmente i ruoli, tanto che si potevano vedere pellegrini armati, la conseguenza che ne derivò fu la dissoluzione dei valori religiosi dell’Occidente cristiano.

Roma, come già detto, era identificata con Pietro e Paolo fin dai primi secoli della cristianità. Sulle tombe degli Apostoli, durante gli anni dell’imperatore Costantino sorgeranno basiliche in loro onore. I pellegrini erano attratti dalle basiliche e dalle catacombe, dove il culto dei martiri era vivo. La maggior parte dei pellegrini si recava alle catacombe di San Callisto dove vi era “la cripta dei papi”, e a quelle di san Sebastiano, dove Pietro e Paolo furono deposti per breve tempo. È grazie ai pellegrini se le catacombe non vennero abbandonate e lasciate andare in rovina. Dal VII secolo aumentò l’affluso dei pellegrini a Roma, come conseguenza della conquista di Gerusalemme da parte degli Arabi.

La chiesa di Roma possedeva molte reliquie, in tutti i luoghi di culto, e i fedeli erano fieri di questa cosa. Una delle reliquie più importanti che attirava i fedeli era quella della Veronica, che era l’icona col “Volto Santo” del Cristo conservata nella basilica vaticana. I pellegrini non lasciavano Roma senza renderle omaggio.

Santiago di Compostela fu uno dei luoghi più venerati della cristianità.  Secondo la tradizione, San Giacomo era giunto in Spagna per predicare il Vangelo; ritornato in Palestina fu decapitato per mano di Erode Agrippa nel 44 d.C. e i suoi discepoli portarono le sue spoglie per mare fino a Ira Flavia, porto della Galizia, e lo sepellirono nel bosco di “Liberum Donum”, dove costruirono un altare. A causa delle persecuzioni era vietato visitare la tomba, quindi si persero le tracce, fino all’813 quando l’eremita Pelajo vide dei bagliori di luce e sentì dei canti provenire dal bosco. Dopo aver riferito l’accaduto a Teodomiro, vescovo di Ira Flavia, che scoprì i resti della tomba, fu nformato anche Alfonso II, re delle Asturie, che arrivato nei pressi della tomba nominò san Giacomo patrono del regno.  Il primo pellegrino fu il vescovo di Le puy, Gotescalco nel 951. Da allora i pellegrinaggi continuarono senza fermarsi mai. I pellegrini provenivano da tutte le classi sociali, dai re ai mendicanti.

 

4 I diritti del pellegrino:

I pellegrini potevano essere privati della libertà; potevano essere catturati dai mercanti di schiavi o da potenti che avevano l’intento di rapirli per richiedere un riscatto. Quando fu Roma  a diventare meta principale del pellegrinaggio, i vari pontefici presero decisioni in merito alla protezione dei pellegrini che viaggiavano verso Roma. Con il Concilio Lateranense I nel 1123 si concedeva la protezione della Chiesa di Roma a coloro che si recavano alla “soglia degli apostoli” e nei maggiori luoghi di culto, mentre era prevista la scomunica per coloro che attaccavano i pellegrini. Furono anche emanate delle bolle papali per garantire la sicurezza, come quella di Bonifacio VIII Excommunicamus (4 aprile 1303).

Tra l’XI e il XII secolo venivano fondati ospizi gestiti da ordini religiosi-cavallereschi, da monaci o anche da laici. Erano case di accoglienza per i pellegrini, ma anche ospedali e luoghi dove prestare soccorso ai più poveri. Anche i Comuni nella loro fase iniziale erano favorevoli a proteggere i forestieri. Insieme agli ospizi, a Roma, si svilupparono anche attività alberghiere a pagamento di cui potevano usufruire i pellegrini e tutti i viaggiatori in generale.

 

5 L’arrivo alla meta e il ritorno:

Verso gli ultimi giorni di cammino i pellegrini erano pervasi da un senso di attesa.  Nell’ultima tappa il pellegrino doveva pensare alla cura del proprio corpo facendosi un bagno.  Una volta arrivati nella Basilica i pellegrini passavano la notte in preghiera. Coloro i quali avevano una grazia da chiedere cercavano di avvicinarsi di più  alla tomba dove, inoltre, venivano lasciati i doni che erano stati promessi durante il voto. Quando qualcuno veniva miracolato, il suo racconto era inserito nei registri ufficiali.  Coloro che si avvicinavano alla tomba del santo erano pervasi da una miriade di sensazioni dovute da vari fattori, come la pressione di altri pellegrini in attesa o il sentire i racconti dei miracoli. Proprio per il costante afflusso di pellegrini era presente un vero e proprio  servizio d’ordine.

I pellegrini,  erano desiderosi di entrare in contatto fisico col luogo santo, per questo quando si inginocchiavano a pregare toccavano il pavimento con le ginocchia nude. La loro preghiera era accompagnata da sospiri, gemiti e pianti che potevano ripetersi per diversi giorni. Si poteva rimanere a  venerare la tomba, nella misura in cui i responsabili del servizio d’ordine lo permettevano. Nella predica della “Veneranda dies”[8] viene descritta la folla di pellegrini che veglia sull’altare di san Giacomo, l’autore distingue i fedeli in base alla lingua che parlano, ci sono francesi, italiani e tedesci, tutti tengono in mano le candele. C’è chi intona inni nella propria lingua, chi prega. Dalle parole dell’autore traspare una forte emozione dovuta alla pacifica convivenza dei pellegrini provenienti da diversi popoli.

Le cose a volte, però, potevano anche non svolgersi nel migliore dei modi,  sempre nella  “Veneranda dies” viene ricordato un tragico episodio a St. Gilles, sulla tomba di sant’Egidio dove Franchi e Baschi si erano contesi a pugni i posti migliori vicino alla tomba, due di loro dopo essere stati colpiti morirono. Ovviamente l’autore afferma che i pellegrini devono assolutamente evitare di ubriacarsi e non iniziare delle contese.

I doni dei pellegrini venivano lasciati nei luoghi stabiliti dal servizio d’ordine, in modo tale che fossero “sotto gli occhi del santo” così si sarebbe ricordato del donatore anche una volta che egli andava via. A Santa Redegonda, è conservato un affresco della metà del XIII secolo, nel quale è raffigurato il modo in cui i doni venivano portati all’altare e vicino ad esso sono appesi stampelle o gambe di legno.[9]

I pellegrini passavano anche un po’ di tempo a fare acquisti, si prendeva un ricordo del luogo in cui si era stati. In Terrasanta, prendevano un ramo di palme o un po’ d’acqua del giordano. A Santiago, veniva acquistata la conchiglia. Nel tardo Medioevo vennero introdotte delle specifiche insegne per il pellegrino in metallo, a Roma, per esempio, queste insegne raffiguravano gli apostoli Pietro e Paolo.

Una volta pronto, il viaggiatore, riprendeva la strada verso casa. Non appena arrivato si dirigeva in chiesa in cui venivano deposti bastone e bisaccia.  Il pellegrino conservava per il resto della sua vita il bordone, la bisaccia e il mantello, portava in occasione delle feste principali, una volta morto veniva seppellito con esse.

Camilla Bigatti

 

Note

[1]      Romei e Giubilei. Il pellegrinaggio medievale a San Pietro (350-1350), a cura di M. D’Onofrio, Electa, Milano 1994, p.44

[2]      Romei e Giubilei. Il pellegrinaggio medievale a San Pietro (350-1350), cit., pp. 46-47.

[3]      N. Ohler, Alltag im Marburger Raum zur Zeit der hl. Elisabeth, in Archiv für Kulturgeschichte 67 (1985), pp. 1-40.

[4]      N. Ohler, Alltag im Marburger Raum zur Zeit der hl. Elisabeth, cit., p. 10.

[5]      Kohlhoffsche Chronik zum Jahr 1455, in Die Chroniken der deutschen Städte vom 14. bis 16. Jahrhundert, vol. 14 (Köln, 3), Leipzig 1877, p. 799 s.

[6]      In questo paragrafo non vengono citate le opere scritte sui principali itinerari, perché già inseriti nel precedente Articolo: "Pellegrini e Itinerari Medievali Negli Annales Stadenses: il Viaggio (Parte 1- 2)"

[7]      T. Natalini, Il pellegrinaggio. Cammino spirituale. Gerusalemme Roma Santiago de Compostela, Piemme, 1999, p. 50.

[8]      Liber Sancti Iacobi-Codex Calixtinus, serm. 17, I libro.

[9]      Illustrazione in Sankt Elisabeth. Fürstin. Dienerin. Heilige, Aufsätze, Dokumentation, Katalog, Sigmarigen 1981, n. 101.

Articoli Allegati:

"Pellegrini e Itinerari Medievali Negli Annales Stadenses: il Viaggio (Parte 1)" : Camilla Bigatti

"Pellegrini e Itinerari Medievali Negli Annales Stadenses: il Viaggio (Parte 2)" : Camilla Bigatti

 

Le streghe nell’immaginario collettivo medievale

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Caccia alle Streghe

Nell’immaginario collettivo la strega ha da sempre esercitato un ruolo centrale assommando su di sé tutte le caratteristiche della devianza. Basta prendere a conferma di ciò tutte le credenze riguardanti, ai rituali per rendere omaggio al diabolico, le trasformazioni in animali o i banchetti a base di bambini. Per dare una inquadratura storica del fenomeno della stregoneria e della figura della strega, bisogna tornare indietro nei secoli in un’Europa in cui venne dato il via a quella brutale pratica che fu la caccia alle streghe. I recenti studi su questo argomento hanno portato a suddividere la caccia alle streghe in tre distinte fasi: una prima ondata di persecuzioni prese il via dopo la promulgazione della bolla pontificia Summis Desiderantes Affectibus (1484) e supportata dalla pubblicazione del testo Malleus Maleficarum (1486), considerato una sorta di “bibbia” per chi aveva intrapreso la carriera di cacciatore di streghe o per i demonologi. Questa prima fase di persecuzione, durata all’incirca un trentennio, toccò principalmente una specifica area geografica comprendente: la Germania renana, la Stiria, il Tirolo, le Alpi italiane e i Pirenei. Dopo una breve pausa la giustizia ecclesiastica riprese ad operare a pieno regime dalla seconda metà del XVI secolo, questa volta andando a interessare principalmente i paesi di religione protestante. Raggiunto il suo apice massimo la persecuzione andò lentamente scemando, si ebbe ancora qualche processo nel XVIII secolo ma nulla di più. Tutto il contesto per la caccia alle streghe fu preparato da un’opera di brutale mistificazione messa in atto dai demonologi per fissare la nuova ideologia a ogni livello del tessuto sociale. Tutto un variegato di conoscenze, rituali e culti presenti nelle campagne dell’Europa fu stereotipato dall’immaginario giudaico-cristiano e inserito nella pratica conosciuta come Sabba diabolico. In tale pratica vengono inseriti anche un nucleo di credenze pagane, emerse e giunte sino a noi da varia documentazione, come: un rituale dedicato a una divinità femminile, l’uccisione rituale di animali o uomini e il volo notturno a cavallo di animali. La pratica del volo notturno merita un discorso particolare e più approfondito, prendendo in considerazione gli scritti di Alfonso Tostado, professore di filosofia, teologia e diritto del collegio di Salamanca. Il professore dava una giustificazione del volo notturno facendo riferimento all’evento in cui il diavolo grazie al suo potere riuscì a trasportare Cristo in volo prima nel deserto, su un pinnacolo del tempio e infine sulla cima di un monte elevato (Matteo e Luca). Tostado giunge alla conclusione che se il diavolo riuscì a trasportare Cristo stesso in volo, allora esso potrà trasportare chiunque altro. Conclude la sua tesi affermando che i diavoli possono trasportare gli uomini in luoghi differenti e avere la collaborazione diabolica per la realizzazione dei malefici. Prendendo in esame le confessioni delle streghe sotto processo, vi sono alcuni elementi che, per quanto filtrati dalla logica inquisitoriale e demonologica, fanno riferimento all’uso di sostanze psicotrope, in particolare la pratica di spalmarsi il corpo con un particolare unguento prima di recarsi al sabba (pratica attestata in molti processi svoltisi nel XV secolo). Nell’immaginario stregonesco va poi inserito anche l’utilizzo di molte piante, molto comuni sul nostro continente, con effetti tossici: la miscelazione, per esempio, della Belladonna con la Cicuta provoca delle forti allucinazioni, e non dovevano essere neanche ignoti gli effetti allucinogeni della Segale Cornuta. La visione della strega come abile manipolatrice di erbe, filtri e veleni, capaci di provocare visioni o indurre eventi innaturali, era molto diffusa già in età classica, ma il collegamento tra il volo magico e l’utilizzo di particolari unguenti appare solo successivamente e in particolare nella documentazione cristiano-medievale. Questo famigerato unguento viene continuamente citato in tutti i manuali inquisitoriali, dove venivano riportate perfino le ricette per la sua preparazione con tanto di descrizione di ingredienti orripilanti e grotteschi: grasso di bambino non battezzato, sangue di pipistrello, vipere, rospi, ossa di morti, sangue mestruale e così via. Nei manuali si faceva solo un breve accenno alle “erbe delle streghe” ma non venivano identificate nello specifico. Con la trattazione fatta da Della Porta si comincia ad avere una prima conoscenza più approfondita delle sostanze neuro psicoattive contenute nell’unguento e il delirio indotto che provocano a chi ne fa uso. Egli stesso assiste al fatto, in cui una vecchia cosparsasi il corpo di tale unguento cadde quasi istantaneamente in quello che poteva sembrare un sonno profondo. Con il passare del tempo il filtro perde il suo effetto e al risveglio la vecchia racconta, delirando, di aver percorso in volo delle grandi distanze superando mari e monti. Della Porta conclude che: “la bramosia di sensazioni ha spinto l’uomo ad abusare di determinate sostanze che la natura offre. Molte di queste sono riunite e miscelate per la creazione degli unguenti delle streghe. Benché siano mescolati a molte superstizioni non vi è dubbio che la loro efficacia derivi da elementi presenti in natura. Esse cuociono grasso di bambini stemperato con acqua, alla pasta rimanente aggiungono aconito, foglie di pioppo, sangue di pipistrello, solano sonnifero e olio”. Degli elementi descritti vanno presi in considerazione l’aconito e il solano sonnifero. L’aconitum nepellus è una pianta erbacea presente in tutta Europa, tra i suoi principi attivi troviamo napellina, aconitina, luteolina e apigenina, ed è uno dei veleni vegetali più potenti. I preparati a base di aconito applicati alla cute provocano: eccitazione sensoriale, effetto anestetico, paralisi dei centri bulbari e irregolarità cardiache. Il solano sonnifero o atropa belladonna è anch’essa una pianta diffusa in tutta Europa, soprattutto nelle radure e lungo le strade boschive, il suo frutto è una bacca nera e lucida grande quasi come una ciliegia. La pianta contiene vari alcaloidi come la scopalamina, iosciamina, atropina. Nel processo di disidratazione la ioscamina muta la sua struttura chimica e diventa atropina, la quale è una delle sostane delirio-inducenti più potenti. Questi sono solo due esempi della varietà di piante che facevano uso le streghe. Venivano utilizzate piante come: Il Giusquiamo, la Datura stramonio, l’Atropa mandragora, tutti farmaci doso dipendenti che a bassi dosaggi provocano euforia, benessere, disturbi della memoria e alterazioni spazio temporali. Una delle obbiezioni, veicolate dalla critica, contro l’ipotesi dell’induzione farmacologica di esperienze psichiche, è che l’utilizzo di questi unguenti era un’applicazione diretta sulla cute e ciò non consentiva un assorbimento delle sostanze in maniera apprezzabile. In risposta a tale affermazione, bisogna tenere conto che questi unguenti trovavano applicazione su pelle lacera, carne viva o piaghe, in tali condizioni la loro azione psicotropa poteva essere molto rapida, anche di più rispetto all’ingestione o inalazione. L’igiene, specie tra le classi più povere, era del tutto approssimativo, malattie scrofolose, parassiti di ogni genere, carenze vitaminiche e alimentari erano tutte cause di prurito, piaghe e infezioni. Gli unguenti, che i pazienti andavano a richiedere alle streghe erboriste, avevano funzione lenitiva per il dolore e in alcuni casi curativa, ma molto frequentemente provocavano reazioni tossiche. Molti ingredienti, elencati in precedenza, venivano inseriti nella pomata con varie funzioni in base all’effetto che si desiderava: vulneraria (foglie di pioppo), sedativa (solanacee), antiflogistica e antibatterica (olio di iperico). Tali ingredienti non solo lenivano il dolore e curavano ma davano in aggiunta “sogni dilettevoli”. Si può quindi giungere alla conclusione che gli stati tossici indotti dall’utilizzo di questi unguenti, provochino nel paziente delle immagini di origine sensoriale che vengono percepite e vissute come reali. Coloro che affetti da piaghe dolorose o algie varie si rivolgono alla strega erborista per procurarsi i farmaci necessari (ipnotici, tranquillanti, neurolettici) e vengono inconsapevolmente iniziati ai misteri del sabba diabolico e legati ad una assuefacente tossicodipendenza. Il mito stregonesco, nato nel medioevo costruito dal potere religioso e la successiva attuazione della persecuzione, fondava le sue radici su una vasta ed effettiva permanenza, nell’Europa medievale, di riti e credenze connessi ad una religione agraria pre-cristiana. La grande antropologa Margaret Murray sviluppò una tesi secondo cui; il culto delle sacerdotesse di satana, figura costruita dalla demonologia medievale, non fu né un mito né una calunnia ben utilizzata dal potere del XVI secolo, ma rappresenta la permanenza di una antica religione pagana (un culto pre-cristiano della fertilità) sopravvissuto anche dopo l’avvento del cristianesimo. La coesistenza di questo mito contadino con l’evangelizzazione dell’Europa, sviluppò intolleranza della chiesa verso le pratiche magiche, presto considerate demoniache. Ad avallare la tesi della Murray abbiamo delle testimonianze di antichi come: Artemidoro, Posidonio, Strabone, Cesare, Tacito, S. Agostino, riguardanti le religioni dei barbari e dei popoli celtici che prevedevano liturgie orgiastiche, sacrifici umani, tecniche divinatorie, selve usate come templi e sacerdozio femminile tutte componenti tipiche di quello che in seguito verrà chiamato “culto satanico”.

Nel 1231 il papa Gregorio IX nominò il primo della serie di grandi inquisitori, che per i secoli successivi terrorizzarono l’Europa: Corrado di Marburgo, un folle sanguinario che per un biennio trasformò la valle del reno nel teatro di una delle più efferate giustizie contro una setta di seguaci di Lucifero che, a suo dire, compiva ogni genere di nefandezze e congiurava contro dio e la chiesa di Roma. L’assassinio di questo fanatico inquisitore comportò il momentaneo arresto della persecuzione ma convinse il papa che tale setta esisteva realmente, tanto che reputò necessaria l’emanazione di una bolla per rendere noto all’intera cristianità le notizie che erano state raccolte in merito. La bolla papale del 1233 suggeriva all’Inquisizione i termini per la lotta contro l’eresia, in particolare quella catara che non era ancora stata completamente domata. Nel documento pontificio la figura della strega è già perfettamente delineata e i rituali alla presenza del signore delle tenebre è descritto con precisione e che avrà innumerevoli riedizioni con sempre più ingegnose varianti nei secoli successivi. Quando all’assemblea dei reprobi si accoglieva un neofita, costui doveva compiere una serie di rituali per essere accettato: come primo all’apparizione di una rana o un rospo costui doveva baciare l’animale sull’ano o sulla bocca oppure leccare la lingua o la bava.

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Il passo successivo era abbracciare un uomo dal pallore spaventoso, niente più che pelle e ossa e freddo come il ghiaccio l’effetto immediato era lo scordarsi immediatamente della fede cattolica. Dopo aver banchettato il nuovo adepto per primo doveva baciare le parti posteriori di un gatto nero della grandezza di un cane, dopo di che tutti i presenti si abbandonavano alla lussuria più sfrenata senza distinzione di sesso. Nei punti di confluenza fra l’universo leggendario germanico e quello delle mitologie greco-romane, il cristianesimo aveva trovato la coerente e constante presenza del demonio: le orge bacchiche, i riti della fertilità, i fauni, le divinità delle acque dei boschi e dei campi, le fate, gli elfi, gli gnomi, i folletti e tutti gli innumerevoli abitatori della notte con il cristianesimo si mescolarono in un'unica orda infernale. Cinquant’anni prima della Vox in Rama il teologo Giovanni di Salisbury aveva raccolto nella sua opera, Polycraticus, le più varie versioni del Sabba di teologi, predicatori, giuristi e dalla tradizione popolare. Raduni che prevedevano: il volo notturno per raggiungere il luogo del congresso notturno, il culto di Diana ed Erodiade, le magie d’amore e i culti pagani, il cannibalismo e l’infanticidio rituale e i sortilegi. Verso le interpretazioni di queste voci, Giovanni di Salisbury non nasconde una profonda diffidenza. Mancavano due ingredienti fondamentali che permisero l’inizio delle persecuzioni successivamente: l’assimilazione della stregoneria al delitto di eresia e la dimostrazione e la dimostrazione della realtà delle operazioni stregonesche. Il primo dei due ingredienti fu ben evidenziato nella bolla di papa Gregorio IX, per il secondo si dovette attendere l’emanazione del terribile Malleus Maleficarum.

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Dalla prima metà del XII fino agli ultimi decenni del XIII secolo la chiesa aveva comunque preparato opportunamente il terreno per l’enunciazione della stregoneria-eresia. Guglielmo di Malmesbury scrive un Historia Regum Anglorum dove il mondo magico ricopre un ruolo preminente, Cesario di Heisterbach compone un Dialogus miracolorum ricolmo di eventi magico stregoneschi, S. Tommaso d’Aquino una monumentale opera demonologica dove mette a confronto l’operare divino (miracolo) e quello diabolico (il prodigio). Nel 1258 il pontefice Alessandro IV sotto le pressioni degli inquisitori e dei frati domenicani emanò la bolla Quod super nonnullis (ampliata poi nel 1260) con la quale si condannava coloro dediti a pratiche stregonesche purché si dimostrasse che costoro fossero anche degli eretici. La giurisdizione dei vescovi in merito ai casi di stregoneria e magia passò ai frati domenicani. I primi gruppi a subire la persecuzione inquisitoria furono i catari di Linguadoca e i Valdesi delle alpi. Rifugiatisi sulle montagne gli eretici non rappresentarono più un politicamente temibile, me è proprio sulle montagne che le

antiche credenze continuarono a sopravvivere e dove i presunti eretici trovarono momentaneamente pace, prima di essere nuovamente raggiunti dall’inquisizione. Il primo passo verso quella che sarà poi la vera e propria caccia alle streghe avvenne a sessant’anni di distanza dalla bolla emanata da Alessandro IV, il papa avignonese Giovanni XXII, ex inquisitore e affascinato dalle pratiche magica ma anche molto temute, fece delle più ampie concessioni riguardo l’inquisizione della stregoneria. Con le disposizioni del pontefice furono delineate le colpe, coloro che risultavano colpevoli e le pene in cui potevano incorrere: scomunica singola o collettiva, ulteriori pene, nel caso in cui la scomunica non fosse bastata, e la confisca di tutti i beni come previsto dalla legge riguardante gli eretici. Con questi intenti, dalla sua sede di Avignone, Giovanni XXII lanciò l’ordine e diede il via alla persecuzione contro la magia, la stregoneria e l’astrologia divinatrice. Personalmente guidò la crociata contro le sacerdotesse di satana delle regioni alpine e pirenaiche. Ma nonostante tutto la persecuzione in questo periodo fu limitata, dovranno passare all’incirca 150 anni prima che gli inquisitori associassero che la stregoneria e l’eresia sono due facce della stessa medaglia. In questo secolo e mezzo che intercorre tra il preludio di Giovanni XXII e l’inizio della vera e propria “caccia alle streghe”, voluta da Innocenzo VIII, il fenomeno mantiene un andamento irregolare, disordinato ed episodico. A questo proposito, per un lungo periodo, i dubbi sul carattere ereticale delle pratiche legate alla stregoneria, fecero sì che le condanne fossero miti e rette dal buon senso e dalla tolleranza. Nel 1378 l’inquisitore generale d’Aragona, Nicholas Eymerich, stila una guida all’azione processuale, il Directorium Inquisitorium, che riaggiornato nel cinquecento restò affianco al Malleus Maleficarum uno dei capi saldi del diritto canonico sulla stregoneria. Tale manuale distingue tra le forme di stregoneria eretica e quelle solamente superstiziose e caratterizza le prime come demonolatrie e le seconde come demonodulie. Ma anche in presenza di un forte sospetto di eresia il testo indica di sostenere un’azione processuale dettata dal buon senso e dalla tolleranza. Il 19 settembre 1398 la facoltà di teologia di Parigi pubblicava 28 articoli in cui si dimostrava la reale efficacia della magia e suddivisa anche in questi testi in due tipologie: quella bianca o neutrale e quella eretica o demoniaca, a sostegno della tesi parigina il frate domenicano Johan Nider dedica il quinto libro del suo Formicarius interamente su questo argomento, l’autore, basandosi sulle sue esperienze e quelle di altri inquisitori, fornisce al lettore un gran numero di esempi in modo da lasciarlo interamente convinto della veridicità dei poteri magici. A fugare gli ultimi dubbi sulla reale esistenza della magia ci pensa il teologo Alfonso Tostado affermando che le sacre scritture sono molto chiare riguardo le operazioni magiche in particolare il volo, di conseguenza o si rifiutano o si deve reinterpretare il Canon Episcopi. La posizione della chiesa si rese così omogenea e dubbi e incertezze furono banditi. Il Canone non si limitò solo a dichiarare eretiche le posizioni certe donne che credevano in Diana, ma affermava che costoro nelle ore notturne si recavano al Sabba dove congiuravano con il diavolo. Con la fatidica data del 1484 e l’ascesa al trono pontificio di Innocenzo VIII, si ha l’emanazione della bolla Summis desiderantes affectibus con la quale prende il via a pieno regime l’attività inquisitoriale per eliminare dalla comunità dei fedeli la <<perversità eretica>>. La bolla del 1484 e svariati manuali inquisitoriali lasciavano comunque ampi margini all’interpretazione personale del giudice. Per ovviare a tale problema fu immediatamente pubblicato il Malleus Maleficarum, appena un biennio dopo la legittimazione del compito persecutorio. L’opera, nonostante la sua estrema debolezza sia a livello ermeneutico che teoretico, dal 1486 al 1669 ebbe ben trentaquattro riedizioni. Con la bolla di Innocenzo VIII e le posizioni di personaggi di spicco come S. Agostino e S. Tommaso la chiesa dichiara apertamente che satana opera attivamente nel mondo e che la stregoneria deve essere condannata con la pena capitale, si aggiunge inoltre che: “stregone o strega” non è solo chi ricopre un ruolo attivo nella congiura satanica, ma anche chi non crede in tale congiura. L’antica ingiunzione della legge mosaica “non permettere che gli stregoni vivano” divenne la parola d’ordine del cacciatore di streghe. Il cammino fu definitivamente compiuto e le posizioni altomedievali furono completamente rovesciate. Eliminando ogni freno morale, filosofico e giuridico prese il via indisturbato il massacro. Con la fine del XV secolo si ha un brusco inasprimento della “caccia alle streghe”. Dalle caute norme del Canon Episcopi si passa all’eccezionale libertà di operare da parte da parte degli inquisitori, a cui tutto era permesso: dall’inganno alla tortura. Nei processi per stregoneria si ha subito l’evidenza della disparità delle parti: l’imputato con pochi e limitati mezzi per difendersi e l’immenso potere dell’inquisitore. Per almeno due secoli, la prassi giuridica cristiana fu delineata dal modello tipico presente nel Malleus Maleficarum. Secondo gli autori Kramer e Sprengen il giudice non doveva conoscere ostacoli per combattere la congiura ordita dal diavolo e sostenuta dalle sue complici, le streghe. In tali processi era difficoltosa la produzione di una probatoria reale, cresceva così l’importanza di ottenere delle confessioni da parte dei colpevoli. Per raggiungere tale finalità l’inquisitore non aveva che l’imbarazzo della scelta sui mezzi da utilizzare. La tortura per estorcere confessioni venne legalmente autorizzata nei processi a partire dal 1468 e svariate erano le tecniche di tortura le più famose furono:

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La culla di Giuda

Il torturato veniva tenuto sospeso al di sopra di un cavalletto dalla punta acuminata; attraverso un sistema di corde veniva mosso in modo che la punta penetrasse nei genitali o nell’ano. La punizione non consisteva nella morte del soggetto, ma ad una sua sofferenza atroce. Questi era tenuto in una situazione costante di veglia e nel caso si fosse addormentato, vi era un individuo che agiva sulle corde per provare maggior pressione sul malcapitato.

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Tortura dell’acqua

Il torturato era costretto a bere acqua, attraverso un imbuto, per un totale di 9 litri. Se non vi era una confessione si poteva passare ad una quantità doppia. La vittima veniva in seguito fatta mettere a pancia in giù per far in modo di aumentare il dolore e indurre l’accusato alla piena confessione.

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La sedia inquisitoria

Si trattava di una semplice sedia sulla quale erano fissate delle punte acuminate e sulla quale era adagiata la vittima, In alcuni casi il fondo veniva arroventato per causare gravi ustioni.

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Spacca testa

Sopra il cranio della vittima veniva appoggiato un casco montato su un torchio, questo veniva stretto progressivamente per provocare immani dolori e una sicura confessione.

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La tortura del topo

Una condanna usata soprattutto per eretici e presunte streghe. veniva inserito un topo nell’ano o nella vagina della vittima; cucita ogni via di fuga al topo non restava che scavare verso gli organi interni provocando immani dolori alla vittima.

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La tortura della ruota

Usata principalmente in Francia ed Inghilterra, è finita col rappresentare uno strumento di esecuzione tra i più classici. Simile alla crocifissione, ai malcapitati venivano spezzati braccia e gambe. Una volta compiuto il primo passo, i corpi erano posizionati sulla ruota, la quale veniva a sua volta fissata su un palo conducendo il malcapitato ad immani sofferenze.

Collaboratore:  Lorenzo Motta

Sitografia Consigliata: 

http://www.fisicamente.net/SCI_FED/index-170.htm

La corsa alla montagna perfetta: una tragica vittoria

La sua forma è inconfondibile. Una piramide perfetta, elegante, su cui gli elementi naturali hanno svolto un’opera di erosione con la precisione di un’artista. Il Cervino è questo. Non solo una montagna, ma il simbolo per eccellenza della vetta imperitura e inaccessibile. Il mito di questo luogo, nato dalla sua bellezza e dalla presunta impossibilità della scalata, ha condizionato in maniera irreversibile la propria storia. Una storia che, partendo dal capitolo principale, ossia la prima ascensione, è stata più volte romanzata e mistificata. Pertanto, come quando si percorre un sentiero scosceso e veniamo rapiti dalla vista, bisogna fare attenzione ai propri passi, per evitare cadute banali.                                                                                    

Secondo Motti, grande alpinista intellettuale degli anni ’60 e ’70, la vicenda del Cervino rappresenta per l’alpinismo “un capitolo epico e suggestivo, importante non tanto per le difficoltà superate […] ma perché è un capitolo di storia tragico e affascinante, capace di definire un quadro fedele dell’epoca”.[1] In effetti, le vicissitudini e i colpi di scena che fecero da sfondo all’avvenimento furono singolari e caratterizzati da una casualità foriera di fortuna e, allo stesso tempo, di sventura. Casualità che incontriamo subito con l’arrivo tra le Alpi nel 1860 di uno dei protagonisti, l’inglese Edward Whymper. 

Whymper non era un’alpinista. Perlomeno, non giunse come un’alpinista, bensì come un incisore a cui erano stati commissionati da un importante pubblicatore londinese dei disegni riguardanti le montagne più importanti delle Alpi. L’ispirazione scaturita da questi luoghi non si tradusse però solo in disegni, ma anche in escursioni. L’incisore inglese infatti si innamorò perdutamente delle Alpi e iniziò a esplorarle. La figura di Whymper, in questo modo, diventò centrale per l’alpinismo, in un’epoca dove la finalità scientifica delle ascensioni era ormai soppiantata dalla volontà semplice e pura di salire le vette vergini. Non a caso questo periodo combacia con la corrente del Romanticismo e non poteva essere altrimenti: volendo estremizzare, la figura dello scienziato armato di barometro lasciò il posto a un avventuriero benestante, munito di corda e piccozza. Anche le guide, i cosiddetti valligiani o montanari, si evolsero. Non sono più, in gran parte, cercatori di cristalli senza iniziativa e prestati ad accompagnare i cittadini in vetta, ma figure “ in grado di scegliere l’itinerario per il loro cliente e di trarlo anche d’impaccio nelle situazioni più difficili”.[2] Ovviamente i mutamenti descritti non furono repentini, ma lenti e costanti e, cosa più importante, influenzati da vari fattori. Il principale fu lo scambio culturale e economico tra i cittadini e i valligiani, sotto forma di turismo, che per tutto l’800 interessò l’arco alpino, soprattutto quello occidentale.                         

Tornando al nostro Whymper, l’inglese avviò la sua attività di alpinista provetto nel 1861, con la scalata del Mont Pelvoux nelle Alpi del Delfinato, una zona appartenente alla Savoia. Da qui partì una serie mirabolante di conquiste e successi, che toccò l’apice nel biennio 1864-1865. Nel primo anno fu scalata la più importante vetta del massiccio del Delfinato, la Barre des Écrins. Ovviamente erano spedizioni di gruppo, in cui Whymper non era l’unico elemento protagonista. Le guide, in questo caso, furono Michel-August Croz e Christian Almer, due tra i più fieri montanari e validi rappresentanti di una nuova generazione di accompagnatori, che troveremo anche in seguito. Un anno dopo, raggiunto un altro massiccio, quello del Monte Bianco, Whymper compì un’impresa notevole. Per la prima volta fu salita la vetta delle Grandes Jorasses, seconda in altezza nella “costellazione” del massiccio del Monte Bianco ma, sicuramente, tra le più difficili. L’alpinista inglese, “grado” ormai conquistato sul campo, non era sazio: come si suole dire più si mangia e più si ha fame. Quello che avvenne nelle ore seguenti ha dell’incredibile e appartiene a un’epoca ormai remota. Conquistata la cima vergine delle Grandes Jorasses, “cinque giorni dopo, Whymper, instancabile, è a Chamonix, fermamente intenzionato a conquistare un’altra vetta magnifica e difficile, rimasta ancora inscalata: l’Aiguille Verte”.[3] Non una cima qualsiasi, soprattutto per la sua difficoltà, ma anche per le problematiche realizzative: Whymper dovette fare a meno del fidato Croz, impegnato con altri clienti sulla stessa vetta, ma si lanciò comunque con le guide Almer e Biner sulla parete. Così, dopo solo cinque giorni, l’alpinista inglese vinse la seconda cima inviolata.                                                                                           

A questo punto rimaneva lei, la montagna perfetta. Whymper arrivò in Valtournanche, lo sguardo rivolto al Cervino. Quella vetta, famosa per le sue linee impossibili, la conosceva ormai in ogni dettaglio; le pareti, le creste e le insidie maggiori non sono più un rebus per l’inglese. Infatti Whymper era già stato lì e non aveva soltanto ritratto il Matterhorn[4]: aveva già tentato la scalata per ben sette volte.                                                                                                            

Monte Cervino
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Il cervino ritratto da Whymper

Torniamo un attimo indietro. Nel 1857 Whymper era ancora a Londra, inconsapevole del suo talento alpinistico. Il Cervino, re incontrastato della Valtournenche, attirava le curiosità dei montanari, ma ne respingeva qualunque pulsione più forte: troppo verticali le sue pareti per essere vinte, troppi miti a creare una specie di confine invalicabile. Ma qualcosa stava cambiando. Infatti, al di là delle leggende che avvolgevano la montagna[5], i valligiani avevano tentato i primi approcci alla parete del versante italiano, irta di difficoltà e pericoli. Questa iniziativa delle guide, come abbiamo visto, non deve sorprendere, ma in questo caso ci furono delle specifiche cause locali. Tra le prime l’influenza del canonico Georges Carrel, che aveva intuito i possibili benefici di una conquista del Cervino; l’impresa, seguendo il filone aperto dal Monte Bianco, poteva diventare il volano per un nuovo afflusso turistico che avrebbe migliorato le condizioni economiche della zona. Questa idea, però, doveva trovare dei sostenitori. Il messaggio fu intercettato dal sacerdote Aimé Gorret, un “personaggio straordinario, montanaro di pura razza ma assai colto ed erudito”[6] che riuscì a dare un ulteriore stimolo alla comunità. Da quest’ultima emerse la famiglia Carrel (non era imparentata in alcun modo con il canonico Georges ), che con i fratelli Jean- Jacques e Jean-Antoine Carrel si prodigò a scalare il Cervino. Il primo tentativo vide infatti protagonisti Gorret e i fratelli Carrel, probabilmente nel 1857. Si susseguirono altri tentativi, alcuni composti da altri personaggi, fino a che arrivò Whymper nel’61. L’inglese aveva appena scalato il Mont Pelveux e vedeva per la prima volta la vetta irraggiungibile, ormai premio ambito da molti. Conscio delle difficoltà della montagna, chiese subito ai locali il nome della migliore guida. Gli fu risposto un unico nome: “Jean-Antoine Carrel”. Iniziò da qui una lunga collaborazione tra i due che, tra alti e bassi, portarono la coppia a sfiorare l’impresa.  Rimane difficile analizzare il rapporto di questa coppia. Quel che è certo, e che emerge anche dalle memorie di Whymper, è che l’inglese stimasse Carrel o, perlomeno, le sue capacità alpinistiche, tanto che lo chiamò con sé nell’esplorazione delle Ande dopo il 1865. Molto diverso è il discorso riguardante Carrel. La guida aveva, nell’accompagnare Whymper, sia un interesse personale che economico. Inoltre la sua fedeltà nel rispettare i patti con il proprio cliente non fu mantenuta, dato che ricevette delle pressioni decisive. Però bisogna ricordare come, nel periodo in questione, l’attività di guida non avesse norme specifiche e che i valligiani cercassero semplicemente di portare avanti un’attività remunerativa, correndo tra l’altro grossi rischi. Insomma, il concetto di fedeltà era molto più labile e complesso di adesso. Dopo gli insuccessi iniziali, di cui fa parte anche un tentativo in solitaria, Whymper decise di allontanarsi dalla zona. Iniziò quel biennio d’oro di conquiste e successi, intervallato dalla settima spedizione infruttuosa sul Cervino, che abbiamo visto all’inizio dell’articolo. Durante questi due anni la situazione a Breuil cambiò velocemente, senza che Whymper potesse immaginare nulla, soprattutto perché comparve un nuovo protagonista: il Club Alpino Italiano (C.A.I.).             

                                                                                                          

Nato nel 1863, il CAI aveva degli indubbi legami con la scena politica nazionale: era stato fondato infatti dall’allora ministro delle finanze Quintino Sella. Quest’ultimo fu politico e alpinista esperto, che ravvisava nelle montagne un possibile elemento unificatore per le genti del Nord, del Centro e del Sud. “Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani” e Sella cercò di crearli attraverso le scalate, ma non scalate qualunque. C’erano delle vette ben precise che simboleggiavano, ipoteticamente, quella tanto ricercata identità nazionale comune. Una di queste era il Monviso, la “montagna dei piemontesi” (non a caso i principali fautori dell’Unità d’Italia), che però fu salita per la prima volta nel 1861 da una cordata di stranieri, formata, tra gli altri, dall’onnipresente Michel-August Croz. Sella lo scalerà due anni dopo e, proprio dopo questo evento, fondò il CAI. Ma non poteva lasciarsi sfuggire l’ultimo simbolo alpinistico, quel Cervino che resisteva stoico a tutti gli attacchi, anche dei più agguerriti conquistatori: gli inglesi. La corsa alla vetta diventò quindi anche un caso politico, architettato segretamente da Quintino Sella e l’amico Felice Giordano, tra i soci fondatori del CAI. Il loro obiettivo fu, fin da subito, contattare Jean-Antoine Carrel e assoldarlo per la scalata del Cervino, estromettendo Whymper dalla spedizione. Il tutto si svolse tramite un serrato carteggio tra i protagonisti e un incontro tra Sella e Carrel a Biella nel 1864. Questo susseguirsi di eventi viene trattato e analizzato in maniera eccellente da Pietro Crivellaro e Lodovico Sella nell’articolo “Quintino Sella e la battaglia del Cervino: le lettere ritrovate con il retroscena politico e con la regia dello statista alpinista”.[7]    Nell’estate del 1864, per un impedimento fisico e i soliti impegni istituzionali, Sella non riuscì a raggiungere Carrel per tentare l’impresa. Fu quindi rimandato tutto l’anno dopo, quando però, con il morale al massimo, ricomparve Edward Whymper.                                                                                                                              

Siamo quindi ritornati al punto precedente all’excursus. Luglio, 1865. Whymper, sulla strada per Breuil[8], cercò di convincere la guide ad accompagnarlo sul Cervino, ma la richiesta gli venne negata: “Anything” disse Almer “ but Matterhorn, dear sir!”.[9] Così l’alpinista inglese andò in cerca di Carrel, che trovò poco dopo in uno chalet con suo fratello, il sacerdote Gorret e la guida Maquignaz. I quattro erano appena tornati da una ricognizione sulla montagna finita in anticipo a causa del maltempo. Whymper parlò con Carrel e i due arrivarono ad un accordo di massima, in cui la guida si impegnava a tentare nuovamente con l’inglese la via del versante italiano nei giorni seguenti. In verità Carrel aspettava il giorno giusto per preparare la salita con i suoi compagni sul Cervino, come pattuito con Sella e Giordano. L’inglese probabilmente avrebbe intuito la sua estromissione troppo tardi, se non che , per puro caso, incontrò i Carrel pochi giorni dopo. I due fratelli erano intenti a preparare il necessario per la scalata e, recitando come un attore, Jean-Antoine Carrel addusse la scusa dell’aiuto ad alcuni portatori. Whymper chiese allora delle conferme sul loro accordo, ma il montanaro rispose che lui e il fratello non erano più disponibili, anzi, avevano l’impegno con una “famiglia distinta”[10] per visitare la regione. Una situazione a dir poco bizzarra, sennonché diventò ancor più strana: passarono infatti la sera insieme a bere e parlare delle spedizioni passate. Infine, la mattina dell’undici, Whymper ebbe il peggior risveglio possibile. Apprese infatti dal proprietario della locanda che alcune guide stavano salendo sul Cervino e, dopo poco, scoprì la loro identità: Jean-Antoine Carrel, César Carrel, Charles Gorret e Jean-Joseph Maquignaz. L’inglese, arrabbiato e sconfortato, ebbe però una reazione più che lucida e si incamminò velocemente verso Zermatt, un paesino alle pendici del Matterhorn dal lato svizzero. Non tutto era perduto per Whymper che, conoscendo le caratteristiche dei Carrel, sapeva di poter contare su di

una maggiore velocità nella scalata. Le incognite però erano due: la prima riguardava l’ipotetico itinerario di salita sul versante svizzero, meno battuto di quello italiano, di cui Whymper possedeva poche informazioni; l’altro problema, invece, era rappresentato dal creare un gruppo di guide nel minor tempo possibile. Anche in questo frangente il caso sembrò aiutare Whymper. Arrivato a Zermatt l’inglese incontrò un suo conterraneo, Lord Francis Douglas, “il quale in breve riuscì a convincerlo a tentare lungo la più facile cresta svizzera, studiata a lungo dalla sua dalla sua guida Peter Taugwalder”.[11] Ma non solo. A Whymper, Douglas e Taugwalder si aggiunsero velocemente altri cinque elementi: i due figli di Taugwalder, il reverendo Charles Hudson, Roger Hadow e, per l’ennesima volta, l’espertissimo Michel -August Croz. Una cordata agguerrita, numericamente abbondante (forse troppo), contrapposta a quella di Carrel, già intenta a sfidare il versante italiano. La sfida era aperta.                                                                                                   

All’alba del 13 luglio, il gruppo di Whymper partì da Zermatt per avvicinarsi alle pendici della montagna e riposarsi per la salita vera e propria. Il giorno seguente, dopo una notte rinfrancata dalle bevande calde e i canti alpini, iniziò ad aleggiare un cauto ottimismo; il tempo perfetto, la cresta dell’Hörnli più facile del previsto e una crescente euforia portarono la cordata di Whymper a salire molto velocemente, mentre Carrel e compagni avanzavano 

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lentamente sul tenace versante italiano. Superato un ultimo tratto di notevole difficoltà, dove Croz sfoderò le sue doti eccellenti da scalatore, Whymper e i suoi compagni si trovarono finalmente sulla vetta del Cervino.

Whymper si premurò subito di controllare che non ci fossero delle orme sulla neve, per avere la sicurezza di essere effettivamente il primo. La neve risultò immacolata. L’inglese si sporse nel baratro, per cercare la cordata di Carrel: la trovò subito, bloccata molto più in basso sulla parete. Whymper e Croz iniziarono a urlare di gioia, a smuovere le rocce con i bastoni, per dimostrare a chiunque stesse sotto il proprio successo. Jean -Antoine Carrel si accorse degli strepiti e della scarica di sassi, rimanendo incredulo e attonito. La guida iniziò la discesa con il proprio gruppo e tornò mestamente a Breuil da sconfitto.

Whymper, al suo ottavo tentativo, aveva raggiunto il suo obiettivo. Il Cervino era stato scalato e al gruppo vincitore non rimaneva che scendere, raggiungere Zermatt e festeggiare tutta la notte. Fu usata una corda per legarsi in questa disposizione: ad aprire la discesa Croz, poi Hadow, Hudson, Douglas, Taugwalder, Whymper e il figlio di Taugwalder. Il primo tratto, quello più difficile, fu affrontato  e superato con grande calma e cautela. La discesa continuò, finché quella che era un’impresa si trasformò in una tragedia. Accadde tutto in pochi attimi: Hadow, dopo essere stato aiutato da Croz, scivolò e travolse la guida, risucchiando nel vuoto anche Hudson e Douglas. Whymper, che si trovava dietro un masso, riuscì comunque a vedere parte dei corpi scivolare in giù e, disperatamente, cercò un appiglio a cui aggrapparsi ,con i Taugwalder a seguirlo. Purtroppo la corda, tesa al massimo nello sforzo di trattenere i corpi cadenti, si spezzò di colpo tra Douglas e Peter Taugwalder: Croz, Hadow, Hudson e Douglas precipitarono nel baratro, mentre gli altri tre non poterono fare nulla per evitarlo.

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I tre sopravvissuti riuscirono a raggiungere Zermatt, dopo una discesa che, negli scritti di Whymper, lascia trasparire lo shock e la paura dei protagonisti. Fu la conclusione di una tragica vittoria, che ebbe grande eco in Europa tra sdegno generale e critiche, ma che non fermò l’alpinismo. Tanto che, due giorni dopo, Jean-Antoine Carrel riuscì ad arrivare sulla vetta del Cervino salendo per il versante italiano.

Jacopo Giovannini

Note:

[1]G. P. Motti e E. Camanni (a cura di), La storia dell’alpinismo, Priuli & Verlucca, Scarmagno 2013, p. 95.

[2] G.P. Motti e E. Camanni (a cura di), op. cit.,p. 91.

[3] G.P. Motti e E. Camanni (a cura di), op. cit., p. 97.

[4] Toponimo tedesco del Cervino.

[5] Crf. E. Whymper, , Scrambles Amongst the Alps in the Years 1860-69, Londra 1900, p. 74. Whymper descrive le credenze degli abitanti locali riguardanti il Cervino, che comprendono demoni, spiriti dei dannati e una città in rovina sulla vetta.

[6] G.P. Motti e E. Camanni (a cura di), op. cit., p. 100.

[7] Crf. M. Gentilini e F. Cardarelli (a cura di), Gli archivi e la montagna. Scritti in onore di Paolo De Gasperis, CNR-SeGID 2014,  pp. 25-84.

[8] Era il paese da cui partivano le spedizioni per il versante italiano del Cervino.

[9] Crf. E. Whymper, , op. cit., p. 364. La traduzione è:” Tutto, tranne il Matterhorn, egregio signore!”.

[10] Crf. E. Whymper, , op. cit., p. 365. Carrel si riferiva probabilmente a Felice Giordano.

[11] G.P. Motti e E. Camanni (a cura di), op. cit., p. 103.

Link immagini:

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Bibliografia:

G. P. Motti e E. Camanni (a cura di), La storia dell’alpinismo, Priuli & Verlucca, Scarmagno 2013.

E. Whymper, , Scrambles Amongst the Alps in the Years 1860-69, Londra 1900.

M. Gentilini e F. Cardarelli (a cura di), Gli archivi e la montagna. Scritti in onore di Paolo De Gasperis, CNR-SeGID, 2014.

Allegati:

"Vette Nere: Quano il Fascismo vince le Alpi"

"La Prima Scissione dell'Everest"

"La Conquista del k2"

"La Nascita dell'Alpinismo"

L’odissea dei diecimila

Nel 404 a.C., mentre la guerra del Peloponneso volgeva al termine, moriva il Gran Re persiano Dario II.

La successione al trono innescò una violenta disputa tra i suoi figli Artaserse II e Ciro.

Il primo fu nominato Gran Re mentre a Ciro toccò solamente la satrapia dell’Asia Minore e pertanto, non soddisfatto da ciò, decise di muovere guerra al fratello per detronizzarlo.

Le polis greche, alquanto preoccupate che Artaserse volesse rivendicare tutti i possedimenti in Asia, prestarono il loro supporto in gran segreto a Ciro aggregando nel suo esercito, che già contava centomila uomini, altri tredicimila mercenari veterani della guerra tra Atene e Sparta, comandati dal generale spartano Clearco.

Nel 401 a.C. i mercenari sbarcarono in Lidia, e da Sardi iniziarono la lunga marcia con l’armata di Ciro che li vedrà attraversare la Frigia, la Cappadocia, la Cilicia, la Siria, l’Arabia e la Babilonia.

Odissea dei diecimila
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Durante l’avanzata avvennero vari episodi trai quali i più salienti furono le proteste dei Greci per i mancati pagamenti da parte di Ciro , la finta battaglia che i Greci intrapresero contro gli alleati persiani a Tirieo, per dare dimostrazione del loro valore alla regina dei Cilici Epiassa, ed infine, i saccheggi compiuti dai mercenari nella Licaonia e nella città di Tarso.

Giunti in Babilonia gli eserciti di Ciro e Artaserse si scontrarono a Cunassa, che sorgeva nelle vicinanze dell’odierna Baghdad. L’esercito di Ciro fu letteralmente annientato e Ciro stesso morì trafitto da una lancia, ma soltanto dopo aver ferito il fratello.

Solo i mercenari ebbero la meglio contro l’armata di Artaserse, ma nonostante ciò la maggior parte dei loro

comandanti,  tra cui Clearco, venne uccisa a tradimento quando il satrapo Tissaferne li convocò con l’espediente di fornire loro un salvacondotto per fare ritorno in Grecia.

La ritirata dei mercenari equivalse ad un’odissea, caratterizzata da inconvenienti dovuti alle imboscate dei Carduchi nei Monti Giordani, seguiti dal freddo, dalla fame che soffrirono in Armenia, insieme al suicidio di massa dei Taochi e ai vari saccheggi compiuti da loro stessi per sopravvivere alla lunga ritirata.

Raggiunta la sommità del monte Teche,  i Greci, vedendo il mare e  gridando la nota esclamazione “Thalassa ! Thalassa !”(Il mare! Il mare!), scesero nella città di Trepezunte (oggi Trebisonda), da dove si spostarono, via mare ,per arrivare prima a Sinope e poi a Bisanzio dove il re Seute li assoldò per combattere i Traci sui quali prevalsero, tuttavia il re non li pagò per le loro imprese e i mercenari ritornarono a Bisanzio.

 Qui, vennero reclutati dal comandante spartano Tibrone, e sotto la sua guida si diressero a Pergamo per combattere le forze di Tissaferne e Artaserse, concludendo il cammino di ritorno.

 La ritirata durò un anno e dei tredicimila mercenari partiti, ne sopravvissero solo seimila.

 L’impresa dei mercenari, sarà ricordata come “La spedizione dei diecimila” e sarà l’argomento principale dell’ “Anabasi” dello storico Senofonte, che partecipò alla spedizione come soldato e che in seguito fu eletto stratego dai mercenari in virtù della sua oratoria e per averli egli stesso guidati durante la ritirata.

L’impresa, per alcuni, sarà vista come un grande gesto d’orgoglio e di eroismo, mentre per altri, in particolare per Sparta e Atene sarà motivo d’imbarazzo.

Nel 396 a.C., il re spartano Agesilao riprenderà le ostilità contro i persiani dando inizio alla guerra corinzia, che vedrà non solo gli spartani contro i persiani, ma anche un’alleanza antispartana, alleata dei persiani e capeggiata da Atene per vendicarsi delle sconfitte inflitte da Sparta durante la guerra del Peloponneso. Il conflitto durerà dieci anni e terminerà nel 386 a.C. con la pace di Antalcida, è permetterà ai persiani il controllo assoluto dell’Asia Minore, la rinascita di Atene come potenza navale solo nel commercio e a Sparta di mantenere la sua egemonia fino alla sua disfatta di Leuttra del 371 a.C. .

Cesare Grande

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 Fonti :

http://www.miti3000.it/mito/biblio/senofonte/anabasi.htm

L. Breglia-F. Guizzi-F. Raviola, Storia greca, EdiSES.

PAPERINO E TOPOLINO

CONTRO HITLER; GUERRA DI COMUNICAZIONE

Paperino e Topolino

Praticamente ognuno di noi conosce la Seconda Guerra Mondiale, le sue vicende, gli attori protagonisti e i risvolti politico sociali che l’hanno scatenata. La più grande e sanguinosa guerra di tutti i tempi è entrata a far parte anche del nostro vivere quotidiano, con aforismi che richiamano quei difficili anni. Qualcuno di noi si è mai chiesto invece com’è stata vissuta la guerra al di là dell’Atlantico? Come e perché un popolo diviso da un oceano intero abbia sentito il bisogno, come fece tra l’altro ventiquattro anni prima, di entrare a far parte di un conflitto così distruttivo? Ma soprattutto, ci siamo mai chiesti com'è avvenuto quel processo di attivazione?

Il viaggio che ci apprestiamo a intraprendere cercherà di rispondere a questi quesiti, percorrendo però delle strade poco battute, quelle della propaganda targata Usa. Una propaganda che attecchisce su un terreno fertile come quello dell’immaginario americano, considerato l’immaginario più forte perché capace di svilupparsi ovunque e di esportare i modelli di vita americana dappertutto. Negli Stati Uniti d’America la Seconda Guerra Mondiale ci apre scenari che nessun altro conflitto poteva mostrarci, non si tratta più di studiare i soliti volantini a favore dell’arruolamento ma di cercare di conoscere dei fenomeni di coinvolgimento che mai erano stati utilizzati prima. Questo cambiamento è dovuto soprattutto allo sviluppo dei mezzi di comunicazione, il cinema in primis, che hanno subito una notevole espansione negli Stati Uniti dopo la Grande Guerra.

Per cominciare a parlare di questo tema bisogna soffermarci un attimo sul concetto di “cultura americana”. L’immaginario americano da noi sopra citato, che dà vita alla cultura americana, è l’immaginario più forte del mondo. Non vi è giorno infatti in cui in Europa, e in altri luoghi del globo, non venga celebrata l’America come il paese delle libertà e delle possibilità, come la terra dei grandi principi dove tutti sono uguali davanti alla legge. Nel 2010, in un noto saggio pubblicato dal sociologo francese Martel, si studia proprio l’immaginario americano riportandolo nelle parole di Joe Nye

“La cultura americana sta al centro di questo potere di influenzare e nelle sue diverse versioni, high o low, che si tratti di arte o di intrattenimento, che sia prodotta da Harvard o da Hollywod” [1]

Ancor prima della discesa in guerra degli Stati Uniti, l’esportazione della cultura americana spettava al mito del cinema a stelle strisce che invadeva il mercato europeo, compreso quello di Germania e Italia. Lo stesso può dirsi per i capolavori a forma di cartoon prodotti dal genio incontrastato di Walt Disney. Harry Warner scrisse in quegli anni una lettera all’allora ministro del commercio americano

“Un altro intangibile beneficio per l’America, probabilmente il più importante di tutti, è la benevolenza che i nostri film ci procurano nel mondo. Alle persone ovunque piace essere intrattenute e allietate. Il cinema è il mezzo d’intrattenimento più popolare che esista. L’America fornisce al mondo i film della migliore qualità. Il mondo ride con le nostre commedie, canta le nostre canzoni e si entusiasma con i nostri film d’azione. È evidente che non si può detestare colui che ti delizia”. [2]

La cultura americana e il potere che essa esercita, sia oggi che nel 1930, è tutto qui. Walt Disney è uno dei tanti che esercita questo potere, ma lo fa in maniera diversa rispetto agli altri, lo fa usando personaggi fantasiosi, immaginari ma che, proprio per questa loro qualità, colpiscono immediatamente lo spettatore e questo particolare, in un programma di propaganda, non è da sottovalutare. Quando al signor Disney fu chiesto di usare le sue invenzioni per propagandare la guerra esso non ne rimase sicuramente entusiasta, ma la crudeltà del conflitto prima, e Pearl Harbor poi, gli fecero cambiare immediatamente idea convincendolo a utilizzare la sua popolarità per dare il proprio contributo alla lotta contro le dittature mondiali.

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Come si poteva far capire però all’America e ai ragazzi americani il perché i loro padri stavano combattendo in Europa?  Semplicemente integrando nel conflitto Donald Duck. Sì avete capito bene, il “paperino” della Walt Disney nel 1943 decise di scendere in guerra per sconfiggere Adolf Hitler. Il 1 gennaio Jack Kinney dirige un cortometraggio prodotto dalla Walt Disney dal titolo “Der Fuher’s Face” (In faccia al Fuher) ed esso divenne immediatamente il capolavoro propagandistico della casa Disney, tanto che nel 1944 vinse persino un Oscar. La trama racchiude tutto il patriottismo americano miscelato saggiamente alla paura per il conflitto e a vecchi stereotipi provenienti dal vecchio continente. Donald Duck infatti viene svegliato dall’ingresso in una città americana a forma di svastica da parte di una banda musicale molto speciale. Infatti all’ottavino abbiamo Goering, al trombone Goebbels, Himmler al rullante e Mussolini alla grancassa. La marcia della banda si interrompe davanti la casa di Paperino, poiché i componenti entrano di forza all’interno dell’abitazione e svegliano Donald Duck affinché si alzi per andare al lavoro. Paperino, alzatosi dal letto con enorme fatica, esegue il saluto nazista davanti ai ritratti di Hitler, Mussolini e l’imperatore Hirohito, prima di accingersi a fare colazione; ma stiamo parlando di una colazione molto scarna visto il razionamento del cibo in tempi di guerra. Dopo aver mangiato un pane raffermo, un caffè formato da un solo chicco e dello spray che sa di uova e pancetta, gli viene imposto di aprire la propria mente leggendo il “Mein Kampf”, prima che la banda lo accompagni mentre Goering gli rifila dei calci. Giunto in fabbrica Paperino inizia le sue 48 ore di lavoro giornaliero, dove avvita tappi sulle granate. La catena di montaggio si intensifica (chiaro riferimento al film “Tempi Moderni” di Chaplin) e Donald Duck non riesce a svolgere tutte le sue mansioni anche perché costretto ad effettuare il saluto nazista ogni qualvolta intravede l’immagine di Hitler. I nazisti concedono al papero americano anche una pausa dal lavoro dove però lo costringono a svolgere degli esercizi fisici che lo portano a rappresentare la forma della svastica. Dopo 48 ore di lavoro Paperino è anche costretto a fare gli straordinari ed è qui che il papero ha una crisi di nervi che lo porta a sentirsi calpestato dalle bombe e dai proiettili. Quando le allucinazioni finiscono Donald Duck si risveglia nel proprio letto con addosso un pigiama che richiama la bandiera americana e all’ombra di una mano protesa verso l’alto, e già pronto per effettuare il saluto nazista quando scopre che quella mano tesa altro non è che il braccio di una riproduzione della Statua della Libertà. A questo punto Paperino abbraccia la miniatura della statua e ringrazia di essere un cittadino americano.

Questo cortometraggio rappresenta l’elemento portante della ricerca sulla speciale propaganda statunitense. Nessun altro paese aveva infatti le qualità e la forza per poter creare un prodotto del genere. Il cartoon riesce a riportarci dritti nel clima storico di un’epoca terribile e, nello stesso tempo, irride le maschere più grottesche di quei totalitarismi che in quegli anni sembravano destinati a trionfare. A posteriori i baci che Donald Duck consegna alla bandiera americana a fine pellicola possono sembrarci un segno di patriottismo abbastanza discutibile, ma nel contesto dell’epoca essi sono solo una comprensibile concessione alla retorica della propaganda antinazista. Tutto all’interno del film parla di nazismo, la carta da parati della casa di Donald Duck è composta da svastiche e persino la sveglia e le siepi sono a forma di svastica e scattano al saluto romano. Questa è una chiara critica alla libertà d’espressione che nella Germania nazista non esiste assolutamente e che spesso passa in secondo piano rispetto alla fabbrica militarizzata in cui Paperino lavora. Quest’ultimo risveglia una delle paure più forti all’interno del credo americano, ossia quella di una società completamente militarizzata dove tutto è finalizzato allo scopo bellico.

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Una nota va fatta anche per la canzone scritta dal compositore Oliver G. Wallace. Il ritornello fu composto dallo stesso Wallace mentre stava facendo spesa con la moglie, entusiasta della canzone la fece ascoltare alle sue figlie che la canticchiarono per tutta la sera. Il successo fu così strepitoso che fu deciso di cambiare il titolo del cartoon rinominandolo appunto “In faccia al Fuher”, questo perché nella canzone ad ogni “Heil!” si rispondeva con una pernacchia (all’inizio il cortometraggio era conosciuto con il titolo di “Donald Duck in Nutzi Land). Oltre ad ogni pernacchia, che accompagna il saluto nazista Heil, vi sono delle vere e proprie prese in giro della parlata tedesca che si scontrano con gli ideali di supremazia della razza ariana.

“We IST the master race” ovvero “Noi ESSERE la razza suprema”

“They’ll never bomb DIS place” ovvero “Non bombarderemo mai KVESTO luogo”

Non c’è solo Donald Duck però nella nostra ricerca. Nel 1942 la MGM riadatta la fiaba dei Tre Porcellini in una prospettiva antinazista, il titolo di questo cortometraggio è “Blitz Wolf” e, come nel sogno di Paperino, gli accenti sul nazismo sono evidenti. Nei titoli di testa compare infatti la scritta

“Tutte le somiglianze fra il protagonista e quella canaglia di Hitler sono volute”

Non a caso il lupo protagonista si chiama proprio Adolf Lupo. La trama segue più o meno la fiaba originale che vede come protagonisti i tre porcellini, due dei quali costruiscono case di paglia e legno giacché Adolf Lupo ha firmato un patto di non aggressione con Pigmania mentre, il terzo maiale, il sergente Pork, ha costruito la sua abitazione in mattoni e l’ha rifornita anche di macchinari di difesa. Quando Adolf Lupo invade Pigmania i primi due maiali protestano per la violazione del patto di non aggressione, ma il lupo indifferente gli distrugge le case. I due porcellini si rifugiano allora dal sergente Pork che inizia una guerra contro Adolf Lupo. Questo cartoon, a differenza del primo, non sottolinea tanto le paure che il regime di Hitler ha instaurato nel mondo, ma il modo in cui queste paure si sono create. La storia dei tre porcellini è riadattata agli avvenimenti del secondo conflitto mondiale in maniera divina. Il patto di non aggressione che Adolf Lupo firma con i due maialini è un chiaro riferimento sia al patto “Molotov-Ribbentrop”, firmato fra Germania e Urss, sia al patto di Monaco di Baviera siglato fra Hitler e Chamberlain. In entrambi i casi Hitler ruppe il patto rimangiandosi la parola data, annettendo così prima la Cecoslovacchia e poi invadendo l’Unione Sovietica. Riproporre questi avvenimenti sotto forma di cartoon servono essenzialmente a far capire, alle nuove generazioni ma anche agli Alleati, il perché gli Stati Uniti d’America si sentono chiamati in causa nell’intervenire nel conflitto e il perché combattere Hitler rappresenti una crociata da vincere a tutti i costi. Pigmania non rappresenta solo una città ma bensì l’intero mondo e il rischio che Hitler se ne appropri non può essere corso. Il film si pone una domanda e allo stesso tempo si dà anche una risposta quindi; quanto vale la parola di Hitler? Nulla!

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In un’ultima analisi non possiamo non citare il film, prodotto sempre nel 1942, dal titolo “The Ducktators”. Il cartone animato è ambientato in una fattoria dove delle anatre stanno aspettando la schiusa di un uovo di colore nero da cui poi emergerà un anatroccolo bianco con i baffi che farà il saluto nazista urlando “Sieg Heil!”. Divenuto adulto il cucciolo inizia a fare dei discorsi aggressivi verso gli altri animali della fattoria trovando come unico sostenitore però un’oca grassa da un marcato accento napoletano. I riferimenti a Hitler e Mussolini sono evidentissimi. Subito dopo l’anatroccolo Hitler, durante una conferenza di pace fra anatre e oche, inizia ad aggredire tutti i presenti. È l’inizio della guerra. Nel frattempo arriva a dar manforte anche un’anatra giapponese che durante il viaggio per mare pianta, sulle isole che incontra, un cartello dove vi è da un lato la bandiera dell’impero nipponico e dall’altra la scritta “Japanese Mandate Island”. L’anatra infilzerà però una tartaruga che riemergendo dall’acqua la colpirà con lo stesso cartello mentre l’anatra cercherà di farsi passare per cinese. A questo punto le truppe dell’anatraccolo Hitler, dell’anatra giapponese e dell’oca Mussolini marciano verso la fattoria mentre una colomba, simbolo di pace, cerca di far ragionare i tre folli che però la calpestano e la obbligano a reagire con la forza. Il film termina con la stessa colomba che, dopo aver sconfitto gli animali che l’avevano aggredita, racconta la storia ai suoi figli, Pace e Quiete, che ascoltano il racconto mentre le tre teste degli sconfitti vengono mostrate a mo di trofeo.

Per la prima volta viene raccontata la Seconda Guerra Mondiale a 360 gradi. Oltre al solito Hitler, vi è per la prima volta anche Mussolini che viene deriso dalla Warner Bros attraverso la sua parlata che risalta il cosiddetto “inglese maccaronico”. L’anatra nipponica, seppur non rappresenti l’imperatore Hirohito, raffigura comunque l’impero giapponese e l’attacco a Pearl Harbor, evidenziato dall’anatra che infilza erroneamente una tartaruga che riposava in mare. Al termine della pellicola compare anche un coniglio con i baffi che aiuta a sconfiggere i tre dittatori. Il riferimento a Stalin è evidente, cosa che invece potrebbe sfuggire è che, dopo aver contribuito alla vittoria, il coniglio sovietico si rifila una martellata in testa. L’interpretazione è semplice ma di fondamentale valenza, infatti si vuole riconoscere il giusto tributo all’aiuto fondamentale che l’Unione Sovietica ha dato per le sorti del conflitto, ma l’auto martellata indica che il comunismo viene considerato sempre di più il prossimo nemico. Ultimo simbolismo che ci interessa è la presenza degli Stati Uniti sotto forma di colomba. L’uso della forza di quest’ultima avviene solo dopo aver cercato la pace con i tre dittatori che, di tutta risposta, la calpestano. Questo processo indica il tipico rituale di guerra americano descritto ampiamente nel libro “(S)pazi sconfinati”:

“Al di là delle ovvie motivazioni di carattere economico, geopolitico e di controllo del fronte interno, c’è un carattere statunitense che pare quasi scatenare i conflitti per poterli poi raccontare […] Per funziona allo scopo il modello deve rispondere a certe regole, e non può ammettere eccezioni […] Vediamolo punto per punto

1 Violazione

2 Innesco e ri-accensione

3 Carica e invasione

4 Riconsacrazione

5 Ritorno a casa e punizione del colpevole” [3]

Il viaggio all’interno della propaganda firmata Walt Disney finisce dove in realtà ne comincia un altro. Abbiamo capito che la seconda guerra mondiale si presta a mille vie di studio che sfociano in diverse soluzioni, questo perché soltanto una guerra così cruenta e così radicata nel credo delle varie nazioni poteva aprirci il sipario su tali fonti di studio. Studiare e dimostrare che una guerra, specialmente questa, può essere vinta anche con la propaganda era un obiettivo primario quando abbiamo iniziato a studiare questi fenomeni. Se Hitler punta tutto sulla “Gioventù Hitleriana” il signor Disney risponde con Donald Duck, e lo fa toccando le corde giuste all’interno dell’immaginario americano; impossibile lavorare tutto il giorno in una fabbrica, impossibile vivere in una società pienamente dedita alla guerra, l’americano medio ha paura dell’incubo di Donald Duck, lo teme, lo deve combattere e lo deve vincere. Parola di Walt Disney!

Raffaele Giachini

Note:

[1] F.Martel, Mainstream. Come si costruisce un successo planetario e si vince la seconda guerra mondiale dei media, Milano, Feltrinelli, 2010.

[2] S.Cambi, Diplomazia di celluloide? Hollywood dalla seconda guerra mondiale alla guerra fredda, Milano, Franco Angeli, 2014

[3] F.Tarzia e E.Ilardi, Spazi (S)confinati. Puritanesimo e frontiera nell’immaginario americano, Roma, La Talpa, 2015

8 SETTEMBRE 1943

LA SPARTIZIONE DI UN ESERCITO

Introduzione

L’8 settembre del 1943 fu un giorno tragico per storia del popolo italiano. Contro ogni preavviso uomini, donne, bambini e soldati si trovarono vittime di un nuovo ed orribile avversario. Un’entità invisibile, seppur in grado di imprimersi negli occhi di tutti, capace di piombare silenziosa su qualsiasi campo di battaglia e di uscire vincitrice da tutte le guerre: il Caos.

Dopo quel triste giorno le decisioni delle persone vennero mosse confusamente dalla paura, dal desiderio di sopravvivere e dal senso del dovere; essi diedero inizio ad una drammatica Guerra Civile capace di offrire soltanto vittime e devastazione.  

Prima di descrivere i fatti di un passato che si porta ormai sulle spalle più di 70 anni, è doveroso spiegarvi che la natura di questo articolo è rigorosamente apolitica; come per ogni altra pubblicazione storica di Ignotus Magazine. Il mio intento è quello di favorire la diffusione di una cultura limpida e pura a 360°, priva di corruzioni politiche attuali o passate. Pertanto non aspettatevi, ma soprattutto non temete, alcun tipo di schieramento da parte mia tra le pagine che andrete a leggere. In questo momento l’unica arma che muove la mia penna è la passione per la storia, accompagnata e sostenuta dagli studi universitari quanto dalle parole del celebre storico francese Marc Bloch (1886 –1944), il quale sosteneva che la storia è “la più difficile di tutte le scienze perché si tratta della scienza degli uomini nel tempo”(1).

Precisato ciò, possiamo tornare a parlare dell’8 settembre 1943 e di come si sia tramutato in un giorno così importante per gli italiani e per il resto del mondo.

Antefatto

Per comprendere i fatti dell’8 settembre è necessario compiere qualche passo indietro, prendendo in considerazione che nel 1943 il conflitto stava assumendo una piega sempre più negativa per le forze dell’Asse (Germania – Italia – Giappone).

Le forze italo-tedesche in Africa avevano subito la grave sconfitta di El Alamein (23 ottobre 1942 – 5 novembre 1942). Mentre i soldati tedeschi della Wehrmacht e delle Waffen SS combattevano sempre più tenacemente contro l’Armata Rossa, la quale resisteva compiendo sforzi e sacrifici altrettanto immani. Lo sguardo di tutti si era rivolto in particolare verso la città di Stalingrado (17 luglio 1942 – 2 febbraio 1943), dove la VI Armata del Generale Friedrich Paulus affrontava le insidie del freddo e dei tiratori russi.

Ad aprire le porte dell’Europa e dell’Italia agli Alleati fu la definitiva ritirata dell’Asse dall’Africa settentrionale, avvenuta nel marzo ’43. Inglesi e americani sbarcarono in Sicilia il 10 luglio(2) sferrando al nemico un colpo fatale, capace di indebolirlo e nel peggiore dei casi dividerlo.

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Soldati tedeschi a Stalingrado

8 Settembre 1943

I primi segni di cedimento giunsero dallo stesso Partito Nazionale Fascista (PNF), quando le componenti moderate(3) del regime si coalizzarono per raggiungere due obiettivi: affidare il comando dell’esercito al re Vittorio Emanuele III e portare l’Italia fuori dal conflitto.

Per riuscire in un simile intento occorreva però compiere un passo importante, se non suicida: deporre Benito Mussolini dal suo ruolo di Capo del Governo.

Lo “scacco matto” nei confronti del Duce venne effettuato la notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, durante una riunione dello stesso Gran Consiglio del Fascismo. I primi punti all’ordine del giorno riguardarono l’andamento della guerra, dove Mussolini accusò il Generale tedesco Erwin Rommel, la Volpe del deserto, di essere il maggior responsabile delle disfatte militari subite. Affermazione suo malgrado inutile a coprirgli le spalle, dal momento che tutti nella sala conoscevano perfettamente la verità. Colui che si fece avanti per affidare il controllo dell’esercito nelle mani del Re fu il Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni Dino Grandi(4), il quale ottenne un consenso pari a 19 voti favorevoli, rispetto ai 7 contrari e ad uno solo astenuto.

Dopo vent’anni di Regime, era giunta dunque la fine di Benito Mussolini e con esso del Partito Fascista, dal momento che l’ uno non poteva vivere senza l’altro. Mussolini infatti non era soltanto il Capo del Governo, ma anche il capo del Partito Fascista e il suo ruolo di Duce non era assolutamente ereditabile per due motivi: era una qualifica personale dello stesso Mussolini e nessuno sarebbe mai stato in grado di tenere unito il partito fascista come aveva fatto per vent’anni il mito vivente(5) del Duce.

Un aspetto molto curioso di questo episodio riguarda la reazione dello stesso Mussolini che, pur essendo consapevole del complotto ordito contro la sua persona, accolse un simile evento con una calma inaspettata. Il tempo per reagire non gli era certo mancato. Il potere si concentrava ancora nelle sue mani e con un suo semplice ordine avrebbe potuto far arrestare i congiurati intorno a lui, ma la strada che scelse di percorrere fu totalmente diversa. Lasciò che la seduta del 24-25 Luglio avesse luogo e nel corso di quest’ultima si limitò a precisare che la proposta di Grandi avrebbe potuto mettere in crisi il regime.

Questi atteggiamenti rimasero insiti in Mussolini anche dopo il resoconto della seduta. I fatti del 25 luglio vengono ben descritti da Diego Meldi nella sua opera “La Repubblica di Salò”, dove dice che “Tutti descrivono un Duce fiducioso[…]. Mussolini si recò a Palazzo Venezia come di consueto e sbrigò le sue correnti. Chiese però al re di anticipare alle ore 17 di quello stesso giorno, domenica, la consueta udienza settimanale del lunedì. E alle 17 andò dal re a villa Savoia, apparentemente tranquillo, vittima sacrificale di una guerra ormai quasi perduta”(6).
Non conoscendo le esatte previsioni di Mussolini diventa difficile sostenere che l’incontro si sia svolto come sperava. 

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Benito Mussolini

Non conoscendo le esatte previsioni di Mussolini diventa difficile sostenere che l’incontro si sia svolto come sperava. Poteva contare sulla lealtà del re, che gli avrebbe permesso di rimanere al potere, come aspettarsi di ricevere il ben servito in seguito alla drammatica direzione presa dalla guerra in cui aveva coinvolto l’Italia. 

Dare una risposta a questi dubbi è al momento impossibile, perché non dispongo di fonti al riguardo e non intendo lanciarmi in supposizioni capaci di sollevare soltanto teorie complottiste. Quello di cui possiamo essere certi è che quel fatidico incontro segnò definitivamente il destino di Mussolini e degli italiani.

Una volta giunto davanti a Vittorio Emanuele III, questi parlò senza troppi giri di parole e comunicò al Duce che da quel momento il ruolo di Capo del Governo (e con esso il peso di dover badare all’Italia in guerra), sarebbe pesato sulle spalle del maresciallo Pietro Badoglio(7). L’ormai ex Duce venne messo agli arresti dai carabinieri e condotto verso la prigionia a bordo di un’ambulanza.

Prime fratture​

Con la caduta di Mussolini la nazione venne sopraffatta da un turbinio di emozioni contrastanti e confuse. I più si lasciarono trasportare da un sincero senso di gioia e tirarono un sospiro di sollievo credendo che la dipartita del fascismo significasse anche la fine della guerra(8). Molti manifestanti iniziarono a liberare strade e città dai “sacri” simboli del regime, ma solo pochi di questi potevano definirsi realmente  “antifascisti”. Quelli verranno allo scoperto, numerosi, in una fase successiva, tanto che i movimenti operai, riaffiorando, si preoccuparono di rivolgere i loro scioperi e le loro proteste contro il nuovo governo monarchico-conservatore(9). Con la scomparsa delle loro istituzioni i fascisti passarono inizialmente in secondo piano, senza essere identificati come i primi nemici da affrontare e sconfiggere. 

Ovviamente la disfatta del regime non venne accolta da tutti nello stesso modo. Quelli ancora fedeli al Duce e al fascismo erano numerosi, sia dentro che fuori il territorio nazionale e possiamo conoscere le sensazioni di quest’ultimi considerando due episodi ben distinti tra loro.

Il primo è stato estratto dal memoriale di Giuseppe Spina “Diario di Guerra di un Sedicenne (1944-1945)”. Al tempo Spina era un ragazzo di 15 anni, entrato da poco negli avanguardisti alpini della G.I.L. del 10° Gruppo “Fabio Filzi”. La grande notizia giunse alle sue orecchie la mattina del 26 luglio, quando fu: “svegliato da un forte brusio, poi un vociare scomposto. Guardai dalla finestra. Gruppi di giovani passavano urlando. Non potei capire cosa dissero. Ma vi era qualcosa di oscuro, di ambiguo, inquietante. […] Entrò in quell’istante mio padre, eccitato, affannato.

-E’ caduto il Duce. Tu stai tranquillo. Non uscire.- E se ne andò.

Mi spuntarono le lacrime negli occhi.

In un baleno indossai la mia divisa di avanguardista alpino.

Volevo scendere in strada, sfidare i manifestanti. Guardarli negli occhi. Cercare se in loro c’erano tracce dei fascisti di ieri; guardare se quelle mani conservavano il segno degli innumerevoli applausi.

Pensai al male che potevo fare ai miei genitori con un gesto sconsiderato e, avvilito, mi sedetti sul letto.

[…] In quel momento non potevo cogliere […] che il Fascismo crollava per la stessa volontà delle sue più alte gerarchie, ucciso dalla sconfitta militare, dalla stanchezza generale, dal desiderio vivo… non di libertà… ma di pace, di una pace qualsiasi, acquistata a qualunque prezzo(10).”

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Il secondo episodio invece si svolse molto lontano dall’Italia e per l’esattezza nelle prigioni dove erano stati rinchiusi numerosi soldati caduti in mano agli Alleati(11). All’interno dei campi di prigionia americani, inglesi e francesi c’erano circa seicentomila italiani, mentre altri centomila erano segregati nei gulag sovietici.

Di questi, i prigionieri in mano anglo-americana erano distribuiti in campi di concentramento(12) disseminati per l’Egitto, l’Algeria, la Palestina, il Kenya, il Sudafrica, l’India, gli Stati Uniti e le Hawaii.

Quando i carcerieri informarono i nostri soldati dell’arresto del Duce le prime reazioni furono di sgomento, di gioia e di rabbia. Sensazioni incentivate anche dall’apprendere che la guerra sarebbe andata avanti e che l’Italia intendeva rimanere al fianco dell’alleato tedesco: questo era ritenuto giusto da molti prigionieri, fascisti o meno che fossero.

Tuttavia tra i prigionieri cominciarono a farsi vive delle spaccature, intente a porre da un lato gli uomini fedeli alla monarchia e dall’altro quelli ancora legati al fascismo. Le fazioni che andarono a formarsi furono tre: fascisti, badogliani, attendeisti(13) (ossia coloro che non comprendendo la situazione cercarono di non schierarsi con nessuno).

Fascisti e Badogliani erano determinati a far valere i loro rispettivi giuramenti. Rapporti di amicizia e cameratismo cominciarono a disgregarsi. Anche gli uomini che sarebbero dovuti rimanere uniti e aiutarsi a vicenda, data la loro condizioni di prigionieri, cominciarono a covare risentimento verso chi, fino a qualche giorno prima, aveva imbracciato le armi insieme a loro in nome dell’Italia. L’unico punto su cui concordavano erano la continuazione della guerra contro i nemici anglo-americani, ma presto la coltre di caos che si stava levando avrebbe colpito loro e tutto il popolo italiano col devastante sopraggiungere dell’8 Settembre. 

8 Settembre 1943

Se il 25 luglio equivalse ad un tuono preceduto da un lampo, l’8 settembre si rivelò un fulmine a ciel sereno.

Ad agosto le massime autorità anglo-americane, Churchill e Roosvelt, avevano autorizzato il generale Eisenhower(14) ad aprire “trattative segretissime(15)” col maresciallo Badoglio, il quale si dimostrò ben disposto a firmare la pace col nemico nonostante quanto detto in un suo precedente proclama: “La guerra continua al fianco dell’alleato tedesco(16)”.

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Firmato cinque giorni prima, l’armistizio venne annunciato definitivamente l’8 settembre e per ragioni che inizialmente potremmo definire comprensibili. Vittorio Emanuele III e Pietro Badoglio temevano la drastica reazione dei tedeschi di fronte al loro voltafaccia. La Grande Germania disponeva già di 10 divisioni sul suolo italiano e altre 3 giunsero di rinforzo dopo l’arresto di Mussolini. Tuttavia, gli Alleati non esitarono a rivolgere contro le due alte cariche italiane la giusta pressione, continuando a bombardare il suolo italiano pur di raggiungere il loro scopo di dividere le forze dell’Asse.

Per conoscere la versione originale del discorso di Badoglio, oltre a leggerlo su libri e documenti, potete ascoltarlo tramite Youtube mentre annuncia che: “Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al Gen. Eisenhower, comandante i capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accolta, conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”.

Dunque era fatta: la guerra contro gli anglo-americani, per gli italiani, era finita. Il Re e il suo Capo del governo avevano dato alla nazione quel che voleva, ma le conseguenze furono numerose e costarono caro.

Le feste e le gioie del popolo vennero sedate ancora una volta dal Caos. Tornando a soffermarci un attimo sui prigionieri di guerra italiani, detenuti dagli anglo-americani, questi si trovarono preda di nuove fratture interne. Molti erano ancora ostili agli anglo-americani, che vedevano come un nemico, mentre altri seguirono il volere del re e di Badoglio mostrandosi disponibili a collaborare(17) con gli Alleati per affrontare i tedeschi. Citando Arrigo Petacco: “i nostri prigionieri finirono per dividersi tra cooperatori e non cooperatori” i quali però non furono più fortunati nè degli uni, nè degli altri “neanche la promessa di un precoce rimpatrio fatta ai cooperatori fu mantenuta. Anzi, il loro rientro verrà ritardato perché, come vedremo, le loro braccia e le loro capacità lavorative a costo zero li rendevano economicamente molto più preziosi dei non cooperatori”(18). A ledere maggiormente il senso di unione e fraternità tra i nostri soldati prigionieri fu un elemento non irrilevante, quale la mancanza di ordini più precisi da parte del Capo del Governo, che era impegnato ad abbandonare la capitale(19) per recarsi a Brindisi insieme alla famiglia reale.

 

In origine era il caos

I prigionieri in mano anglo-americana tuttavia non furono i soli a trovarsi abbandonati. Nel suo annuncio Badoglio aveva detto che: ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Un ordine apparentemente chiaro quanto ambiguo, dal momento che non teneva conto delle centinaia di migliaia di soldati schierati al fronte, con ancora accanto quei camerati tedeschi che fino ad un giorno prima avevano combattuto al loro fianco in Grecia, Africa e Russia.

Di fatto, come temuto, la risposta della Germania non tardò ad arrivare. Le tre divisioni inviate nella penisola, dopo l’arresto di Mussolini, servirono proprio a favorire la conquista dell’Italia dopo la sua dipartita, ormai riconosciuta come imminente.

L’attacco fu ben congegnato e incontrò una scarsa resistenza, dal momento che l’esercito italiano si trovava senza una guida, privo di ordini e preda del disordine. I soli che riuscirono a resistere, rallentando l’avanzata tedesca nei dintorni di Roma, furono i granatieri della divisione Ariete e Piave supportati da alcuni gruppi di civili(20). Lo scontro principale ebbe luogo a Porta San Paolo(21), ma l’invasione tedesca riuscì a concludersi entro il 12 settembre. L’Italia assunse una nuova funzione nella strategia germanica, diventando quello che potremmo definire uno “stato cuscinetto”, utile a tenere il più lontano possibile gli Alleati dal suolo tedesco(22).

Dopo l’annuncio dell’armistizio Badoglio si trovò con un esercito allo sbando, circa 600.000(23) soldati vennero resi prigionieri dai tedeschi e inviati in Germania. Certi riuscirono a fuggire e tornare a casa, altri cercando di eseguire i vaghi ordini dell’8 settembre si ribellarono contro i tedeschi, dai quali vennero sopraffatti e giustiziati: il caso più conosciuto è quello di Cefalonia(24). Coloro che scelsero di opporsi ai tedeschi, sia che fossero militari o civili, si radunarono creando i primi ranghi della resistenza, la quale richiedeva tempo per essere organizzata e pronta alla guerriglia(25).

Ad incrementare la divisione del popolo italiano, che si espandeva frastagliata e profonda, sarebbe giunta la nascita della Repubblica Sociale Italiana (R.S.I). La realizzazione di quest’ultima fu resa possibile dalla liberazione di Mussolini, avvenuta il 12 settembre per mano dei tedeschi.

Degli italiani fatti prigionieri e inviati in Germania 12000 entreranno a far parte della R.S.I, permettendo la realizzazione delle divisioni: Monterosa, San Marco, Italia, Littorio. Il resto dei prigionieri, quelli che rifiutavano di arruolarsi nel nuovo esercito fascista, vennero “utilizzati” dai tedeschi, sempre più interessati a procurarsi manodopera, proprio come la loro controparte anglo-americana con i nostri cooperatori. Il 20 di Settembre(26) venne poi costituita la GNR(Guardia Nazionale Repubblicana),  ma non aggiungerò nulla di più al riguardo perché tengo ora a concentrarmi sugli eventi appena successivi all’8 settembre.

Come avrete notato il popolo italiano era drasticamente diviso e questo dopo che i suoi “padri fondatori” avevano sputato sangue in ben tre guerre d’Indipendenza pur di renderlo un’entità unica e coesa. Dei combattenti alcuni rimasero fedeli alla monarchia, altri entrarono nella resistenza (la quale è ricca al suo interno di altre sfaccettature), diversi mantennero fede al fascismo, ma numerosi si unirono volenterosi a quelle schiere che sognavano di fare una cosa sola: difendere l’onore d’Italia.

Decima marinai!​

Con la sua “badogliata”(27) il maresciallo Badoglio aveva dichiarato improvvisamente guerra alla Germania Nazional Socialista, recando così un gravissimo disonore al proprio paese e al proprio popolo, adesso malvisto tanto dai tedeschi quanto dai suoi nuovi compagni d’armi. Trovando indicibile un simile comportamento molti giovani, uomini e soldati si unirono alle schiere della Decima Flottiglia Mas (XMAS), reparto speciale addestrato nell’impiego di mezzi d’assalto della Marina.

A comandarla presso La Spezia era il Principe Junio Valerio Borghese, che, ricevendo la notizia dell’Armistizio, non permise ai suoi uomini di sbandarsi e lasciarsi prendere dal panico.

Un esempio di questa condotta lo troviamo nei Nuotatori Paracadutisti di base a Tarquinia (reparto anfibio che combinava le specialità dei subacquei e dei sommozzatori con quelle dei paracadutisti). Privi di ordini e certezze si ritirarono tra le montagne. “Il contatto con i tedeschi venne preso da Ceccacci (il S. Tenente di Vascello Rodolfo Ceccacci era il comandante degli NP di Tarquinia(28)) che concordò il libero ritorno alle loro case per tutti gli NP. Tutte le armi e le munizioni furono nascoste nei boschi. Ceccacci, il 18 settembre, diede a tutti una licenza illimitata, con l’intesa che, se vi fossero state novità, i contatti tra loro sarebbero stati ripresi(29)”.

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Passò soltanto qualche giorno prima che gli ufficiali degli NP del Nord(30) decidessero di rimanere al fianco di Borghese, il quale stava dando forma a quei battaglioni con cui avrebbe proseguito la guerra contro gli Alleati al fianco dei tedeschi.  

Il primo battaglione composto da un migliaio di uomini fu il “Maestrale”, poi nominato “Barbarigo” nel gennaio del 1944. Sempre nei primi mesi del ’44 venne costituito il Battaglione Lupo, che si distinse combattendo tra le sponde del fiume Senio. Seguirono poi altri battaglioni come il Sagittario, il Valanga (guastatori alpini), il Fulmine (bersaglieri) e altri di cui parleremo in altre pubblicazioni. Molto interessante è la storia del btg. Longobardo, costituito a “Bordeaux con giovani volontari francesi, figli di italiani emigrati in Francia. Molti non parlavano neppure italiano ma vollero arruolarsi per “riscattare l’onore dell’Italia. […] Giunti a venezia vennero aggregati prima al Btg: Barbarigo e, dopo una settimana, al Btg. Fulmine con il nome di 3° Compagnia Volontari di Francia. Soltanto alcuni uomini, desiderosi di poter subito combattere, si arruoleranno nelle SS italiane(31)”. 

A comporre i battaglioni della X MAS erano soprattutto molti giovani, che si arruolarono volontariamente perché fermi e decisi a voler fare una sola cosa: riscattare l’Onore d’Italia. Per aver conferma di questo potete leggere le testimonianze di molti soldati della Decima, come quelle del Marò Emilio Maluta (su Youtube si trovano alcune sue interviste), oppure degli autori sotto citati nella bibliografia.

Conclusioni

Munita di spirito (apolitico) e determinazione, la X Mas mancò soltanto di unità navali efficienti.

Mentre il Regio Esercito si trovò abbandonato, la Regia Marina venne consegnata agli anglo-americani per impedire che finisse nelle mani dei tedeschi; quest’ultimi però riuscirono far sentire ancora una volta la loro risposta. Fu infatti durante il trasferimento verso l’isola di Malta(32), luogo della consegna, che si assistette all’affondamento della Corazzata Roma, nave orgoglio della marina italiana, colpita all’interno del fumaiolo da una bomba razzo radioguidata Ruhrstahl 1400(33). Dei 2000 uomini dell’equipaggio se ne persero circa 1400, ma come si sarà ormai notato il costo in vite umane dell’8 settembre fu molto più alto.

Per concludere, mi scuso per aver realizzato una pubblicazione che oserei definire “frettolosa”. Le cose da dire sul’8 settembre e le sue conseguenze sono numerose e difficili da affrontare in uno spazio così ristretto. Spero soltanto di avervi mostrato qualcosa di interessate e possibilmente nuovo, con cui ho voluto introdurre un discorso più ampio che affronterò molto presto, ma per il momento non anticipo nulla di più.

Note:

(1)W. Panciera – A. Zannini, Didattica della storia, Manuale per la formazione degli insegnanti, Mondadori, Milano, 2013, p2.

(2) G. Sabbatucci – V.Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 440.

(3) Rientrano tra le componenti moderate del regime Fascista: industriali, militari, gerarchi dell’ala monarco-conservatrice)

(4)D. Meldi (a cura di), La Repubblica di Salò, Gruppo Editoriale srl Santarcangelo di Romagna (RN), 2008, p. 5

(5)E. Gentile, Fascismo, Laterza & Figli, Roma-Bari, 2002, pp. 164-165-166

(6)D. Meldi (a cura di), La Repubblica di Salò, p. 9.

(7)M. Gilbert, La Grande Storia della Seconda Guerra Mondiale, Oscar Mondadori, Milano, 1990, p.516.

(8) G. Sabbatucci – V.Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, p. 441.

(9) D. Meldi (a cura di), La Repubblica di Salò, p. 11.

(10) G. Spina, Diario di guerra di un Sedicenne (1944-1945),Fondazione della R.S.I. – Istituto Storico, 2012, pp. 21-22.

(11) A. Petacco, Quelli che dissero No, 8 settembre 1943: la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e americani, Mondadori, Milano, 2011, p.3.

(12) Per fornirvi una corretta definizione del termine “campi di concentramento” vi riporto un estratto dell’enciclopedia Treccani: utilizzati agli inizi del Novecento come prigioni di guerra per recludervi militari o civili dei paesi nemici, i campi di concentramento sono stati poi usati dai regimi totalitari per rinchiudervi coloro che, per ragioni razziali o politiche erano considerati nemici da eliminare. In questa versione i campi di concentramento sono divenuti campi di lavoro, dove la disumanità del trattamento conduceva spesso alla morte, o campi di sterminio, dove si procedeva alla sistematica uccisione dei prigionieri.

Per ulteriori approfondimenti: http://www.treccani.it/enciclopedia/campo-di-concentramento_%28Enciclopedia-dei-ragazzi%29/

(13) A. Petacco, Quelli che dissero No, 8 settembre 1943: la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e americani, p.62.

(14) M. Gilbert, La Grande Storia della Seconda Guerra Mondiale, p.524.

(15) G. Sabbatucci – V.Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, p. 441.

(16) D. Meldi (a cura di), La Repubblica di Salò, p. 14.

(17)A. Petacco, Quelli che dissero No, 8 settembre 1943: la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e americani, p. 67.

(18) A. Petacco, Quelli che dissero No, 8 settembre 1943: la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e americani, pp. 4-5-6.

(19) era il 9 settembre.

(20) D. Meldi (a cura di), La Repubblica di Salò, p. 16.

(21) G. Sabbatucci – V.Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, p. 441.

(22) D. Meldi (a cura di), La Repubblica di Salò, pp. 16-17.

(23) A. Petacco, Quelli che dissero No, 8 settembre 1943: la scelta degli italiani nei campi di prigionia inglesi e americani, p. 3.

(24) G. Sabbatucci – V.Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, p. 441.

(25) Guerriglia: Particolare tattica di guerra, condotta, con specifica conoscenza delle condizioni ambientali, da parte di formazioni di limitata entità, per lo più irregolari, contro le truppe regolari dello stesso stato o di uno stato estero, allo scopo di abbattere il regime costituito o protestare contro di esso, o anche di liberare il paese dallo straniero che lo occupa; si sviluppa con imboscate, attentati, sabotaggi, attacchi di sorpresa e conseguenti brevi scontri, generalmente effettuati in zone montane, boscose o impervie, che sono particolarmente favorevoli allo spostamento rapido di piccole formazioni […]. Definizione disponibile su: http://www.treccani.it/vocabolario/guerriglia/

(26) D. Meldi (a cura di), La Repubblica di Salò, p. 29.

(27) “to Badogliate”: Termine di invenzione Alleata per indicare un tradimento grave.

(28)https://www.associazionedecimaflottigliamas.it/ultime-notizie/14-comunicazioni/202-ing-rodolfo-ceccacci.html

(29) A. Zarotti, I Nuotatori Paracadutisti, Edizioni Auriga, Milano, p. 27.

(30) “NP del Nord”: oltre agli NP di Tarquinia vi erano anche quelli dislocati in Sardegna, che entrarono però in combattimento sotto le dipendenze degli anglo-americani. Per approfondimenti potete consultare il sito: http://www.decima-mas.net/apps/index.php?pid=82.

(31) D. Meldi (a cura di), La Repubblica di Salò, p. 261.

(32) D. Meldi (a cura di), La Repubblica di Salò, p. 261.

(33)M. Gasparini, Seconda Guerra Mondiale, immagini dal fronte, dalla Maginot a Hiroshima, Capricorno, Torino, 2015, p. 55.

 

Bibliografia:

1. Meldi (a cura di), La Repubblica di Salò, Gruppo Editoriale srl Santarcangelo di Romagna (RN), 2008.

2. Sabbatucci G. – Vidotto V., Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2008.

3. G. Spina, Diario di guerra di un Sedicenne (1944-1945),Fondazione della R.S.I. – Istituto Storico, 2012.

4. Gentile E., Fascismo, Laterza & Figli, Roma-Bari, 2002.

5. W. Panciera – A. Zannini, Didattica della storia, Manuale per la formazione degli insegnanti, ondadori, Milano, 2013.

6. M. Gasparini, Seconda Guerra Mondiale, immagini dal fronte, dalla Maginot a Hiroshima, Capricorno, Torino, 2015.

7. A. Zarotti, I Nuotatori Paracadutisti, Edizioni Auriga, Milano.

8. M. Gilbert, La Grande Storia della Seconda Guerra Mondiale, Oscar Mondadori, Milano, 1990.

PER GLI APPASSIONATI DI STORIA MILITARE CONSIGLIAMO ANCHE  L'ARTICOLO: 

"LA GEOLOGIA MILITARE E LA GRANDE GUERRA"

ERNST JUNGER, DALLE TEMPESTE D'ACCIAIO ALL'OPERAIO

Brevi cenni introduttivi

"Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt, L’operaio. Dominio e forma." Con questo titolo apparve, nel 1932, uno dei testi chiave per comprendere e scoprire uno degli intellettuali più discussi e più criticati del novecento.
Junger nacque ad Heidelberg, Germania, nel 1895. Prima di finire il liceo, la ricerca di azione e di avventura lo porteranno a scappare di casa per poter attraversare il confine francese ed arruolarsi nella legione straniera.
Dopo poco, il padre di Ernst riuscì a rintracciarlo e a riportarlo a casa. Arrivarono ad un compromesso: finiti gli studi avrebbero cercato un lavoro od un’attività che portasse avventura ad un cuore votato all’azione. Il ragazzo non dovette attendere molto.

Ernst Junger

La prima guerra mondiale si impose all’Europa, trasformando il
continente in un campo di battaglia e di morte. Junger, che si arruolò
volontario già nel 1914, restò nelle trincee del fronte Occidentale fino alla fine del conflitto, guadagnandosi il grado di tenente. Per le azioni che lo contraddistinsero durante i lunghi quattro anni di guerra, venne decorato con la medaglia Pour le Mérite ovvero la più alta onorificenza tedesca. A guerra finita pubblicò nel 1920 “In Stahlgewittern” “Nelle tempeste d’acciaio”, il suo diario di guerra. Ebbe molto successo in Germania, una nazione sconfitta ma che molti tedeschi ritenevano di fatto invitta, quantomeno nello spirito. Junger descrive il mondo che ha visto con i suoi occhi senza molti filtri. Descrive i paesaggi sconvolti dai bombardamenti, la vita dei soldati, le personali incursioni nella terra di nessuno, gli assalti alla trincea nemica. Riporta le visioni di uomini dilaniati dalle granate, la loro decomposizione, gli odori, i rapporti costanti con la morte. Eccone un piccolo passo: 
“Un odore dolciastro e una massa uncinata alla rete dei fili spinati attirarono la mia attenzione. Saltai dalla trincea nella nebbia del mattino e mi trovai davanti al cadavere rattrappito di un soldato francese. La carne, che sembrava di pesce, decomposta, spiccava col suo color bianco verdastro nell'uniforme a brandelli. Nel voltarmi per tornare feci un salto all'indietro per l'orrore: proprio vicino a me una forma umana era appoggiata a un albero. Portava i cuoi lucidi dei francesi e aveva ancora sulle spalle lo zaino pieno, sormontato da una gavetta rotonda. Due orbite vuote e qualche ciuffo di capelli sul cranio bruno-nerastro mi rivelarono che non avevo a che fare con un uomo vivo”. 
(1)

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Figura 1: Ernst Junger

Ciò che distingue questo scritto da molte altre testimonianze è il carattere epico che lo scrittore imprime, narrando gli avvenimenti vissuti in prima persona. La guerra, secondo Junger, ha forgiato un uomo nuovo, capace di mettere fine alle contraddizioni borghesi e di riscattare la Germania dall’onta della sconfitta e dalle umiliazioni del trattato di
Versailles. Saluta con entusiasmo uno spirito nuovo, nato in trincea e temprato dalla prova della Grande Guerra. Il libro ebbe risonanza soprattutto negli ambienti dei reduci e della destra tedesca, alimentando quel risentimento nei confronti delle nazioni vincitrici che solo una pace ben fatta poteva, forse, scongiurare.

Ulteriori approfondimenti sul significato che la guerra ebbe per Junger si possono trovare nel suo “La battaglia come esperienza interiore” (Stoccarda 1922). In questo testo lungo poco più di un centinaio di pagine Junger analizza l’esperienza di guerra del soldato, non la mera partecipazione passiva agli eventi. Racconta la sua esperienza attiva,
passando dalle bevute in compagnia alla folle ebrezza provata durante l’assalto al nemico, dalle notti insonni passate a riflettere sul significato della guerra alla consapevolezza di scrivere pagine di storia partecipando
a grandi azioni. Non nasconde gli orrori provati, infatti essi sono il volano con cui i soldati entrano in contatto con gli istinti primordiali a lungo sopiti:
"Questa euforia sempre sia cara a colui che l’ha potuta provare nonostante l’orrore. Egli non ha sentito su di sé la sola violenza della materia. Si è spinto oltre: la sua è stata anche un’esperienza interiore."
(2)

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Junger parla di uomini trasformati da questa esperienza, dal contatto con le forze elementari. La trasformazione si attua sopravvivendo, incamerando esperienza e facendone tesoro. La capacità di riconoscere la tipologia di un ordigno dal suono che ne annuncia l’arrivo imminente, può fare la differenza tra la vita e la morte.
Molti detrattori di Junger criticavano l’enfasi con cui lo scrittore
inneggiava alla rigenerazione spirituale realizzatasi durante gli anni del conflitto. Rispetto ad altri testi sull’esperienza di guerra, come “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Erich Maria Remarque o “Il fuoco” del francese Henri Barbusse, i testi di Junger appaiono in completa antitesi.
Essi infatti, legittimamente, condannano la guerra e ne riportano i lati disumani, raccontando le sofferenze immani che le generazioni di quell’epoca dovettero affrontare. Non vi è nulla da esaltare se lo straordinario attaccamento alla vita che permise a molti di sopravvivere.

La narrazione jungeriana invece si sofferma sulle conseguenze individuali e collettive che il conflitto mondiale ha generato, incitando all’azione ed invitando i reduci e tutti i nazionalisti tedeschi ad innalzare i vessilli di un nuovo e più potente regno. (3)

La guerra che il mondo borghese aveva scatenato si sarebbe rivelata l’evento che chiudeva un capitolo della storia e apriva gli orizzonti di una nuova era, con i suoi eroi e i suoi nemici. Secondo Junger la forza della tecnica, che aveva trasformato il conflitto in una Materialschlacht, guerra dei materiali, avrebbe trasformato il mondo plasmando l’uomo come un fabbro impone al ferro la forma desiderata. A differenza di molti intellettuali tedeschi, che rifiutavano la tecnica come mezzo e come valore per l’uomo, Junger innalza la tecnica al rango di una forza dotata
di volontà propria. Padrona incontrastata del XX secolo, dovrà essere controllata da uomini capaci di comprenderla e di sottometterla al proprio volere. Ecco che Junger ci proietta in un mondo mitico, visionario, che ha
trovato i sui nuovi signori. L’individualismo borghese è al tramonto, si intravedono all’orizzonte gli stendardi dell’Operaio.

L’Operaio è un saggio, un’analisi dello stato mondo contemporaneo allo scrittore e delle sfide che lo aspettano; è dotato di una propria metafisica che si manifesta in primo luogo dal titolo: Der Arbeiter, il lavoratore, in
italiano venne tradotto Operaio per conferirgli quell’aura di miticità che Junger volle attribuire alla figura presa in esame (anche se una delle traduzioni più felici e più complete sotto il profilo dell’interpretazione rimane «milite del lavoro»
4). Non si tratta assolutamente di un termine conducibile ad una classe sociale o ad una mansione specifica. Queste classificazioni sono, per Junger, riduttive, poiché cercano di imbrigliare il potenziale eversivo e rivoluzionario che la figura dell’operaio possiede.
L’Operaio è una Gestalt (forma) dotata di leggi e caratteristiche proprie, unica forma in grado di restare in equilibrio su di un mondo che ha perso le sue colonne portanti e la sola in grado di erigere nuovi monumenti al
proprio tempo attraverso il dominio della tecnica. La differenza tra l’individuo borghese e l’operaio non è soltanto d’epoca, ma di rango:
«L’operaio è in rapporto con forze elementari di cui il borghese non ha mai avuto neppure il presentimento: neppure della loro pura e semplice esistenza». 
(5)

Le forze di cui parla Junger sono elementi primordiali che si manifestano nella realtà attraverso l’uomo e ne plasmano la forma. Il dominio borghese fondato sulla ragione e sul progresso come bastioni in difesa del proprio mondo, ha escluso il contatto con tali forze poiché catalogate nell’assurdo e nell’irrazionale. Quando i primi esponenti del mondo
operaio fecero la propria comparsa nel mondo, la borghesia riuscì a domare questa irruzione, cercando il modo di inserirla nelle definizioni e inquadrarla in uno schieramento parlamentare, e quindi su un campo di
battaglia a lei favorevole. Le tensioni e i fragili equilibri sociali si frantumarono proprio con lo scoppio del conflitto. Ma è lo stesso conflitto a svelare la vera natura del mondo e delle sue forze: la tecnica simbolo del progresso e del benessere borghese si rileva invece una potenza distruttiva in grado di annientare qualsiasi fortificazione. Solo chi è in
grado di domarla, di soggiogare la violenza distruttrice ed adattarsi alle nuove condizioni, potrà vivere una vita piena e ricca di certezze. Il significato specificatamente moderno della guerra è per Junger una trasformazione del conflitto in energia creatrice, di una guerra come di un «gigantesco processo lavorativo». Nuovi armamenti, nuove tecnologie,
nuovi tipi di eserciti, di trasporto di distribuzione si sviluppavano durante gli scontri, l’esercito del lavoro si era messo in marcia: 
“Questa mobilitazione assoluta di energia potenziale, che ha trasformato in vulcaniche fucine gli stati industriali belligeranti, segna nel modo più impressionante l’avvento di un’epoca del lavoro…E’ compito della
mobilitazione sviluppare una tale massa d’energia. Mediante la mobilitazione totale, la grande corrente energetica della guerra sarà trasmessa, come il risultato di un’unica manovra del quadro di controllo, alla rete della vita moderna, in tutte le sue ramificazioni e circuiti.”
(6)

La figura del soldato, trasferendosi dal campo di battaglia alla vita civile, porta con sé quell’organizzazione militare indispensabile per una superiorità che porti ad un nuovo dominio. La Germania, sconfitta, potrà rialzarsi solo con l’avvento di un nuovo paradigma: “«E’ nostra convinzione che l’ascesa dell’operaio sia sinonimo di una nuova ascesa
della Germania»”.
(7)
Junger descrive la forma borghese come perennemente in posizione difensiva, trincerata nelle sue sicurezze ed escludendo il pericolo dalla propria esistenza. L’operaio invece ha l’aspirazione ad un nuovo tipo di
libertà, una forma che ha nell’assalto e nel sacrificio i valori di riferimento. Ma non solo. Junger contrappone l’individuo borghese al “tipo” operaio. Il tipo si distingue dall’individuo per la sua “sostituibilità”, il che dona
all’operaio qualità quasi meccaniche. Una prova si ritrova nella capacità del fante di sostituire un compagno caduto in prima linea: egli prende il suo posto, continuando ad eseguire il compito assegnato a quel settore.
La qualità viene mantenuta in tempo di pace mediante un addestramento e una capacità di lavoro che consentono lo stesso grado di efficienza al di fuori delle capacità individuali. Il tipo, per Junger, non è altro che un’altra conferma che la forma dell’operaio si sta materializzando e diffondendo, omologandosi ai dettami della tecnica. Essa infatti, causa e
allo stesso tempo conseguenza di tali mutamenti, esige una precisione che solo un addestramento uniformato può garantire. Ciò che Junger immagina è l’avvento di un nuovo stato globale che si erga sulle ceneri degli stati parlamentari borghesi, che si impossessi dell’imperio che gli appartiene e che indichi una nuova strada al genere umano. La guerra ha dato il via alla mobilitazione di uomini e mezzi come mai era accaduto prima, impegnando tutte le energie a disposizione degli stati coinvolti.
Junger tenta, in sostanza, di trasferire il modello di organizzazione militare alla vita civile. La tecnica e la sua espansione sono per Junger uno dei segni che preannunciano l’avvento dei nuovi dominatori, coloro
che con essa hanno un rapporto diretto, intimo e pieno. Più volte, nel corso del saggio, ribadisce che la tecnica non è altro che la forma dell’operaio che mobilita e rivoluziona il mondo. Le trasformazioni che accompagneranno l’avvento del nuovo mondo e della nuova umanità verranno caratterizzate da nuove istituzioni e da nuovi principi: le
costituzioni verranno abrogate e sostituite dal piano di lavoro nazionale. I duci che guideranno le schiere chiamate al servizio saranno i primi a marciare, i primi a servire e sempre in prima linea. I primi operai insomma. La pienezza di valori che riempie e dona completezza alla forma dell’operaio è il lavoro. I dilemmi della modernità troveranno
risposta proprio nel lavoro, ma in modo diverso rispetto alla definizione borghese. Non si tratta di una prestazione remunerata, ma di un fatto, prima ancora che economico, morale:
“Il senso del lavoro sta nel creare quella pienezza di valori necessaria alla nazione. Il lavoro è un fatto morale, non una prestazione meccanica che si possa misurare con il sistema di Taylor o con il denaro.” 
(8)
Qui Junger critica fortemente il sistema capitalista borghese che riconosce nel lavoro, come in qualsiasi altro settore per esempio l’arte, solo una fonte generatrice di guadagni. La sfera economica, che il modello borghese ha innalzato a supremo arbitro della vita, deve essere ricollocata come uno degli aspetti del potere statale. Uno stato nuovo,
autoritario, retto da spiriti nati con la vocazione del comando.

Il mondo immaginato e descritto da Junger non è il paradiso dei lavoratori, anzi, tutt’altro. La mobilitazione di uomini e risorse comporta sacrifici ancora maggiori che nel mondo borghese. Il concetto stesso di sacrifico viene completamente rivisto e presentato come uno dei principi più importanti
del mondo jungeriano:
“«L’uomo trova la sua felicità più profonda nel sacrificarsi, e l’arte suprema del comando consiste nell’additare scopi degni del suo
sacrificio»”
(9)
Libertà come diritto al lavoro, sacrifico come felicità, il comando come arte suprema, questi sono i pilastri che

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Junger individua nella sua analisi dei processi storici pronti ad investire l’Europa e il mondo. Come ben sappiamo le cose presero una piega ben differente da ciò che lo scrittore di Heidelberg pensava: circa un anno dopo il potere verrà assunto da Hitler e dal partito nazionalsocialista, cancellando qualsiasi speranza all’avvento di un mondo operaio. Lo stesso scrittore, che molti erroneamente individuarono come un sostenitore del regime, rischiò la sua vita per la pubblicazione nel 1939 del romanzo “Sulle scogliere di marmo“, dove si ipotizzava il tirannicidio.

Non nascondiamoci, L’operaio di Junger è un saggio che a volte risulta ripetitivo e noioso oltre che ormai (ripetiamo, 1932) obsoleto in moltissime sezioni. Ma ciò che lo rende ancora oggi affascinante e degno di essere letto e discusso è il suo apparato metafisico. Junger appartiene alla schiera di chi ha davvero immaginato e sostenuto un cambio radicale di rotta del suo paese e dell’umanità. Sia essa condivisibile o meno, a noi non interessa. Ciò che rimane è uno scrittore dalle incredibili doti letterarie e con una capacità di osservazione fuori dal comune, che ha restituito al genere epico una vitalità che sembrava ormai perduta per sempre.

Giovanni Belnome

Bibliografia

(1) Ernst Junger, Nelle tempeste d’acciaio, pag 29, Ugo Guanda editore, Milano 2015

(2) Ernst Junger, La battaglia come esperienza interiore, pag 11-12 Piano B, 2014 Prato.

(3)Stefan Breuer, La rivoluzione conservatrice, Doninzelli editore, Roma 1995, pag 23
(4) Definizione di Delio Cantimori, Ernst Junger L’operaio,Ugo Guanda editore, Parma,2010, introduzione pag
VI
(5) Ernst Junger L’operaio, Ugo Guanda editore, Parma,2010, introduzione

(6) Herf, Modernismo reazionario, tecnologia, cultura e olitica nella Germania di Weimar e del terzo Reich
(7) Ibidem.

(8) Ernst Junger, Op cit

(9) Herf, Modernismo reazionario pag 150

ESSERE CITTADINO NELL'ANTICHITA'

“La cittadinanza segna l'appartenenza di una persona giuridica ad uno Stato”, questo sarebbe il significato se si cercasse la parola sul dizionario.

Ma il concetto che la parola identifica è molto più complesso e non si ferma alla sola appartenenza alla comunità statale.

Quello di cittadino è uno status che viene concesso all'individuo dalle istituzioni dello Stato secondo determinati criteri e stabilisce quali siano i diritti che, con esso, sono stati acquisiti e a quali regole deve sottostare per mantenerlo.

La concessione della cittadinanza fa anche in modo che l'individuo che la riceve esca dalla condizione di straniero, mettendo così in contrapposizione le due figure.

Il bisogno di dividere queste due entità e di comprendere a chi dovesse essere concesso di entrare in possesso dei diritti di cittadino è una prerogativa di ogni Stato, in ogni tempo storico.

Nel mondo greco, il cittadino era colui che, risultava totalmente integrato all'interno di una πόλις(1) o comunque all'interno di una comunità civica, non tanto dal punto di vista etnico, quanto da quello giuridico. 

In quest'ottica lo straniero era chiunque fosse estraneo alla comunità, sia perché effettivamente esterno ad essa, sia chiunque fosse stato privato dell'effettiva cittadinanza per aver trasgredito alle regole imposte dal governo.

L'opposizione fra cittadino e straniero è, dunque, in Grecia, una delle antitesi costitutive dell'identità politica e civile.

Ma la vera trasformazione del concetto, che porterà poi a far nascere quel sentimento di “Nazione” che starà alla base della formazione degli stati nazionali in età moderna, si concretizza sotto il dominio di Roma, a partire dall'età monarchica.

In questo primo periodo la cittadinanza romana era subordinata, come nel mondo greco, alla partecipazione alla vita pubblica nei comizi curiati e, di conseguenza, all'iscrizione nelle tribù.

Cittadino nell'antichità
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I Comuzi Curiati

Illustrazione di Tommaso Debernardis

Roma arcaica aveva un assetto costituzionale basato sulla presenza di un re affiancato da un senato, al quale sottostavano i comizi curiati che erano espressione del popolo.

La divisione tribale seguiva la tripartizione etnica della comunità cittadina:

•    Ramses, da Romolo, era la tribù dei Latini;

•    Titires, da Tito Tazio, quella sabina;

•    Luceres, da Lucumone, la compagine etrusca.

E' certo che la divisione tribale fosse una reminiscenza più antica, forse etrusca, e si pensa che le tribù gentilizie siano state introdotte durante la monarchia dei Tarquini(2), anche se la ripartizione del popolo in tribù è presente presso altri popoli italici come gli Umbri e i Sabelli. Le tribù romane erano divise in gentes,ovvero famiglie. Queste famiglie si dividevano in quelle che avevano contribuito alla fondazione dell'Urbe e che si identificavano come patrizi, in contrapposizione con i plebei che erano invece esponenti di quelle gentes che si erano aggiunte successivamente. Ogni tribù forniva dei reparti per l'esercito.

Ma l'elemento cardine di Roma erano le curie.

Trenta, dieci per ogni tribù, erano la base su cui si costituiva l'assemblea popolare e l'esercito in cui era inquadrato il popolo.

Far parte di una curia garantiva l'accesso alla cittadinanza, poiché significava partecipare alla vita pubblica, attraverso il diritto di voto nell'assemblea, e concorrere alla difesa della città. Ma quali erano i modi per essere ammessi al comizio curiato onde richiedere la cittadinanza?

Il primo di questi è strettamente legato alla capacità di Roma di essere molto propensa all'integrazione, che la rende il fulcro di flussi migratori dalle zone limitrofe e che andrà poi allargandosi durante il periodo repubblicano per raggiungere il suo apice con l'Impero.

Queste migrazioni erano composte da persone che avevo problemi nella loro patria e si muovevano alla volta dell'Urbe in cerca di una seconda possibilità, richiedendo l'asilo. Questi potevano, dopo un determinato periodo di tempo, richiedere la cittadinanza e venire messi a parte di una curia.

Tuttavia Roma non concedeva la cittadinanza a tutti coloro che la richiedevano, bisognava che da quell'acquisizione Roma potesse trarne un vantaggio, un'utilità.
Venivano regolarizzati, dunque, solo coloro che potevano permettersi un'armatura oplitica e che quindi potessero costituire le prime file dell'esercito.

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Inoltre il diritto romano non prevedeva la doppia cittadinanza, quindi chi faceva richiesta di ricevere lo status di cittadino doveva rinunciare a quella della città di provenienza; questo per evitare controversie in caso di guerra.

Esisteva poi la categoria degli schiavi: per lo più prigionieri di guerra, ma anche debitori che, non potendo saldare, vendevano la propria libertà ai creditori. Non avevano dignità politica o civile, né capacità giuridiche. Erano esclusi dallo status di cittadino, ma potevano accedervi per mezzo della manomissione. Questa pratica consisteva nella

liberazione dello schiavo da parte del pater familias e della sua acquisizione dello status di liberto e entrava a far parte della cerchia clientelare del padrone. La manomissione era legata all'abilità, alla fortuna e alle circostanze della vita dello schiavo e comunque subordinata all'utilitas che Roma poteva ricevere dalla sua liberazione. Con l'avvento della Repubblica, il concetto di cittadinanza assunse un significato differente .

Essa viene definita come un insieme di diritti civili e politici, cui corrispondevano dei doveri. Tuttavia non esisteva, nel mondo romano, un elenco di questi diritti e doveri che definivano lo status di cives; questo perché il concetto di “diritti civili” nasce molto più tardi, appartiene,infatti all'età moderna.

Sappiamo però cosa comportasse essere un cittadino romano.

Principalmente il cives gode dello ius connubii, il diritto di contrarre un giusto matrimonio, dal quale derivano altri effetti giuridici.  Alla fine dell'età repubblicana, la tutela del cittadino venne ampliata dalla legislazione sillana con le leggi Corneliae, che prevedevano il diritto alla salvaguardia della persona e del domicilio.

Lucio Cornelio Silla

Tentativo di riproduzione realizzata dalla comparazione dei suoi busti originali. 

illustrazione di Tommaso Debernardis

Essere cittadino ti permetteva di compiere gli atti espressi dal diritto.

I diritti politici legati alla cittadinanza erano:

•    lo ius suffragii, il diritto di votare nell'assemblea, alla quale potevano partecipare solo i cittadini;

•    lo ius honorum, il diritto di poter essere eletto magistrato;

•    la possibilità di invocare l'intercessio(3) di un tribuno e un magistrato.

I doveri che il cittadino contraeva nei confronti della res publica erano l'obbligo di servire nelle legioni e il pagamento dei tributi.

Ma come si accedeva alla cittadinanza?

Era cittadino chi nasceva da giuste nozze tra padre e madre entrambi Romani, o tra padre Romano e madre latina/peregrina (a patto che avesse il diritto di connubio).

Se il figlio non nasceva da nozze legittime seguiva la condizione della madre.

Diveniva cittadino anche chi si fosse guadagnato, per merito, questo status; questa assegnazione poteva essere concessa ad un singolo come ad una comunità.

Con la Repubblica, Roma, comincia la sua fase di espansione verso le zone circostanti dell'Italia e la cittadinanza diviene il discrimine per i rapporti con gli stranieri; i romani crearono delle nuove condizione giuridiche, subordinate a quelle del cives romanus. L'Urbe si mosse con molta cautela nell'affrontare i problemi legati alla conquista, perché non voleva introdurre ai benefici della cittadinanza popoli non ancora completamente romanizzati; soprattutto non voleva renderli partecipi delle decisioni dell'assemblea. Impose quindi la civitas sine suffragio: è un tipo di cittadinanza, concessa ai popoli di nuova acquisizione, che non implica il diritto di voto e escludeva chi la deteneva dalla partecipazione politica e dall'accesso alle magistrature, ma prevedeva il sottostare agli obblighi militari e al pagamento dei tributi come i cittadini a pieno diritto.

A fianco alla civitas sine suffragio si pone la condizione di Latino, della quale, in età repubblicana, godono i Prisci Latini, gli Ernici e i Latini coloniarii.

I Latini fruivano di proprie leggi, dovevano contribuire con denaro e uomini alle campagne militari romane, ma avevano dei privilegi derivanti dal diritto romano: godevano dello ius connubii, dello ius commercii (sia tra loro che con i Romani) e, soprattutto, dello ius migrandi.

Quest'ultimo molto importante poiché decretava che chiunque si trasferisse a Roma potesse richiedere, e ottenere, individualmente la cittadinanza all'atto delle operazioni di censimento. Condizione giuridica particolare è quella dei peregrini. Chiamati originariamente hostes,  non erano cittadini romani o latini, ma appartenevano a comunità straniere.

Lo straniero, in ogni caso, mancava di tutela giuridica a meno che non fosse coperto da un trattato internazionale tra Roma e la sua civitas o da un legame di ospitalità.

Il 242 a.C. segnò un momento di svolta nei rapporti tra romani e stranieri: venne istituito il pretore peregrino, con il compito di risolvere il contenzioso giudiziario tra le due parti. Tale istituzione fu l'effetto dell'estendersi del dominio di Roma sul Mediterraneo che portò, inevitabilmente, alla nascita di problematiche, sul piano del diritto, relative alle operazioni commerciali, ma anche all'aumento della popolazione straniera. La situazione cambiò nuovamente con l'avvento dell'impero, a partire, quindi, dal 27 a. C., quando Ottaviano venne investito del titolo di Augusto.

Ma chi erano i cittadini dell'Impero?

I metodi attraverso cui si può raggiungere lo status di cittadino non differiscono da quelli di età repubblicana: una persona può ricevere la cittadinanza per nascita o per manomissione. Per coloro che la ottengono per nascita, importante elemento di discrimine è il connubium; in una realtà in cui l'Impero si sta affacciando a popolazioni barbare, comprendere se il nascituro dovesse seguire la condizione del genitore cittadino o di quello straniero è fondamentale per restringere le maglie dell'ingresso ai privilegi derivati dallo status di cittadino.

In caso di nozze legittime, il nascituro avrebbe seguito la condizione del padre al momento del concepimento, in loro mancanza il nascituro avrebbe seguito la sorte del genitore che si fosse trovato nella condizione più sfavorevole, come deliberato dalla lex Minicia de liberis.

Differente è la questione che riguarda le manomissioni a causa della promulgazione, nel 4 d. C, della legge Aelia Sestia, disposta per contrastarne gli abusi. La legge stabilisce che coloro che si fossero macchiati di “turpitudini”, per crimini commessi o per aver combattuto contro Roma ed esservi poi sottomessi, rimanessero, dopo la manomissione, peregrini dediticii senza possibilità di raggiungere lo status di cittadini e fossero impossibilitati a risiedere entro cento miglia dall'Urbe. Nel caso che questa prescrizione non fosse rispettata, i trasgressori sarebbero stati venduti all'asta e privati della possibilità di essere manomessi. Quando Augusto raggiunse il potere promise ai cittadini dell'Impero che avrebbe riportato la pace. Questa parola, in politica interna, stava ad indicare la pacificazione sociale e l'equilibrio di potere e prestigio tra le diverse componenti dello Stato.

Più complesso era il significato del termine per quello che riguardava la politica estera dove la pax doveva essere conforme a quell'ideale imperialistico che aveva portato a identificare ogni realtà o come appartenente a Roma o come res nullius.

La pace doveva dunque trovare il suo compimento nella pax Romana  e quindi nelle regole dettate dall'Urbe.  L'imperialismo di Roma non si fermò e si mosse su tre aspetti importanti: riportare al rispetto di Roma i sudditi riottosi, rendere sicure le comunicazioni via terra e attestarsi su linee stabili di confine.

La costruzione dell'Impero prende il via dall'uso delle armi, ma, dietro l'invio degli eserciti, possono esserci due differenti visioni:

•    la prima vede l'esportazione della cultura e dei costumi romani come il secondo atto dell'azione di conquista, un'omologazione forzata agli standard romani;

•    la seconda vede quella stessa esportazione come “civilizzazioni delle popolazioni barbare”, distinguendo accuratamente la fase della conquista militare, da quella del riordinamento politico-amministrativo.

Le guerre erano quindi un mezzo per esportare la romanità.

Questo processo di romanizzazione rappresenta il fenomeno più grandioso che ci sia stato nella storia dell'umanità, configurandosi come la volontà di ridurre a unità politica e omogeneità culturale un complesso di popoli attraverso la forza delle armi, ma associati poi alle funzioni di governo, fino al punto quasi di cancellare l'originaria distinzione tra vincitori e vinti, sostituendola gradualmente in distinzione in classi sociali che andasse al di là di ogni diversità etnica o geografica.

In questo Roma fu facilitata dalla sua grande propensione di concedere la cittadinanza, annullando le ragioni della differenza originaria.

Il nerbo dell'Impero è costituito dallo status di cittadino romano, la cui diffusione capillare favorisce ovunque la dinamicità della politica e istituisce un connettivo fra le regioni dell'Impero e la capitale: la romanità è dunque  il principio di uniformità su cui l'Impero è fondato. Il processo di romanizzazione trovò il suo compimento nel 212 d. C. con la promulgazione, da parte dell'imperatore Caracalla, della Constitutio Antoniniana che estese la cittadinanza a tutti i popoli sotto il dominio di Roma, con l'esclusione dei dediticii aeli, ovvero quella parte della popolazione formatasi dopo la promulgazione della lex Aelia Sestia  ed in cui configuravano tutti quegli schiavi manomessi, ma che non potevano sperare di acquisire la cittadinanza. Questo provvedimento, tuttavia, non suscitò, in coloro che ne erano destinatari, particolari entusiasmi, forse perché la generalizzazione di questo status ne fece perdere valore, poiché rompeva la linea politica che Roma aveva fino a quel momento tenuto, considerando la cittadinanza come un favore riservato ad un'élite che però, proprio per questo, si innalzava sulla massa. I detrattori di questa legge non mancano; molti storici contemporanei ritengono che sia stato solo un provvedimento demagogico atto solo ad esaltare il potere dell'imperatore. Detrattori non mancano anche in antichità, uno su tutti Cassio Dione(4), che non esitò ad insinuare che il provvedimento non fosse nient'altro che un atto volto ad aumentare le entrate dello stato, estendendo anche ai peregrini, divenuti cives,l'obbligo di pagare le tasse sull'eredità. A prescindere dalle interpretazioni della legge c'è chi, come lo studioso tedesco Schultz, ha visto nell' Editto di Caracalla la possibilità di considerare l'Impero come una Nazione, rifacendosi ai principi giuridici relativi alla communis patria per l'omogeneità della vita culturale e materiale venutasi a formare nell'Impero. Il provvedimento rappresentò la fine della realtà imperiale come strumento di dominio di popolazioni vinte e l'assimilazione ad una nazione di stampo moderno, la cui eco nella storia sarà di esempio nei processi di formazione degli stati nazionali.

illustrazione Tommi 2.jpg

NOTE

1) Pòlis

2) Sicuramente risalente al periodo dei Tarquini, invece, il cambiamento da tribù gentilizie a tribù censitarie e all'introduzione di quelle territoriali.

3) L'intercessio o ius intercessionis è un concetto giuridico della Roma antica che implica   l'intervento di un soggetto politico in occasione di un atto compiuto da un altro soggetto, in genere un magistrato.

4) Lucio Cassio Dione (155-235 d. C) fu uno storico e senatore romano di lingua greca.

  

BIBLIOGRAFIA

 

•    Mindus P., Cittadini e no. Forme e funzioni dell'inclusione e dell'esclusione, Firenze university press, Firenze 2014.

•    Ricci C., Orbis in Urbe. Fenomeni migratori nella Roma imperiale, Edizioni Quasar, Roma 2005.

•    Poma G., Le istituzioni politiche del mondo romano, il Mulino, Bologna 2002.

•    Valditara G., L'immigrazione nell'antica Roma: una questione attuale, Rubettino Editore, Soveria Mannelli 2015.

•    Brizzi G., Roma. Potere e identità dalle origini alla nascita dell'impero cristiano, Pàtron Editore, Bologna 2012.

•    Musti D., Storia greca. Linee di sviluppo dall'età micenea all'età romana, Editori Laterza, Bari 2006.

•    Desideri P., La romanizzazione dell'Impero, in Clemente G. Coarelli F. Gabba E. (a cura di), Storia di Roma Volume Secondo. L'Impero mediterraneo II. I principi e il Mondo, Giulio Einaudi Editore, Torino 1991

ILLUSTRAZIONI

Tommaso Debernardis

Bruno Sacella

IL PERCORSO DI ANNIBALE SULLE ALPI

Il percorso di Annibale

Annibale è considerato, probabilmente a ragione, come uno dei condottieri che seppe segnare la storia di Roma per la serie di sconfitte sanguinose ed umilianti che riuscì ad infliggerle.

Il momento in cui il cartaginese ha la possibilità di mostrare il proprio genio militare (e anche un po' della sua audace follia) nasce nelle ambiguità del trattato sulla divisione delle zone di influenza della penisola iberica. Cartagine e Roma stabiliscono il fiume Ebro come zona di confine reciproca, ma esiste una città che, pur restando sotto il fiume (zona cartaginese), è alleata di Roma: Sagunto. Annibale, che insieme a suo padre(Amilcare) ha giurato di non diventare mai amico di Roma, sfrutta questa opportunità per infierire un colpo umiliante ai romani e assedia Sagunto per otto lunghi mesi. Nel frattempo Roma non interviene: non può difendere Sagunto perché sta combattendo in Illiria e in ogni caso Annibale ha effettivamente ragione sulla disputa. Questo non è da sottovalutare: i Romani sono abbastanza ossessionati dal voler condurre una “guerra giusta”, anche se in futuro questa loro visione cambierà.

Questo non impedisce a Roma di iniziare il conflitto: conclusa la guerra in Illiria, i Romani mandano un proprio diplomatico a Cartagine, esigendo di farsi consegnare Annibale. L'ambasciatore afferma: “Ho nelle mie mani pace e guerra. Cosa scegliete?”. Il consiglio cartaginese invita l'ambasciatore stesso a scegliere. Quest'ultimo conclude: “Allora scegliamo la guerra.” Così tra le due potenze inizia quel secondo conflitto che vedrà Roma messa alla prova come mai prima di allora.

Dopo aver affrontato i Romani in Spagna, nel 218 a.C. Annibale compie una mossa così apparentemente stupida che nessuno se la sarebbe mai immaginata: varcare le alpi col suo esercito.

Il generale fa marciare le sue truppe, cavalli ed elefanti inclusi, attraverso un passo delle Alpi per poter colpire di sorpresa il cuore della penisola italica e, allo stesso tempo, portare la guerra nel territorio del nemico. I due luoghi di scontro principali del conflitto sono la penisola iberica, scelta da Roma, e la penisola italica, scelta da Annibale.

I Romani vedono le Alpi come una barriera invalicabile.

Non hanno idea di chi abbiano contro.

La maggior parte delle conoscenze che abbiamo sull'attraversamento delle Alpi sono fonti prese dagli scrittori Polibio (200a.C.-118 a.C.) e Livio (59 a.C-17 d.C.).

Segue quindi una sorta di riassunto delle affermazioni comuni dei due scrittori.

 

Mentre sale dalla valle del Rodano in Gallia, l'armata cartaginese è disturbata e attaccata da tribù montane che, avendo buona conoscenza del territorio, compiono imboscate e cercano in generale di portare disordini. Durante la fase di discesa i Cartaginesi sono attaccati relativamente poco, ma il vero pericolo sono i monti stessi: le Alpi sono molto più ripide dal versante italiano, inoltre il passaggio è stretto e circondato da precipizi.

“A causa della neve e dei pericoli del percorso,[Annibale] perse quasi tanti uomini quanti nella salita” scrive Polibio. “In quanto nè gli uomini nè gli animali potevano essere sicuri di dove passare a causa della neve, chiunque finisse sul bordo del percorso o inciampasse perdeva l'equilibrio e cadeva dai precipizi.”

Dopo un lungo percorso l'esercito raggiunge un sentiero apparentemente impossibile da superare, ben descritto da Livio: “Uno stretto pendìo che cadeva a perdita d'occhio, così profondo che perfino un soldato in armatura leggera sarebbe a malapena riuscito a scendervi, tastando il percorso e aggrappandosi a cespugli e ceppi che eventualmente si presentassero.”

“Il percorso era troppo stretto perchè gli elefanti o anche gli animali da carico potessero passarci” scrive Polibio. “A questo punto i soldati persero il proprio coraggio e si avvicinarono alla disperazione.”

Annibale tenta una deviazione sulle pericolose pendici a lato del sentiero, ma neve e fango glielo impediscono. Per procedere si inizia la costruzione di una strada con il pietrisco e dopo un lavoro massacrante uomini, cavalli e muli scendono giù per il pendìo e sotto la parte innevata.

Infine, citando ancora Polibio, Annibale “riuscì a far passare anche i suoi elefanti, ma gli animali erano ormai in condizioni miserabili dalla fame”.

La fretta è inevitabile durante l'attraversamento delle Alpi: il rischio di perdersi è costante e l'esercito deve raggiungere la penisola entro l'inizio dell'inverno.

L'impresa riesce, ma un costo altissimo.

Annibale perde due terzi del suo esercito:

dei 98'000 uomini iniziali rimangono solo 27'000 all'arrivo nella penisola italica.

Ma dove sarebbe passato Annibale di preciso? È argomento di contesa dai tempi di Polibio e Livio. Gli storici del Novecento ne hanno discusso e perfino Napoleone, grande estimatore di Annibale, ha espresso le proprie opinioni al riguardo. La controversia sta ancora andando avanti un secolo dopo.

Alcune autorità avrebbero proposto una via a nord, oltre Grenoble e attraverso due passi oltre 2000 metri d'altezza. Altri hanno optato per una via piú meridionale, attraverso il Col de la Traversette (la via più alta, oltre 3000 metri). Oppure il percorso includerebbe entrambi gli itinerari, partendo da nord per poi passare a sud e tornare nuovamente a nord: dopotutto Annibale perse del tempo per trovare la strada giusta.

 

Il percorso sud è proposto negli anni '50-'60 da Sir Gavin de Beer, direttore del Museo Inglese di Storia Naturale, che sull'argomento pubblica ben 5 libri. De Beer cerca di unire i testi degli autori classici per ottenere una prova geografica affidabile. Un altro studioso sulla questione è il professor Mahaney, che vede de Beer come il pioniere in questa indagine.

Mahaney si sposta sul luogo stesso per ottenere informazioni e comparazioni visive. Sia Livio che Polibio affermano che lo stallo nel percorso di Annibale è stato causato da una frana di rocce. Polibio, che ha ottenuto le proprie informazioni intervistando alcuni dei sopravvissuti dell'armata di Annibale, descrive la frana nel dettaglio: afferma che consisteva in due strati, uno recente sopra uno più antico. Nel 2004 Mahaney, grazie a investigazioni sul luogo e foto satellitari, realizza che effettivamente solo il Col de la Traversette ha delle frane sopra lo strato di neve abbastanza grandi da permettere un impedimento simile.

Gli elefanti sono un immenso fardello:

servono tre giorni per farli passare attraverso la frana.

Ci sarebbe inoltre una vecchia e ripida strada di macerie che porta fuori da questo passo:  che sia la strada costruita dagli uomini di Annibale? Nel 2010 Mahaney e i suoi collaboratori hanno scoperto una frana divisa in due strati nello stesso passo, che sembrerebbe quindi confermare le informazioni di Polibio...soprattutto perchè non ci sono altre frane simili negli altri colli.

Per ottenere prove ancora più decisive il team del professore ha esplorato una zona acquitrinosa, a 2580 metri e proprio sotto il Col de la Traversette. È uno dei pochi luoghi in cui l'esercito di Annibale avrebbe potuto riposarsi, anche per il suolo fertile con vegetazione disponibile per cavalli e muli. Dopo aver scavato nel pantano è stata trovata una grande quantità di fango, causata da una altrettanto grande quantità di movimento: forse proprio l'esercito di Annibale. Questo fango è stato datato in laboratorio e l'età dello strato è molto vicina al 218 a.C.; i materiali trovati all'interno sono in parte sterco di cavallo e i microbiologi nel team hanno trovato delle uova di tenia del relativo animale. Chris Allen, uno di questi microbiologi e grande collaboratore di Mahaney, afferma: “Ci sarebbe anche la possibilità di trovare un uovo di tenia di elefante” e conclude: “Questo ritrovamento sarebbe la pentola d'oro alla fine dell'arcobaleno, è un peccato che tale pentola d'oro non sia altro che cacca”.

 Stefano De Gioia

 

 

Bibliografia:

 1)RODAN: La traversata di Annibale sulle Alpi

 2) The Guardian News: The truth about Hannibal’s route across the Alps

3) Montanelli I.: Storia di Roma, Rizzoli, Milano, 1969

ROBERT ROGERS E LA GUERRA FRANCO-INDIANA

L’Appendice nordamericana della guerra dei sette anni vista attraverso il suo diario

Con quest’articolo vorrei provare a raccontarvi alcuni aspetti della guerra franco-indiana attraverso una prospettiva inconsueta. Attraverso l’analisi di alcuni passi del diario Robert Rogers, figlio di immigrati scoto-irlandesi dell’Ulster stabilitisi nel Massachusetts nei primi decenni del XVIII secolo che servì con il grado di maggiore all’interno dell’esercito inglese durante l’appendice nordamericana della Guerra dei sette anni (1756-63), cercherò quindi di mettere il lato quotidiano della guerra e, in particolare, delle azioni di guerriglia condotti da questo personaggio e dai suoi rangers a danno del nemico francese.

La Guerra franco-indiana: un’introduzione

 

Prima di affrontare in modo esaustivo l’esame degli elementi interessanti del diario di Rogers, è necessario fornire un breve quadro introduttivo che illustri entro quali dinamiche storiche venne redatto il suddetto documento.

Robert Rogers

Immagine 1. Il Nord America allo scoppio della guerra franco-indiana 

 

 

A partire dagli ultimi decenni del Seicento, l’espansione coloniale in Nord America di Francia e Gran Bretagna aveva generato un costante stato di tensione tra queste due potenze, che nella prima metà del XVIII secolo (in concomitanza con le principali guerre di successione in atto in quel momento storico) sfociò in aperti conflitti militari per il controllo delle principali aree strategiche per il commercio di pellicce con l’interno del continente.

Con il Trattato di Utrecht (1713), che pose fine alla Guerra di successione spagnola, la Francia di Luigi XIV si era vista costretta a cedere al rivale inglese l’Acadia, l’isola di Terranova e a rinunciare alle sue pretese sui territori della Compagnia della Baia di Hudson. Non solo, la Gran Bretagna con il suddetto trattato si vide riconosciuta dalla controparte francese la possibilità di commerciare senza alcun ostacolo con i nativi nordamericani della regione dei Grandi Laghi.

Nei decenni a seguire la penetrazione di coloni inglesi nella valle dell’Ohio ‒ un territorio che i francesi consideravano proprio in virtù del fatto che era stato esplorato nel 1669 da René Robert.

 

Cavelier de La Salle ‒ contribuì ad accrescere lo stato di attrito tra le due potenze europee. In una prima fase la Francia tentò di mantenere il controllo su quest’area, che rappresentava un importante snodo per il commercio delle pellicce tra la regione dei grandi laghi e i possedimenti francesi del Canada e della Louisiana, attraverso la costruzione di una serie di forti lungo i principali assi di comunicazione. Di fronte alla sempre più preponderante presenza anglofona, tuttavia, nel 1754 i francesi supportati dalle popolazioni di nativi a loro legate da profondi e antichi rapporti commerciali iniziarono a svolgere una costante azione di guerriglia a danno degli insediamenti inglesi.

L’anno successivo giunsero perciò dalla Gran Bretagna truppe dell’esercito regolare con lo scopo di procedere alla conquista di Fort Duquesne, la principale installazione militare francese nella valle dell’Ohio. Questo contingente, tuttavia, fu completamente decimato in un’imboscata tesa dai franco-indiani.


Fino al 1756 gli scontri armati furono di ampiezza limitata, solo quando la guerra tra Gran Bretagna e Francia fu ufficialmente dichiarata con lo scoppio in Europa della Guerra dei sette anni (1756-63), le operazioni militari in Nord America assunsero un rilievo operativo maggiormente significativo. Nelle stesso anno, infatti, arrivò in America il generale Louis-Joseph de Montcalm, a prendere il controllo delle truppe francesi con nuovi rinforzi. Questo permise ai francesi di prendere l'iniziativa tanto che venne assediato e conquistato Fort Oswégo, e unica base inglese sul lago Ontario, che ostacolava la comunicazione tra Fort Niagara e Montréal. L'anno successivo il teatro delle operazioni si spostò sul lago George, dove sorgeva Fort William Henry che fu anch’esso assediato e conquistato.

Immagine 2. Le operazioni militari della guerra franco-indiana

 

Sull'onda emotiva delle sconfitte in terra americana, il ministero della guerra inglese fu affidato a William Pitt il Vecchio. Con l'avvento di quest’ultimo le operazioni militari in terra americana subirono un netto rovesciamento. Dalle sconfitte degli anni precedenti si passò, infatti, a una lenta ma costante ripresa a favore della Gran Bretagna. Questo perché Pitt, convinto che l'Inghilterra dovesse dirigere i propri sforzi primariamente nella costruzione di un impero d'oltremare, evitò di impegnare eccessivamente la Gran Bretagna nel teatro europeo della Guerra dei sette anni, concentrandosi sulle campagne coloniali e il dominio dei mari.

Questo nuovo indirizzo strategico e politico fece sì che a partire dal 1758 le sorti del conflitto tra Gran Bretagna e Francia in America iniziassero lentamente a ribaltarsi a favore della prima.

Gli inglesi passarono all'offensiva attaccando Fort Carillon, che nonostante i ripetuti assalti, resistette mentre venne espugnato Fort Duquesne e distrutto Fort Frontenac. Nello stesso anno fu conquistato il porto di Louisburg, in Acadia, importante base navale francese, che bloccava l'accesso via mare a Quebec.

Nel 1759 le offensive inglesi non si arrestarono. Venne conquistato Fort Niagara ‒ che determinò la relativa perdita da parte francese dell’asse di comunicazione tra il Canada e la Louisiana ‒ come anche Fort CarillonFort Saint Frédéric, abbandonati dai francesi per poter difendere le città di Montreal e Quebec dalla minaccia britannica. Al termine dell’estate, dopo un lungo assedio, proprio quest’ultima si arrese agli inglesi. Durante l'inverno, i francesi tentarono di riconquistarla prima che in primavera potessero arrivare via nave i rinforzi inglesi, bloccati a causa del San Lorenzo ghiacciato, ma fallirono e questa fu la loro ultima offensiva. L'anno successivo, infatti, si arrese anche Montreal.

Con il 1761 la guerra franco-inglese nello scenario americano poteva dirsi conclusa. La Pace di Parigi del 1763 pose fine al conflitto e segnò il passaggio di tutto il territorio della Nuova Francia in mano inglese e quindi la sostanziale espulsione dei francesi dal Nord America.

La guerra franco-indiana vista attraverso il diario di Robert Rogers

A causa dei limiti imposti al suddetto lavoro, si è scelto di limitare l’analisi al solo anno 1756 e non al diario completo, che abbraccia un periodo di tempo più lungo che va dal 1755 al 1761.(1)

La decisione di limitarsi al suddetto anno scaturisce dal fatto che esso costituì il primo punto di svolta della guerra in Nord America tra Gran Bretagna e Francia. Come si è visto pocanzi, infatti, il conflitto cominciò a prendere una nuova fisionomia, che si sarebbe chiarita completamente l’anno successivo: non più una guerra tra colonie anglo-americane e franco-canadesi, combattuto in massima parte da truppe provinciali ma una guerra imperiale tra due potenze europee, combattuta sì nelle colonie ma con metodi tradizionali e truppe regolari, in cui l’apporto locale sarebbe stato sempre più limitato a compiti di esplorazione, raccolta d’informazioni e guerriglia.

Immagine 3. Robert Rogers in un’illustrazione d'epoca

In servizio con il grado di capitano tra i ranghi della milizia del New Hampshire al momento dell’avvio delle ostilità nel 1754, Robert Rogers incominciò a distinguersi all’interno dello scenario bellico a partire dalla tarda estate del 1755.

 

A seguito della defezione degli esploratori mohawk infatti, gli venne affidato l’incarico di sostituire con la sua compagnia ‒ composta da uomini nati e cresciuti lungo la frontiera ‒ i nativi nella raccolta di informazioni circa la forza e i movimenti del nemico. Nello svolgimento di tali mansioni non rare furono le occasioni di compiere vittoriosi raid in territorio canadese, che contribuirono a costruire la sua fama di soldato perfettamente in grado di tenere testa alle ben più blasonate squadre franco-indiane di guerriglieri.

 

Dalla lettura del diario si evince che fin dai primi giorni del 1756, Rogers e i suoi uomini furono impegnati in una serie di ricognizioni nella zona del Lago George e Lago Champlain, con lo scopo di raccogliere informazioni circa l’andamento dei lavori di costruzione di Fort Saint-Frédéric, non disdegnando al contempo di compiere alcune imboscate alle truppe francesi nell’area.

Queste azioni gli valsero l’attenzione delle autorità coloniali e degli alti comandi anglo-americani, tanto che alla fine di marzo gli venne affidato il compito di formare un’altra compagnia composta da coloni abituati alla vita lungo la frontiera, e quindi a viaggiare e a cacciare. Alla metà di aprile i nuovi ranger erano pronti ad entrare in servizio e furono subito impiegati in diverse missioni di esplorazione e disturbo nell’area dei Forti Saint-Frédéric e Carillon.

Immagine 4.

Moderna raffigurazione

di Robert Rogers

Tra la fine di giugno e la metà di luglio Rogers e cinquanta dei suoi uomini furono impegnati in un’azione di ricognizione presso il Lago Champlain. Lì poterono osservare come nei forti francesi ferveva una grande agitazione (era il preludio all’attacco alla postazione inglese sul Lago Ontario: Fort Oswégo) e come il movimento via fiume di contingenti fosse consistente. Fatti alcuni prigionieri per fornire maggior rilievo alla sua testimonianza, ritornarono quindi immediatamente in territorio anglo-americano per riferire quanto osservato.

Al termine di quest’ultima spedizione Rogers chiese e ottenne il permesso di arruolare una terza compagnia di ranger, ma le successive spedizioni non furono altrettanto fortunate. Le pesanti offensive francesi di quell’estate unite alla scarsa incisività di queste ultime contribuirono a far crescere negli alti quadri dell’esercito l’insoddisfazione nei confronti delle unità di ranger guidate da Rogers. Solo in autunno inoltrato, alcune proficue spedizioni di esplorazione, compiute sempre nella zona dei forti Saint Saint-Frédéric e Carillon, gli diedero modo di ribadire il ruolo cruciale delle sue unità grazie alla buona impressione che diedero di sé agli ufficiali dell’esercito regolare che li accompagnarono in tali missioni.

Questo fatto permise ai ranger di rimanere attivi e continuare a svolgere un ruolo di primo piano nel corso dell’inverno 1756-57 (ma poi anche nel corso dei restanti anni di guerra), mentre le truppe regolari si trovavano nei loro quartieri invernali in attesa della stagione propizia per riprendere le operazioni.(1)

I Diari del maggiore Robert Rogers furono pubblicati per la prima volta a Londra nel 1765 per conto dell’autore da J.  Millan, libraio presso Whitehall.

Il testo, essendo scritto utilizzando un tempo verbale passato, è sicuramente frutto di una rielaborazione postuma di appunti e carte redatte tra ‹‹foreste, picchi e monti, nella fretta, la confusione e il clamore della guerra, e nell’abbattimento, naturale conseguenza di fatiche spossanti››(2).

Data la grande popolarità acquisita da Roberts sia nelle colonie inglesi del Nord America sia in Gran Bretagna durante la guerra, come egli stesso afferma nell’introduzione a tale opera, il diario è pubblicato soprattutto con lo scopo di trarne un vantaggio economico personale dalla vendita.

Tenendo presente queste due considerazioni generali, l’opera può tuttavia essere considerata una fonte sicuramente certa e attendibile per affrontare uno studio delle dinamiche della guerra “quotidiana” nelle aree di contatto tra inglesi e francesi ‒ la catena montuosa degli Appalachi-Allegheny e la Valle dell’Ohio ‒ durante la Guerra dei sette anni. Una quotidianità della guerra che era fatta di scaramucce, scontri fra pattuglie, azioni di guerriglia e missioni di esplorazione in territorio nemico, e che costituisce il sostrato dei grandi eventi bellici.

Tra i compiti che Roberts con i suoi ranger era tenuto a compiere, ed egli lo afferma apertamente nel diario, c’era il ‹‹fare il possibile per tormentare i francesi e i loro alleati indiani, saccheggiando, incendiando e distruggendo le loro case, i granai, le baracche, le canoe, i bateaux, ecc., e uccidendo qualsiasi genere di bestiame, e tentare di attirare in trappola, attaccare e distruggere i convogli di rifornimento, sia di terra che di acqua, dovunque gli fosse possibile scovarli››(4). E all’interno dell’estratto letto, sono diverse le azioni che sottostanno a questa logica; particolarmente significativa è quella che Rogers e i suoi uomini tentano di attuare nell’estate del 1756: penetrare in territorio canadese e incendiare il maggior numero possibile di campi di grano, che in quel momento erano pronti per la mietitura.

Tra i compiti dei ranger rientrava poi la cattura di prigionieri, possibilmente soldati o uomini legati in qualche modo all’ambiente militare francese. In questo modo, i dirigenti dell’esercito inglese in Nord America cercavano di ottenere informazioni precise circa le intenzioni del nemico. Data la scarsità di mezzi a loro disposizione, era molto difficile, infatti, per entrambi gli schieramenti, controllare capillarmente tutta la linea di confine in un territorio così vasto e reso impervio dalla presenza di fitte foreste. (5)

Immagine 5. Moderna raffigurazione di un Rogers’  Ranger

Vitale per i generali di entrambe le parti in guerra, era poi determinare la consistenza numerica delle guarnigioni dei vari forti disseminati nei punti strategici lungo il confine, della dotazione di artiglieria ivi presenti e del buono, o meno, approvvigionamento di materiale bellico e scorte alimentari. Questo (almeno per la parte inglese, da quanto traspare dal diario di Rogers) per prevenire e contrastare efficacemente eventuali offensive francesi (cosa che, come si è visto in precedenza, per il 1756 non accadde) e per dirigere le proprie nei punti meno controllati. (6)

 

Elemento interessante, legato a quest’operazione d’intelligence, che emerge dalla lettura del testo è il fatto che dall’interrogatorio di un prigioniero francese si riesce a venire a sapere che poco prima in Canada erano giunte dalla Francia truppe regolari a rinforzare il contingente già lì presente, e che una epidemia di vaiolo aveva colpito numerose colonie francesi nell’inverno precedente, portando una gran rovina. (7)

Sempre dal diario emerge poi che una parte dei rangers era utilizzata anche per scortare e dare protezione ai convogli di rifornimenti inglesi e agli acquartieramenti dell’esercito dalle analoghe formazioni franco-indiane. (8)

La collaborazione bellica tra europei e nativi, soprattutto in ambiti come quelli di esplorazione e guerriglia, è un altro tema che compare con una certa sistematicità nel documento analizzato e che colpisce soprattutto per il numero elevato di nativi coinvolti direttamente nel conflitto. (9) In particolare alle stesse compagnie di Rogers vengono aggregati durante l’estate del 1756 diversi elementi  nativi appartenenti al gruppo etnico degli Stockbridge, precedentemente inquadrati in altri reparti dell’esercito inglese, di cui però lo stesso comandante dei ranger si lamenta per il loro “barbaro” costume di prendere lo scalpo ai nemici. (10)

Ultimo elemento interessante estraibile dal documento è legato al carattere difficile della vita di un ranger. Prima di tutto per il fatto di dover operare in un contesto inospitale come le foreste del Nord America, ai margini delle zone civilizzate. Emblematico in questo senso può essere l’episodio riportato da Rogers nel suo diario di un ranger della sua compagnia che durante una missione si perde e torna solo molto giorni dopo il loro rientro alla base operativa, stanco e affamato. E inoltre per tutti i pericoli legati alla situazione e al contesto bellico. Tutti gli spostamenti dovevano avvenire nella massima discrezione per evitare di essere scoperti dal nemico. Nel testo esaminato, per esempio, si trova scritto che un giorno Rogers e i suoi uomini decisero di non attraversare un lago di notte perche la luna piena gli avrebbe resi pericolosamente visibili (11). Spostamenti che d’inverno erano resi notevolmente più difficili a causa dell’abbondanza di neve dovuta alla natura rigida del clima nord americano, mentre nei periodi primaverili ed estivi potevano essere usate le vie d’acque naturali. Anche se in quest’ultimo caso si poteva rendere necessario il trasporto a spalla delle canoe utilizzate, se non si individuava un nascondiglio soddisfacente o si prevedeva di doverle utilizzare nel proseguo della marcia in uno specchio d’acqua diverso da quello di provenienza. (12)

 

Collaboratore: Filippo Astori

 

NOTE

1. Non sarà riportato il testo integrale né dell’estratto scelto, né del diario completo. Per entrambi si faccia riferimento a CODIGNOLA L., Guerra e guerriglia nell’America coloniale. Robert  Rogers e la guerra dei sette anni (1754-1760), Marsilio editori, Venezia, 1977

2. Ibid., pp. 42-51 e pp. 125-138

3. Ibid., p. 119

4. Ibid., p.127

5. Ibid., p.129 e p.132

6. Ibid., p. 137

7. Ibid., p. 132

8. Ibid., p.135

9. Ibid., p. 126 e p. 128

10. Ibid., p. 132

11. Ibid., p. 130

12. Ibid., p. 130 e p. 136

 

BIBLIOGRAFIA

·         CODIGNOLA L., Guerra e guerriglia nell’America coloniale. Robert  Rogers e la guerra dei sette anni (1754-1760), Marsilio editori, Venezia, 1977.

·         FUSSEL M., La guerra dei sette anni, Il Mulina, Bologna, 2013

·         VERDOGLIA F., La guerra franco-indiana 1754-1763: storia militare degli eserciti assolutistici, come combattevano, organizzazione, insegne, tattiche di guerra ed armi, Chillemi, Roma, 2010 

 

FONTE IMMAGINI

1. http://cdn-media-ie.pearltrees.com/a9/2c/e0/a92ce0917e8a8d04df4009b4af92689e-l.jpg

2. https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/9/9c/French_and_indian_war_map.svg/745px-French_and_indian_war_map.svg.png

3. https://en.wikipedia.org/wiki/File:RobertRogers.jpeg

4. https://static.seekingalpha.com/uploads/2013/8/957061_13778719395891_rId6.jpg

5. http://www.acidus.com/images/ranger.gif

L’ETÀ ELISABETTIANA 1558-03, UN'ETÀ DI CAMBIAMENTI

«La grandezza della Gran Bretagna con la sua immensità di traffici, della potenza e della quantità di territori, soggetti all’Impero che la Corona Britannica attualmente possiede per effetto delle imperiture fatiche di uomini come Drake, Raleigh, Frobisher, Hudson, Penn ed altri, è stata scritta anche grazie alla moltitudine di esploratori, navigatori e pirati, che in quest’epoca attraversarono l’Atlantico per la gloria della sovrana inglese e della patria»(1).  È con queste parole che Daniel Defoe ci introduce brevemente nelle sue opinioni e nei suoi studi riguardanti l’età elisabettiana. Sebbene il noto scrittore sia vissuto ed abbia operato circa un secolo dopo tale epoca egli stesso conferma che questo periodo fu fondamentale per raggiungere la grandezza dell’Impero Britannico. La quale venne garantita anche grazie alla moltitudine di navigatori, pirati, corsari ed esploratori che operarono durante il regno di Elisabetta I.

Fu un’età fondamentale per la storia inglese perché proprio in quel periodo ebbe inizio la scalata che portò la Gran Bretagna a  non essere più una potenza di secondo rango, ma la dominatrice di un quinto delle terre emerse.

All’alba dell’età elisabettina l’Inghilterra non vantava alcun ruolo significativo sullo scacchiere delle potenze europee. La scena politica internazionale, in Europa, era dominata da entità continentali come la Spagna,  la Francia e l’Impero Asburgico.

Elisabetta I 

Elisabetta I

La Francia, invece, aveva già raggiunto l’unità nazionale con la conclusione della guerra dei cent’anni (1453), creando anche una sorta di “coscienza nazionale”, trasformando il conflitto secolare in una guerra di “liberazione nazionale” contro gli invasori inglesi. Dopo di che si era tramutata nell’antagonista delle Guerre d’Italia (1494-1559) contro l’Impero degli Asburgo.

L’Impero aveva raggiunto la sua massima espansione con Carlo V, il quale però aveva mancato due suoi importanti obiettivi: “guidare la cristianità” mantenendola unita «nella giustizia e nella fede»(2)(Ago e Vidotto pag 55) e ottenere una vittoria definitiva contro la Francia di Francesco I; iniziò così una lenta discesa che terminò un secolo più tardi con la Guerra dei trent’anni e la definitiva eclissi dell’Impero stesso.  

Questo fatto permise ai ranger di rimanere attivi e continuare a svolgere un ruolo di primo piano nel corso dell’inverno 1756-57 (ma poi anche nel corso dei restanti anni di guerra), mentre le truppe regolari si trovavano nei loro quartieri invernali in attesa della stagione propizia per riprendere le operazioni.(1)

 

 

 

Rappresentazione dello scenario europeo

In questo panorama politico generale l’Inghilterra non rappresentava di certo un leone ruggente. La corona inglese non aveva né le strutture fiscali, né un esercito di funzionari che le garantissero entrate costanti, come invece aveva la Spagna, trovandosi così mancante di un esercito e di una flotta con cui poter competere contro lo strapotere spagnolo. L’economia del paese era piuttosto arretrata, per non parlare delle scarse risorse che poteva vantare l’isola. Uno dei pochi punti di forza storici in tal senso era la lana, che veniva esportata allo stato grezzo per essere lavorata altrove; questo settore conobbe la nascita di industrie tessili all’inizio XIV secolo, le quali erano in grado di competere con quelle continentali producendo vesti e tessuti. La produzione tessile fu accelerata nel corso del XVI secolo, con la fabbricazione ed esportazione massiccia di panni inglesi, che sicuramente erano meno pregiati di quelli italiani e di quelli fiamminghi, ma avevano una grandissima diffusione grazie al loro prezzo, inferiore rispetto a quelli continentali, anche grazie al fatto che in questo secolo le manifatture italiane entrarono in crisi.

La conseguenza della crescita dell’industria tessile fu un mutamento delle condizioni di coltivazione e produzione agricola: grandi estensioni di territorio coltivato furono destinate al pascolo per l’allevamento ovino, con la conseguente necessità di riorganizzare e razionalizzare la produzione nelle porzioni di terra adibite alla coltivazione. Nello stesso tempo altre forme di industria osarono entrare in competizione con quelle europee: la ricchezza di materia prima determinò lo sviluppo dell’industria del ferro e della produzione legata a tale settore, cominciando da quella militare, con la produzione di cannoni in ferro su larga scala. Inoltre i cannoni britannici furono resi ancora più competitivi grazie ad un miglioramento tecnologico, ovvero la scanalatura, che permise una maggiore precisione. Tale perfezionamento rese in età elisabettiana i cannonieri britannici i più micidiali d’Europa per quasi un secolo, motivo non ultimo questo di innumerevoli successi inglesi sia per terra che per mare(2).

Lo sviluppo industriale portò inevitabilmente al progresso delle condizioni economiche, con aumenti delle importazioni, rendendo migliore il tenore di vita del paese. A questo fenomeno diedero il loro contributo numerose maestranze provenienti da altri paesi come Francia e Paesi Bassi, sia attratti dalla possibilità di nuovi guadagni, sia per sfuggire alle persecuzioni religiose; molti artigiani e lavoratori manuali si spostarono oltremanica trasferendovi anche l’industria del vetro, della seta e dell’orologeria. Il paese fu cosi portato naturalmente all’espansione oltremare, conseguenza del fatto che non solo i suoi mercati si allargarono, ma anche i suoi mercanti diventarono sempre più ricchi, portando così ad avere più capitali destinati all’investimento. In questo modo vennero fondate compagnie commerciali che si assumevano il rischio di spingersi in terre lontane, alla ricerca di nuove opportunità di mercato. Due chiari esempi sono la fondazione delle compagnie mercantili: la Compagnia della Moscovia e la Compagnia del Levante; la prima fondata nel 1555 riuscì a monopolizzare i traffici con un paese enorme come la Russia(3); la seconda fondata nel 1584 quando gli inglesi varcarono stabilmente lo stretto di Gibilterra, per recarsi nei porti del mediterraneo europeo e del vicino Oriente, sfruttando il conflitto tra spagnoli e turchi.

Questo continuo aumento di traffici e scambi delle merci comportò lo sviluppo della marina mercantile e degli stessi porti britannici, che divennero presto i migliori d’Europa scavalcando i porti baltici perché non rischiavano mai di rimanere bloccati dai ghiacci; invece rispetto ai porti spagnoli e francesi permettevano una maggiore circolazione dei prodotti, perché non limitati da vincoli di natura religiosa ed economica tipici dei paesi cattolici. Fu naturale che in queste condizioni di crescita la corona inglese non riconoscesse il trattato di Tordesillas, che dal 1494 aveva diviso il mondo in due zone di influenza: spagnola e portoghese. L’Inghilterra reclamava il diritto di varcare i mari per colonizzare e commerciare nelle Indie Occidentali e nelle Indie Orientali, non riconoscendo di fatto il monopolio iberico autorizzato da Papa Alessandro VI. Da qui deriva la tendenza degli esploratori inglesi di andarsene alla ricerca di nuove terre e di fondare colonie in America del Nord (con consenso regio): nel 1583 Humphery Gilbert cercò di stabilire un insediamento inglese sulle coste di Terranova(4), nel 1585 invece fu la volta di Walter Raleigh, che tentò di creare un avamposto britannico in Virginia (in onore alla regina Elisabetta). Entrambi gli esperimenti naufragarono, ma la determinazione inglese nel cercare di affermare la propria presenza nel nuovo mondo non venne meno, estendendola e consolidandola nei secoli successivi.

La corte di Elisabetta I 

Con una simile tendenza all’espansione fu dunque naturale o meglio “consequenziale”, arrivare ad un contrasto con la Spagna, la quale vedeva lesi i suoi interessi proprio nella sua sfera d’influenza. Non vanno neanche sottovalutate le questioni dinastiche né quelle religiose. Elisabetta Tudor era figlia di Enrico VIII ed Anna Bolena (di origine irlandese); i cattolici consideravano la sua successione illegittima, in quanto frutto di matrimonio tra scomunicati in stato di bigamia. Malgrado questo l’ascesa al trono di Elisabetta fu spalleggiata proprio dal re di Spagna Filippo II. Pur essendo stato sposato con la precedente regina Maria Tudor (la sanguinaria) per un breve periodo di tempo (1554-58), alla prematura morte di Maria Filippo perse i suoi diritti sul trono inglese e le carte furono rimescolate. Malgrado la sua fede protestante, il re di Spagna caldeggiò la successione di Elisabetta in quanto, se questa fosse stata deposta, al suo posto sarebbe stata messa sul trono Maria Stuarda regina di Scozia, che era sì cattolica, ma sposata con il re di Francia Francesco II; in questo modo si sarebbe creato un blocco cattolico anti-spagnolo in grado di competere proprio con la Spagna per quanto riguarda il monopolio della difesa della fede e per i diritti concessi dal papato, come quella spartizione del mondo in due sfere di influenza tanto invidiata da altri stati europei. Il sovrano spagnolo era talmente preoccupato da questa eventualità che chiese la mano di Elisabetta, la quale giocando d’astuzia fu brava nel tenere sulla corda il suo pretendente, senza mai in realtà accondiscendere alle sue richieste.

Filippo II re di Spagna

Filippo cominciò a ricredersi. Mano a mano che il tempo passava i suoi comportamenti verso l’Inghilterra e la sua regina, che continuava a temporeggiare, iniziarono a mutare diventando sempre più ostili. La situazione si aggravò quando Maria Stuarda, esule dalla Scozia, dove nel frattempo la maggioranza calvinista aveva avuto la meglio cacciando la regina, arrivò in Inghilterra diventando punto di riferimento del partito cattolico, guidato da potenti feudatari delle province settentrionali, che nel 1569 capeggiarono una fallimentare ribellione contro Elisabetta. Il fallimento della rivolta non fece cessare le trame, in cui era coinvolta Maria. contro la regina Tudor, fino a quando nel 1587 non fu condannata a morte per decapitazione. Con quell’atto Elisabetta non fu consapevole di aver cambiato per sempre il corso della storia, e nello specifico di aver dato il via ad una serie di eventi che porteranno un secolo più tardi alla “Gloriosa Rivoluzione”, nella quale il sovrano inglese del tempo verrà decapitato. L’obiettivo di Elisabetta era quello di rendere il paese completamente indipendente da ogni tipo di ingerenza cattolica e soprattutto spagnola. È in quest’ottica che bisogna guardare la scelta della fede protestante da parte della regina, non per convinzione religiosa, ma come instrumentum regni; contando sull’appoggio dell’ala moderata lealista in campo protestante varò il cosiddetto Act of Supremacy (legge di supremazia) nel 1563, con il quale la regina chiedeva di giurare lealtà alla corona inglese a chiunque occupasse posizioni pubbliche o nella Chiesa, in caso contrario chi non lo avesse fatto sarebbe stato accusato di tradimento. Furono riabilitati poi i riti religiosi soppressi da Maria la sanguinaria, ristabilendo il Book of Common prayper di Edoardo VI(5), scelta ribadita nel 1571 con l’approvazione dei 39 articoli sulla fede religiosa, con i quali la chiesa anglicana si riorganizzava su base episcopale. Di fronte agli ostacoli che incontrava nell’applicazione delle sue riforme, la sovrana non esitò a perseguitare gli estremisti di 

entrambi i fronti, sia cattolici che protestanti (puritani). Elisabetta da questo punto di vista fornì un tipico esempio di applicazione di governo machiavellico: pur temendo gli oltranzisti puritani li sfruttò appoggiandoli nelle ribellioni cattoliche irlandesi tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII(6); a dimostrazione del fatto che quella elisabettiana è un’età comunque piena di contraddizioni.

La riforma religiosa è di capillare importanza, perché permette di capire le trasformazioni sociali nei suoi equilibri e nelle sue gerarchie. Dopo la rottura dei legami con Roma la corona, adesso a capo della Chiesa inglese, non solo abolì il trasferimento delle rendite ecclesiastiche e negò la competenza del papa nelle nomine e nei benefici, ma incamerò anche tutti i possedimenti che la Chiesa di Roma aveva in Inghilterra(7). Vendendo poi tutte queste nuove terre a quella nuova élite non nobile ma ricca, venne a delinearsi un terremoto sociale che troverà il suo compimento solo nel secolo successivo con le rivoluzioni inglesi: le vecchie èlite che da più di un millennio tenevano in pugno l’occidente, attraverso una serie di privilegi ed ingiustizie che ha avuto il suo epicentro nel feudalesimo, furono costrette ad un ridimensionamento ed a una trasformazione complessiva che le costrinse a rinegoziare i rapporti con le nuove èlite emergenti.

Un altro aspetto fondamentale, che spesso si trascura, è l’identità nazionale.

Sebbene la guerra dei cent’anni abbia creato proprio una coscienza nazionale all’interno della popolazione d’oltremanica, l’età elisabettiana è fondamentale anche per tale processo. Questo è testimoniato da un’opera di Daniel Defoe “La vita e le imprese di Sir Walter Raleigh”, che basandosi sulla raccolta dei diari di viaggio del noto navigatore inglese scrive questo pamphlet  nel 1719 (posteriore all’età presa in esame e quindi con un occhio retrospettivo, ma comunque corretto dal punto di vista del lavoro di uno storico), a fine propagandistico, per esaltare la grandezza di sua maestà e dell’Inghilterra intera.

Certamente una guerra, come quella anglo-spagnola (1588-04) combattuta proprio dalla regina Elisabetta,  è il momento ideale per la nascita della coscienza nazionale di un paese, specialmente quando vi è un corpo esterno che attacca ed invade quella stessa nazione. I suoi abitanti vengono colti, anche per propaganda, da un sentimento di unione comune col fine di ricacciare gli invasori fuori dalla loro terra. In questo senso vengono certamente presi come riferimento anche i grandi navigatori, i pirati, i corsari e gli esploratori. Personalità forti che compiono grandi imprese in nome della nazione per cui operano e quindi universalmente riconosciuti dagli abitanti come eroi e così facendo vengono innalzati a simbolo della nazione, attorno al quale la popolazione si riunisce in nome delle grandi imprese nella speranza di emulare la gloria ed il successo della gente di mare, che non solo ha reso importante il nome inglese in tutto il mondo, ma ha anche inconsciamente dato il via all’era del dominio britannico dei mari e degli oceani.

Nicolò Zanardi

Maria Stuarda

Note

(1) D. Defoe, La vita e le imprese di Sir Walter Raleigh, a cura di Linda de Michelis, Palermo 1993, pp. 12

(2) R. Ago – V. Vidotto, Storia Moderna, Roma-Bari, 2010, pp.55

(2)  F. Troncarelli, Francis Drake. La pirateria inglese nell’età Elisabettiana, Roma 2002, p 16.

(3) P. Bushkovitch, Breve storia della Russia dalle origini a Putin, Torino 2013, pp. 61

(4) J.H. Elliott., Imperi dell’Atlantico. America britannica e America spagnola. 1492-1830, Torino 2010, pp.36-37

(5) R. Ago – V. Vidotto, Storia Moderna, Roma-Bari, 2010, pp.91

(6) F. Troncarelli, Francis Drake. La Pirateria inglese nell’età di Elisabetta, Roma 2002, p. 24

(7) R. Ago – V. Vidotto, Storia Moderna, Roma-Bari, 2010, pp.47       

LA GENESI DEI PROTOCOLLI DEI SAVI DI SION

In questo articolo si affronterà la vicenda, intricata e non del tutto rischiarata delle origini dei Protocolli dei Savi di Sion. Dall’agosto 1921 è ormai certo che i Protocolli sono un falso, un testo apocrifo fabbricato plagiando il Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquieu di Maurice Joly da antisemiti, con lo scopo di attribuire a una ristretta cerchia di ebrei (i Savi Anziani di Sion) – ma rappresentanti e governanti occulti dell’intero mondo ebraico – il diabolico piano di dominare il mondo.

Circa il luogo di prima redazione, l’esistenza o meno di un “originale” manoscritto in francese, l’anno e il perché furono scritti, gli studiosi non sono in completo accordo. Secondo una parte della storiografia, in particolare Cohn e Romano, i Protocolli furono fabbricati dal generale Rakovskij e dalla sezione francese dell’Ochrana, all’incirca intorno al 1897, certamente in Francia e con molta probabilità a Parigi. Per la storiografia avversa a questa ricostruzione, principalmente De Michelis, invece gli autori dei PSS furono dei giudeofobi russi, i quali fabbricarono il falso fra il 1902-03 a San Pietroburgo o comunque nell’Impero russo. Come si vede sorgono posizioni divergenti anche quando si tratta di individuare l’area politico-ideologica che ispirò e fece partorire i Protocolli: l’estrema destra antisemita russa, sotto le vesti della sezione parigina dell’Ochrana per Romano e Cohn, pubblicisti – poi attivisti politici russo-ucraini, per De Michelis.

Protocolli dei Savi di Sion

Ma quando e come tutto ebbe inizio? I Protocolli furono pubblicati, per la prima volta, nel settembre del 1903 su «Znamja» (La bandiera), un quotidiano di estrema destra pietroburghese, fondato nel febbraio dello stesso anno da Pavolakij Kruševan, giornalista antisemita di origine moldava. Un anno prima, il 7 aprile 1902 su «Novoe Vremja» (L’epoca moderna) Men’šikov ne parlava già in una sua rubrica.

I Protocolli sorgono in un contesto storico ben preciso, il 1903 è l’anno in cui Sergey Witte diventa Presidente del Comitato dei ministri dopo una carriera decennale come ministro delle finanze. Non fu un ministro di secondaria importanza: sovrintendente alla ferrovia Transiberiana, uomo di Stato di grandi qualità, favorì il processo di industrializzazione della Russia attirando capitali esteri, soprattutto francesi. Prerequisito di ciò fu il raggiungimento di una certa stabilità finanziaria, favorita con l’introduzione del Sistema aureo, «ma questo rapido decollo economico recò gravi danni a quelle classi il cui benessere era legato al sistema tradizionale basato sull’agricoltura: e in questi ambienti Witte era detestato». Nel 1898 ci fu una grave crisi economica che provocò ingenti danni anche ai favoriti dalla politica di Witte, forti pressioni furono esercitate su quest’ultimo affinché ricorresse all’inflazione (e quindi abbandonasse il sistema aureo), ma resistette e divenne sempre più impopolare.

Witte non poteva essere ammirato né da Men’šikov – che fu, tra l’altro, uno dei fondatori dell’«Alleanza nazionale Panrussa», movimento monarchico antiebraico – né da Kruševan, il quale istigò nel 1903 il pogrom di Kišinëv e fu presidente dell’Alleanza del popolo russo di Bessarabia.

I PSS furono scritti in francese a Parigi?

La tesi della stesura originaria in francese è condivisa dalla maggior parte degli “zelatori” e dei numerosi critici dell’autenticità dei PSS. De Michelis dissente e osserva che «l’esame del testo russo pone delle difficoltà difficili da superare» a cominciare dallo stesso titolo dell’”opera”: Protokoly Sionskich Mudrecov (protocolli, verbali). Essi, come osservò già Nilus, non sono verbali, bensì, appunti, resoconti, in russo non traducibili con protokoly, «evidentemente, il carattere alloglotto del termine doveva suggerire fin dal titolo che si trattava di cosa tradotta1».

Oltre a forme caratteristiche russe di cui è difficile immaginarne il corrispettivo originale in francese, e la sua stessa necessità 2, due considerazioni complessive porterebbero ad escludere che si tratti di una traduzione:

la presenza nello strato più alto del testo dei doppioni tra cui il compilatore non aveva ancora scelto (spesso abbastanza distanti o per escludere che si tratti di due diverse rese del medesimo termine) e la successiva libertà di rielaborazione (con aggiunte, modifiche, tagli e aggiustamenti) già avvertibile il A1 e B ma particolarmente marcata in A2 e N.

Numerosi elementi che Cohn adduce per datare i Protocolli al 1897-98, come il riferimento, alla fine del XVI protocollo al piano per instupidire i gentili in cui si afferma che «uno dei nostri migliori agenti in Francia è Bourgeois; egli ci ha introdotto il nuovo metodo d’insegnamento dimostrativo». Lèon Bougeois, figura politica avversata dall’estrema destra francese, «aveva parlato spesso in favore di un sistema di insegnamento per mezzi di dimostrazioni pratiche», nel1898 divenne ministro dell’Educazione e si attivò in proposito.

Nel X protocollo gli Anziani affermano che predisporranno «le cose in modo che siano eletti alla carica di presidente [della Repubblica] individui bacati che abbiano nel loro passato uno scandalo tipo “Panama”.» Si allude sicuramente ad Emile Loubet, primo ministro francese nel 1892 durante il culmine dello scandalo di Panama, «non mostrò nessuna fretta di fare un’inchiesta su quelli che vi erano implicati, e questo lo rese sospetto.» Nel 1895 divenne presidente del Senato e nel 1899 della Repubblica, «il passaggio nei Protocolli potrebbe essere stato ispirato dall’uno o dall’altro di questi episodi» e, in effetti, Cohn pone il 1899 come estremo prima del quale sarebbero stati realizzati i Protocolli. De Michelis aggiunge che in Russia, probabilmente, l’argomento di «Panama» si impose solo nel maggio 1902 – quando in occasione della visita di stato a Pietroburgo da parte di Loubet fu ripreso dalla stampa russa – e se i «PSM sono stati compilati in Russia» allora «non sono anteriori a quell’epoca.»

Per corroborare questa ipotesi si possono portare: la progettazione e costruzione del mètro parigino fra 1894 e 1900, di cui si parlerà in seguito, l’introduzione del gold standard da parte di Vitte nel 1897 e come indizio principale il I Congresso sionista dello stesso anno, il quale sarebbe da mettere in relazione con gli Anziani di Sion. È superfluo ribadire l’importanza che ha avuto il I Congresso sionista nell’ipotesi calunniatrice degli “zelatori” ma a parere di De Michelis fu il V Congresso sionista a preoccupare ancora di più gli antisemiti russi «nell’allarmante presa di coscienza che il sionismo stava diventando una cosa seria». Ci sono altri argomenti che smentiscono la datazione 1897-98, il più forte lo fornisce il testo stesso, o meglio il testo nelle edizioni precedenti alle modifiche introdotto da A2 e N, in cui ad un certo punto nel XII protocollo si legge: «quando alla fine saremo definitivamente saliti al trono[…] (il che può avvenire non presto, forse alla fine del secolo e oltre)» mentre in N – si legge – per vedere instaurato il governo mondiale ebraico bisognerà attendere «magari un secolo».

Nel primo caso parrebbe poco probabile che chi scrive si riferisca alla fine del XIX secolo ed essendo A2 e N versioni testualmente “posteriori” a K e A1 ne consegue che i Protocolli devono essere stati per forza redatti all’inizio del XX secolo. Il taglio operato da Nilus (e da A2) si spiega giacché lui stesso attribuì i Protocolli a Theodor Herzl e al I Congresso sionista (dunque 1897) e per questo furono apportati gli opportuni correttivi al testo – tra cui le pennellate “francesità”; c’è anche un altro indizio, meno probante ma rilevante, un passo che è stato oggetto di fraintendimenti e manipolazioni deliberate, in cui si afferma che «ad uno di essi [stati europei] abbiamo mostrato le nostre forze negli attentati – nel terrorismo, e a tutti, ove si profili una loro ribellione, risponderemo con i cannoni americani, cinesi e giapponesi.» in cui si allude molto probabilmente al regicidio di Umberto I di Savoia del luglio 1900.6 In una nota del “traduttore” (sedicente) nel II protocollo si fa riferimento all’attentato al presidente USA Mc. Kinley del 14 settembre 1901, «ma se i PSM non sono una traduzione, non c’è nessun traduttore, la nota va attribuita al compilatore, dunque i PSM sono posteriori a tale data8». C’è poi un dettaglio rilevato da De Michelis, presente nell’occhiello del capitolo in cui sono inseriti i Protocolli nel Grandioso nell’infimo di Nilus, che riporta le date: «1902-1903»; è probabile che si tratti della vera data di composizione dei PSS che Nilus non cancellò1.

Sembra quindi che la datazione “alta” (supposta da Cohn e Romano) sia da escludere, si è visto come il fatto che sia stata l’Ochrana a fabbricare i PSS non sia dimostrato e presenti cospicui punti deboli, non ultimo la circostanza che:

nessuna indagine, né prima né dopo la rivoluzione del 1917, ha mai accertato il coinvolgimento dell’Oxrana nella stesura dei PSM […], cosa che sarebbe comunque in singolare contrasto con le difficoltà incontrate da Nilus per ottenere il visto della censura (Rollin 1891, p. 34.): inoltre, sarebbe ben strano che i <servizi> fossero ricorsi al giornalaccio di Kruševan per divulgarli.

Se i PSS furono fabbricati in Russia nei primi anni del XX secolo e non dall’Ochrana, allora da chi? Da coloro che per primi ebbero a che fare con il “documento”: «Men’šikov» (che ricordiamo, li annunciò per primo nel 1902), «quasi certamente Kruševan» e «con ogni probabilità, Butmi 3», fra il 1902 e il 1903.

Il V Congresso sionista e la visita del presidente francese Loubet, rispettivamente alla fine del 1901 e nel maggio del 1902, non sono gli unici eventi che contribuiscono a spiegare la genesi dei PSS; nell’intricato scenario di input che con ogni probabilità portò, fra il 1901-1903, a partorire prima l’idea di fabbricare un falso documento e poi il documento stesso, così come ci è pervenuto. Il V Congresso sionista può aver fatto scattare l’allarme rosso negli ambienti più antisemiti, preoccupati dall’“inquietante” crescita del movimento sionista. Inoltre, nel luglio 1902 il re d’Italia Vittorio Emanuele III arrivò in visita di stato in Russia, e nella stampa ciò doveva richiamare «l’attentato di cui era stato vittima suo padre».

Nel settembre 1902 morì E. Zola «e i commenti d’occasione tornarono al caso Dreyfus; due mesi dopo Butmi pubblicò un altro saggio sulla valuta aurea» nel gennaio 1903, «il governo vietò un appello per l’abolizione della censura, il che richiamava il ruolo essenziale della stampa». A febbraio venne pubblicato un Manifesto governativo sulla tolleranza per i culti diversi da quello ortodosso, vivacemente avversato dalla destra; tra il 19 e 20 aprile scoppiò il pogrom di Kišinëv. Questo fu il clima ricco di “spunti”, come si vede, nel quale furono prodotti i Protocolli.

Men’šikov, Kruševan e Butmi appartenevano al Circolo russo (poi Alleanza del popolo russo), furono accesi antisemiti e pensavano che la “questione ebraica” costituisse un’eccezione rispetto alle altre nazionalità a causa dell’«aspirazione degli ebrei all’egemonia mondiale».

Kruševan «è il più sospettabile non solo perché fu il primo editore dei PSM», ma nel 1902-03 impiegò ogni mezzo per fomentare i pogrom: nel 1902 a pasqua e l’anno seguente propagandò l’ipotesi dell’omicidio rituale, quando furono ritrovati dei bambini cristiani morti, diffuse la voce che lo Zar aveva emesso un ukaz che autorizzava i cristiani a colpire gli ebrei, e infine, diffuse il Discorso del Rabbino. Dal suo profilo emerge un antisemitismo fra i più virulenti, egli fu prodigo di falsità e calunnie, cosciente o meno (secondo i casi) della loro natura. Kruševan era stato in contatto con il ministro degli interni Pleve, il quale condivise e supportò la campagna antisemita della stampa di destra. Questo fatto renderebbe ancor meno plausibile l’ipotesi del coinvolgimento di Rakovskij, il quale era un uomo di Witte3. Kruševan era originario della Bessarabia (dove si parlava moldavo, ucraino e russo con influenze ucraine), Butmi era nato in Podolia (Ucraina) al confine della Bessarabia e fu un ostinato avversario di Witte e del Sistema aureo da questi introdotto; entrò in relazione con Šarapov e Chabry – le cui idee «stanno alla base della teoria economica dei Protocolli». La loro influenza sarebbe avvertibile in un passo di Capitali e debiti di Butmi, il quale avrebbe ispirato l’immagine del “serpente simbolico” presente nella “Postilla del traduttore” dei PSS5. Oltre all’immagine che «i prestiti pendono come una spada di Damocle sulla testa dei governanti»6 che parrebbe essere un calco letterale di un’espressione contenuta nel libro di Chabry, sembrerebbe che Butmi avesse collaborato con Kruševan nella compilazione del testo, ma fu Men’šicov come sappiamo, il primo ad annunciare al “grande pubblico” l’esistenza dei Protocolli nell’aprile del 1902; prima della visita di Loubet a San Pietroburgo che avverrà a maggio:

di cui i PSM portano traccia: il che, accanto alla denuncia <vero falso> (anteriore al <falso vero>), significa che egli ne parla prima che venissero redatti, almeno come noi li conosciamo prima, cosa che ovviamente poteva fare solo chi era implicato nella loro compilazion.

Il taglio “veterotestamentario” della prima redazione sembra derivare da Chamberlain (a Men’šikov noto).

La fucilazione da parte della CEKA, avvenuta nel 1918, per i suoi trascorsi di fomentatore di pogrom e le lettere spedite da Men’šikov alla moglie, dalla prigione, appaiono come pesanti indizi a vantaggio dell’ipotesi circa il coinvolgimento di quest’ultimo. Egli scrisse alla moglie di «bruciare dai suoi diari e dalle sue lettere tutto ciò che i bambini non debbono conoscere 2». Sembrerebbe che la «CEKA di Valdaj fosse a conoscenza di un ruolo speciale avuto da Men’šikov nelle campagne antisemite degli anni 1902-1903 e che, in particolare, avesse notizie <riservate> su una sua partecipazione alla stesura dei PSM». La sorte di Men’šikov fu ben diversa, pur in un periodo di violenza quotidiana (quali furono gli anni della guerra civile), da quella riservata a Nilus, il quale nonostante fosse stato l’”editore ottimo” e fosse sospettato di esserne stato l’autore, fu arrestato ripetutamente, ma venne sempre liberato e morì in tranquillità 3. Sembra dunque che la CEKA nutrisse nei confronti di Men’šikov sospetti ben più gravi rispetto all’accusa di essere un “semplice” propagandista di odio: per esempio aver fabbricato i PSS! Inoltre sia Men’šikov (il più colto dei tre) che Butmi avevano le giuste frequentazioni francesi, «ed entrambi potrebbero aver suggerito l’impiego del pamphlet di Joly; (un’edizione ridotta (D) e la prima redazione breve (R) apparvero nelle zone ucraine di Men’šikov 1908)».

Si spiegherebbe anche perché non sia trapelato nulla – nel caso fossero stati loro a scriverli – quando, «il <caso> dei PSM scoppiò a livello mondiale, dal 19194 erano tutti scomparsi, mentre Nilus, ammesso che ne fosse al corrente, non aveva nessun interesse a divulgare la vera origine dei PSM, che avrebbe comunque ridimensionato il suo ruolo nella vicenda.5»

C’è una testimonianza conservata negli archivi della Hoover Institution, dichiarazione del sacerdote uniate Gleb Verchovskij (1088-1935), lettere del dicembre 1934 all’American Jewish Committee e al «Novoerusskoe slovo», vi si legge che nel 1896, dove risiedeva in Nižnij Novgorod con la famiglia, li venne a trovare Butmi, con Šarapov. Nella sua prima ricostruzione dei fatti, Verchovskij afferma che Butmi mostrò alla sua famiglia una prima bozza di traduzione dei Protocolli dal francese al russo, e che chiese spesso aiuto a sua madre (Marija Karlovna), la quale conosceva meglio il francese rispetto agli altri. Nella seconda versione dei fatti, che concede al «Novoe russkoe slovo», però Verchovskij fornisce un quadro più dettagliato e autentico: nel 1895 Butmi era arrivato a Parigi e aveva allacciato rapporti con gli ambienti antisemiti, riportò con sé in Russia un «manoscritto in francese che comprendeva estratti da una vecchia opera francese1, dai quali i compilatori ripresero dei dialoghi per la compilazione dei Protocolli di Sion» ne venne realizzata una traduzione in russo col supporto di Marija e della moglie di Butmi; «il lavoro andava molto a rilento2».

Le dichiarazioni di Verchovskij sembrano attendibili, egli non conosce la prima edizione russa dei Protocolli, parla di un documento suddiviso in «22 punti», come K, e di «dialoghi» non conoscendo il Dialogue di Joly; «la traduzione effettuata in un ambiente <familiare>, spiega le sviste, le mende e anche gli ucrainismi; infine la <lentezza> del lavoro di traduzione/adattamento […] spiega la comparsa della prima redazione dei PSM più di sei anni dopo» i quali:

concepiti in odio a Vitte, confezionati in relazione al congresso sionista del 1901, gli avvenimenti del 1903 (i pogromy, la visita di Herzl in Russia, il 6° congresso sionista) avrebbero spinto Kruševan, con l’avvallo di Pleve, a utilizzare i PSM in uno stadio ancora grezzo.

Agostino Pilia

Bibliografia e note

1. Dal 16-18 agosto 1921 vennero pubblicate le corrispondenze da Costantinopoli dell’inviato Philip Graves, “smascheratore” dei Protocolli. Cfr. C. G. De Michelis 2004, p. 44.

2. C. G. De Michelis 2004, op. cit., pp. 51-54. N. Cohn, 2015, pp. 277-282

3. Cfr. Ivi, pp.283-291.

4.Cohn: «Tutto sommato è praticamente certo che i Protocolli sono stati fabbricati fra il 1894 e il 1899, e con ogni probabilità nel 1897 o 1898. Il Paese fu senz’altro la Francia.» Ivi, p. 104. Romano, in sostanziale accordo con Cohn: «È verosimile, del resto, che i Protocolli siano stati redatti intorno al 1897, ma non certo a Basilea o dalla penna di Theodor Herzl . Gli autori furono probabilmente agenti dell’Ochrana e l’idea della falsificazione scaturì in tal caso probabilmente dalla fertile fantasia cospiratoria del generale Račkovskij » Sergio Romano, I falsi protocolli, il «complotto ebraico» dalla Russia di Nicola II ad oggi. Corbaccio, Milano 1992, pp. 19-20.

5. «i PSM [Protokoly sionskich mudrecov, Protocolli dei Savi di Sion] sono stati compilati tra il 1902 e il 1903, certamente in Russia e con ogni probabilità a Pietroburgo;[…] ad una indagine circostanziata non ci sono nemmeno elementi per dire che provengano dall’Ochrana. [Ochramye otdelenija, dipartimento di sicurezza, polizia segreta russa fondata nel 1881. Cfr. Hans Rogger, La Russia pre-rivoluzionaria. 1881-1917, il Mulino, Bologna 1992, p. 99]. C. G. De Michelis 2004, op. cit., p. 63.

6.Ivi, p. 17.

7.Ivi, pp. 38-39.

8. Paul Bushkovitch, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin, Einaudi, Torino, 2013, p. 323.

9. N Cohn, op. cit., p. 105.

10. Ibidem.

11..Ivi, p. 39.

12. Sul pogrom Cfr. Aleksandr Solženicyn, Due secoli insieme. Ebrei e russi prima della rivoluzione, Controcorrente, Napoli 2007, pp. 386-405. P. Bushkovitch, op. cit., p. 301. H. Rogger, op. cit., pp. 333-334.

13. C.G. De Michelis 2004, op. cit., p. 17.

14.C. De Michelis 2004, op. cit., p. 36.

15. Ivi, pp. 37-38, rilevante l’abbondanza di francesismi in N.

16.Ivi, p. 38.

17... S. Romano, op. cit., p. 191.

18. N. Cohn, op. cit., p. 103. Nel quadro dell’origine Russa De Michelis sposta al 1900/1901. Cfr. C. G. De Michelis 2004, op. cit., p. 90.

19. S. Romano, op. cit., p. 171.

20. N. Cohn, op. cit., p. 103.

21. C.G. De Michelis 2004, op. cit., p. 57.

22. Tenuto sempre a Basilea, nel dicembre del 1901, in cui si istituì il Fondo perpetuo per Israele, per l’acquisto di territori in Palestina.

23. Ivi, pp. 57-58.

24. Ivi, p. 268.

25. Romano, op. cit., p. 183.6.

26. 5° protocollo dell’edizione di De Michelis. Il passo relativo ai “cannoni americani, cinesi e giapponesi” sembra riferirsi alle proteste levatesi nell’autunno del 1902 per le pretese russe in Manciuria. Ivi, pp. 196-197 nota n°6.

27. Ivi, p. 56.

28. Nell’edizione ricostruita di De Michelis. Presente nelle prime edizioni dei PSS è stata successivamente espunta nelle successive. (In N non appaiono “Note del traduttore” a piè di pagina.)

29. Ibidem.

30.Ivi, p.59, 61, 67, 69

31. ibidem

32. ivi, p. 69

33. N. Cohn, op. cit., p. 110.

34. C. G. De Michelis 2004, op. cit., p. 72.

35. Ivi, p. 73.

36. «così il boa constrictor ingoia un bue, più grosso di lui […]. Parlando dei disastri prodotti dalla valuta aurea, egli paragona quest’ultima ad un enorme boa d’oro le cui fauci si trovano a Londra in attesa del suo trasferimento in Palestina, le cui spire avvolgono tutto il mondo» Ivi, p. 71 da Butmi 1898, Cfr. anche con la Postilla del traduttore dei PSS.

37.Ibidem.

38. C. G. De Michelis 2004, op. cit., p. 50.

39. Cfr. Ivi, pp. 42-43.

40. Ivi, p. 70, Ivi, p. 69, Ivi, pp. 65-66,

41. Il mito del complotto mondiale ebraico era già maturo in Russia nel 1902, bastava solo un documento che gli conferisse il crisma dell’autenticità.

42. Ivi, pp. 73-74.

43.Sarebbe il dialogo di Butmi.

44. Ivi, p. 74.

45. Ivi, p.75.

PELLEGRINI E ITINERARI MEDIEVALI NEGLI ANNALES STADENSES

Capitolo I: il Viaggio (parte 2)

Pellegrini e itinerari (pt.2)

1.1 Tipologie di viaggi([1])

 

Relazioni di ambasciatori

La seconda metà del 1200 rappresenta un momento di rinnovamento per la letteratura odeporica. Nuovi interessi diedero avvio ai viaggi verso l’Oriente che suscitava nuove curiosità da parte degli occidentali. Iniziarono a crearsi contatti tra l’Europa cristiana e l’Asia mongolica. La campagna dell’esercito mongolo verso l’Europa iniziò nel 1236([2]).  A fermare l’avanzata dei Mongoli fu la morte del Gran Khan Ögödei nel 1241 poiché i principi mongoli dovettero ritornare in patria per partecipare all’elezione del succesore. Papa Innocenzo IV inaugurò una strategia di difesa durante il Concilio di Lione nel 1245,  il suo progetto prevedeva la stretta di un’alleanza tra tutti i principi cristiani contro i nuovi nemici. Essi avrebbero dovuto deviare sul mondo islamico l’aggressione mongola. Successivamente si sarebbe dovuta negoziare una pace con i Mongoli o convertirli al cristianesimo. Per portar a termine questo programma bisognava conoscere i loro territori, usi e costumi. Era dunque necessario inviare dei missionari-ambasciatori che avrebbero dovuto portare il saluto del papa, la parola del Cristo e che avrebbero appreso più informazioni possibili sulla cultura e sulle tradizioni delle popolazioni mongole([3]). Nel 1245 il Papa predispose due distinte ambascerie lungo due itinerari diversi: la “via meridionale” fu affidata al francescano Lorenzo del Portogallo, e la “via settentrionale” a Giovanni di Pian di Carpine. Lorenzo del Portogallo per una serie di ragioni non partì, vennero nominati  Andrea da Longjumeau e Ascelino da Cremona, due domenicani che iniziarono il loro viaggio da Lione. La via meridiondale, però,  non portò nessun esito.

 

Diversa invece fu la sorte di Giovanni di Pian di Carpine: egli partì il 16 aprile 1245, domenica di Pasqua, e in quattro mesi circa giunse in Mongolia, dove assistette all’incoronazione del Gran Khan Cuyuc al quale portò il saluto del Papa e una lettera del pontefice a cui Cuyuc rispose. Una volta che la delegazione ebbe la risposta del Grand Khan, ripartì per Lione. Nella risposta Cuyuc intimava al papa la sottomissione, per cui sul piano diplomatico la missione non aveva riportato buoni risultati, mentre dal punto di vista culturale il viaggio fu foriero di un grande successo poiché da quest’impresa Giovanni scrisse una relazione trasmessa con il titolo Historia Mongalorum, in due redazioni entrambe d’autore.([4]) La prima riporta otto capitoli mentre la seconda, la definitiva, è costituita da nove capitoli. Il primo capitolo descrive la posizione, le caratteristiche e il clima del territorio dei Mongoli; il secondo l’aspetto delle persone e le loro abitudini, abbigliamento e abitazioni; il terzo delle credenze religiose e dei culti, dei divieti, delle regole di comportamento e dei riti funebri; il quarto narra delle buone e cattive abitudini, dei cibi e dei costumi. Nel quinto capitolo vi è la storia dell’impero mongolo, del potere dell’imperatore e dei suoi vassalli; il sesto, settimo e ottavo parlano di questioni militari: esercito, armi, stratagemmi, alleanze e della condotta dei Mongoli verso i nemici e prigionieri. Il nono capitolo, infine, è un resoconto della spedizione in cui tratta dei territori attraversati, dei testimoni incontrati, della residenza dell’imperatore dei mongoli, è un vero e proprio itinerarium.

 

Qualche anno dopo un altro francescano, Guglielmo di Rubruk, percorse la stessa strada di Giovanni. Egli intraprese il viaggio nel giugno del 1253 e ritornò due anni dopo.  Egli voleva istruire i capi tatari e convertirli al cristianesimo o, almeno, portare la parola di Dio ai prigionieri che erano presso la corte mongola. Passò sei mesi a Karakorum, nella corte del Gran Khan. Quando, Guglielmo avrebbe voluto ritornare in patria, venne nominato lector del convento di Acri così non potè più partire, per questo decise di mettere per iscritto la sua relazione di viaggio in una lunghissima lettera che venne poi consegnata al re di Francia. La sua relazione è nota come Itinerarium; è divisa in trentotto capitoli ed è un vero e proprio libro di avventura con dati geografici, etnologici e linguistici.([5]) Alla morte del  Grand Khan Möngke, il nuovo Khan Qubilai trasferì la sede imperiale a Khanbaliq (Pechino) ed è qui che nel 1294 arrivò, come legato del papa Niccolò IV, il francescano Giovanni da Montecorvino. Egli venne ricevuto dal successore di Qubilai, e tutto ciò che sappiamo della sua missione deriva direttamente da sue tre lettere indirizzate a Papa Niccolò IV nel 1307, sappiamo inoltre che fece costruire la prima chiesa vescovile cattolica dell’Estremo Oriente. La prima lettera venne scritta, probabilmente tra il 1292-1293 ed è una relazione geografica sull’India.([6]) Le altre due lettere sono un resoconto della sua opera di evangelizzazione, scritte una nel 1305 e l’altra nel 1306. Queste lettere permettono di conoscere i fatti precedenti alla fondazione della prima diocesi latina nell’impero mongolo. Giovanni afferma come la Tartaria fosse aperta all’evangelizzazione. Il Papa Clemente alla notizia di ciò lo fece consacrare arcivescovo di Pechino.

 

Un ultimo esempio di viaggio che possiamo citare nell’ambito delle Relazioni di ambasciatori è quello di Odorico da Pordenone, il suo fu un viaggio privato che gli offrì il materiale per comporre la Relatio o Itinerarium. È un semplice diario di un viaggiatore che descrive ogni cosa vista. È il primo viaggiatore che inserisce nel testo elementi fantastici.([7])

 

Viaggi immaginari e I Mirabilia

Alla letteratura di viaggio si possono ascrivere testi che raccontano viaggi  compiuti con la fantasia. Sono viaggi immaginari nei quali si intersecano armoniosamente visiones e mirabilia. Era l’Oriente la terra preferita  per l’ambientazione di questi racconti: il continente misterioso e senza confini, la terra delle meraviglie e dei mostri, dove si trovava, come già specificato, il Paradiso Terrestre. L’idea di un Oriente straordinario e meraviglioso, popolato da creature mostruose e pervaso di fenomeni che affascinavano in modo irresistibile l’immaginario dell’Occidente europeo, era già presente non solo negli autori classici latini come Virgilio (Georgiche II 118-125), Plinio il Vecchio (Naturalis historia VII 1-4, 6-37; VIII 21, 72-76), Aulo Gellio (Noctes Atticae IX, 4). “Il medioevo non inventa, bensì riproduce, glossa, interpreta, amplifica, contamina; e dalla fine dell’antichità è difficilissimo incontrare mirabilia del tutto nuovi. L’ occidente medievale conosce solo quelli creati dai Greci; ne conosce anzi di meno, perché quelli che non furono tradotti in latino rimasero sconosciuti”([8]).

           

Come afferma Isidoro di Siviglia si tratta di una terra irraggiungibile e “a difesa di luoghi dove scorrono fiumi di latte e di pietre preziose, dove i frutti sono eternamente maturi, dove non c’è povertà né malattia, dove le montagne sono di cristallo o d’oro puro, a difesa di questo paese di cuccagna, di questo mondo utopico, che è in realtà un mondo alla rovescia, si schierano esseri mostruosi e ripugnanti, che rientrano nella stessa logica di quel mondo alla rovescia, simboli del male che si oppone al bene, ma anche prodotti di paure e di sensi di colpa dell’inconscio collettivo”([9]).

           

Nei secoli alto medievali si verifica una ricca produzione letteraria riconducibile al romanzo di Alessandro, detto dello Pseudo Callistene, la cui redazione è collocabile dal III secolo a.C. fino al 200 d.C([10]). Verso la metà del X secolo l’Arciprete Leone redige la versione latina più diffusa nell’Europa medievale del romanzo di Alessandro, l’Historia de Preliis, e, nell’ambito delle opere che si rifanno in vario modo alla storia del mito di Alessandro Magno, si colloca uno dei testi più significativi della letteratura mirabilis: l’Epistula Alexandri ad Aristotelem magistrum suum de situ et mirabilibus Indiae. Si tratta di una lettera scritta “a tavolino” che, inserita nelle versioni del romanzo di Alessandro, ebbe una diffusione autonoma e comparve in opere che nel corso del Medioevo godettero di uno straordinario successo, come lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvis e il Chronicon di Ottone di Frisinga. In quest’ultimo testo compare sulla scena un curioso personaggio: un cristiano, un prete, e nello stesso tempo un re di immense terre. Questo fantomatico personaggio di nome Gianni, verso la fine del XII secolo, scrisse una lettera fittizia, la cui prima citazione diretta si trova nella Chronica di Alberico delle Tre fontante, indirazzata all’imperatore di Bisanzio Manuele I Comneno, a Federico Barbarossa, a papa Alessandro III e ad altri regnanti europei. La Lettera del Prete Gianni, offre un testo di fascino straordinario non solo perché riesce ad ammaliare il suo lettore con i suoi mirabolanti racconti, ma soprattutto perché presenta il proprio autore “coinvolto negli eventi del tempo storico a cui appartiene”([11]). Al di là delle motivazioni che hanno spinto l’autore, forse un chierico, alla redazione della Lettera, ciò che qui interessa è sottolineare la sintesi di elementi biblici e di derivazione isidoriana che, ancora nel XII secolo, conferiscono al testo un sapore esotico e una dimensione favolosa. Il Prete Gianni descrive accuratamente le qualità del proprio regno in questi termini:

 

Terra nostra melle fluit lacte habundat. In aliqua terra nostra nulla venena nocent nec garrula rana coaxat, scorpio nullus ibi, nec serpens serpit in herba. Venenata animalia non possunt habitare in eo loco nec aliquos laedere. Inter paganos per quandam provinciam nostram transit fluvius, qui vocatur Ydonus. Fluvius iste de paradiso progrediens expandit sinus suos per universam provinciam illam diversis meatibus, et ibi inveniuntur naturales lapides, smaragdi, saphiri, carbunculi, topazii, crisoliti, onichini, berilli, ametisti, sardii et plures preciosi lapides. Ibidem nascitur herba, quae vocatur assidios, cuius radicem si quis super se portaverit, spiritum immundum effugat et cogit eum dicere, quis sit et unde sit et nomen eius. Quare immundi spiritus in terra illa neminem audent invadere. In alia quodam provincia nostra universum piper nascitur et colligitur, quod in frumentum et in annonam et corium et pannos commutator. Est autem terra illa nemorosa ad modum salicti, plena per omnia serpentibus. Sed cum piper maturescit, accendunt nemora et serpentes fugientes intrant cavernas suas, et tunc excutitur piper de arbusculis et desiccatum coquitur, sed qualiter coquator, nullus extraneus scire permittitur. (Lettera del Prete Gianni, p. 56 e p.58).

           

           

Anche l’Olimpo rientra nei confini del regno del Prete Gianni. Nella descrizione del regno si può leggere anche un elenco di animali prodigiosi:

 

In terra nostra oriuntur et nutriuntur elephantes, dromedarii, cameli, ypotami, cocodrilli, methagallinarii, cametheternis, thinsiretae, pantherare, onagri,leones albi et rubei, ursi albi, merulae albae, cicades mutae, grifones, tigres, lamiae, hienae, boves agrestes, sagittarii, homines agrestes, homines cornuti, fauni, satiri et mulieres eiusdem generis, pigmei, cenocephali, gygantes, quorum altitudo est quadraginta cubitorum, monoculi, cyclopes et avis, quae vocatur fenix, et fere omne genus animalium, quae sub caelo sunt.(Lettera del Prete Gianni, p. 54).

           

           

L’elemento stupefacente investe non solo l’ambito naturale, ma anche le costruzioni e l’architettura degli edifici. L’intento del Prete Gianni è infatti quello di riprodurre il mirum in modo che natura e artificio si specchiano l’una nell’altro.

           

Il Prete Gianni compare in diverse opere della letteratura italiana dalla novellistica in volgare fino ad Ariosto e la sua figura è costantemente presente nei testi che si inseriscono nell’eterogeneo filone della letteratura odeporica.

 

 

Camilla Bigatti

Note

[1] Per quanto riguarda le informazioni contenute in questo articolo mi sono basata sugli articoli di Clara Fossati,   “Silvae”, 7, 2006; di Enrico Menestò, “Relazioni di viaggi e ambasciatori” in Lo spazio letterario nel Medioevo Latino, Salerno editrice.

[2] Cfr. J. Richard, Orient et Occident au Moyen Age: contacts et relation (XIIe-XVe  siècles), London, Variorum Reprints, 1976, e D. Sinor, Inner Asia and its Contacts with Medieval Europe, London, Variorum Reprints, 1977.

[3] Su questa iniziativa papale è stato scrito molto. Si vedano Soranzo, Il papato, pp. 77-125; Bigalli I Tartari e l’Apocalisse, pp. 50-69; Richard La Papauté, pp. 65-73; L. Petech, I francescani nell’Asia centrale e orientale nel XIII e XIV secolo, in Espansione del francescanesimo tra Occidente e Oriente nel secolo XIII. Atti del VI Convegno internazionale della Società internazionale di Studi francescani (Assisi, 12-14 ottobre 1978), Assisi,  Società internazionale di Studi francescani, 1979, pp. 213-40; K. E. Luprian, Die Beziehungen der Päpste zu islamischen und mongolishen Herrschern im 13. Jahrhundert anhand ihres Briefwechsels, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1981, pp. 41-45, 48-56.

[4] Per le edizioni dell’Historia Mongalorum cfr. E. Menestò, Prolegomena, ibid., pp. 217-20. si veda anche Johannes de Plano Carpine, in Repertorium fontium medii aevi, vol. VI pp. 392-93; F. Sorelli, Per regioni diverse: fra Giovanni da Pian di Carpine, in I compagni di Francesco e la prima generazione minoritica. Atti del XIX Convegno internazionale della Società internazionale di Studi francescani e del Centro interuniversitario di Studi francescani (Assisi, 17-19 ottobre 1991), Spoleto, CISAM, 1992, pp. 259-84.

[5] Per i manoscritti, le edizioni e la bibliografia dell’Itinerarium cfr. Guilelmus de Rubruquis, in Repertorium fontium medii aevi, vol. V pp. 317-19.

[6] Lettera edita dal Van Den Wyngaert, in Sinica Franciscana, vol I pp. 340-45.

[7] Su Odorico  da Pordenone e sul suo viaggio la bibliografia è assai amplia. Vanno segnalati: F. Sorelli, Il mondo orientale nell’attività e negli scritti di due francescani del Santo: Fidenzio da Padova e Odorico da Pordenone, in Storia e cultura al Santo di Padova fra XIII e il XX secolo, a cura di A. Poppi, Vicenza, Neri Pozza, 1976, pp. 255-64; Odorico da Pordenone e la Cina. Atti del convegno storico internzionale (Pordenone, 28-29 maggio 1982), a cura di G. Melis, Pordenone, Edizione Concordia Sette, 1983; C. Schmitt, L’epopea francescana nell’Impero Mongolo nei secoli XIII-XIV, in Venezia e l’Oriente. Atti del XXV corso internazionale di Alta Cultura (Venezia 27 agosto-17 settembre 1983), Firenze, Olschki, 1987, pp. 379-408; L. Monaco, Introduzione, in Memoriale Toscano. Viaggio in India e Cina (1318-1330) di Odorico da Pordenone, a cura di L. Monaco, pref. di J. Guérin Dalla Mese, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1990, pp. 19-79; Odorico da Pordenone, Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum, a cura di A. Marchisio, Firenze, Sismel, 2016; P. Jackson, The Mongols and the West (1221-1410), Harlow 2005; P. Chiesa, Una forma redazionale sconosciuta della “Relatio” latina di Odorico da Pordenone, in “Itineraria”, 2 (2003), pp. 137-163.

[8] G. Orlandi, Temi e correnti nelle leggende di viaggio dell’occidente alto-medievale, in Popoli e paesi nella cultura altomedievale, 23-29 aprile 1981, II, Atti della XXIX Settimana di studio del Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, Spoleto, CISAM, 1983,  p. 529.

[9] S. Pittaluga, L’oriente meraviglioso fra racconti di viaggi e di ambasciatori, in Atti  della VII giornata archeologica. Viaggi e commerci nell’antichità, Genova, D.AR.FI.CL.ET., 1995, pp. 85-106 (in partic. p. 93).

[10] A. Ausfeld, Der griechische Alexanderroman, Lipsia, 1907; W. Kroll, Pseudo-Kallisthenes, Berlino, 1926.

[11] La lettera del prete Gianni, a cura di G. Zaganelli, Luni Editrice, 1990, p. 12.

Articoli Allegati: 

"Pellegrini e Itinerari Medievali Negli Annales Stadenses: il Viaggio (Parte 1)" : Camilla Bigatti

"Pellegrinaggi e Pellegrini" : Camilla Bigatti

Camilla Bigatti

PELLEGRINI E ITINERARI MEDIEVALI NEGLI ANNALES STADENSES
Capitolo I: il Viaggio (parte 1)

Pellegrini e itinerari (pt.1)

Itineraria e descriptiones

Le mete più importanti nell’ambito degli itineraria e delle descriptiones erano tre: Gerusalemme, Roma e Santiago de Compostela.

I viaggi di coloro i quali si dirigevano verso Gerusalemme già a partire dal I secolo, non erano ancora veri e propri pellegrinaggi, poiché si trattava piuttosto di una consuetudine di pochi mossi da un interesse scientifico più che devozionale. La situazione cambiò a partire dal 313, anno dell’editto di Milano che portò al riconoscimento per i cristiani della libertà di culto, e anche dal 326, anno della presunta scoperta da parte dell’imperatrice Elena delle reliquie della croce del Cristo. Questa scoperta richiamò migliaia di fedeli verso Gerusalemme e proprio con l’inizio di questi viaggi nacquero gli Itineraria, un genere letterario-memorialistico, che si presenta come una sorta di guida sulla Terrasanta a cui si collegano le descriptiones. Tutti questi testi offrono informazioni storiche ed archeologiche sui luoghi santi e poiché il numero degli itenerari prodotti è molto elevato, riporterò solamente i più importanti. La prima testimonianza che abbiamo è l’Itinerarium a Burdigala Hierusalem usque o Itinerarium Burdigalense (5), il cui autore è anonimo. La meta di questo viaggiatore, che partì da Bordeaux, fu Gerusalemme. Nel testo, considerato una vera e propria guida, sono riportate le strade percorse all’andata e al ritorno e tutte le città attraversate, di cui egli fornì una descrizione molto dettagliata. Si conta abbia fatto 3400 miglia in 170 giorni.

 

Una narrazione particolarmente significativa come l’Itinerarium Burdigalense è l’Itinerarium Egeriae (6). Questo testo, scritto sotto forma di lettera da parte di una donna religiosa a altre religiose, è il resoconto di un soggiorno di tre anni a Gerusalemme. Il testo è tràdito da un solo manoscritto proveniente probabilmente da Montecassino e scritto nel IX secolo, scoperto nel 1884 da Gamurrini. L’opera è divisa in due parti, la prima contiene il racconto del viaggio, sia di andata che di ritorno, mentre la seconda ha un taglio liturgico in cui vengono descritte le funzioni religiose.

Per quanto riguarda i pellegrinaggi nel VI secolo è importante citare l’Itinerarium Antonini Placentini, una narrazione di un ignoto pellegrino che parte da Piacenza per raggiungere la Terrasanta, e che risulta essere incompleto7. Il testo inizia con la descrizione della partenza del viaggiatore da Costantinopoli, a Cipro alla città di Costanza, per poi continuare attraverso Siria, Palestiana e Alessandria d’Egitto da dove inizia il ritorno lungo lo stesso itineriario. L’Itinerarium è giunto in due redazioni: la recensio prior e la recensio altera. La differenza tra le due redazioni è abissale. La redazione originale è la prior, ritenuta inizialmente un’epitome, mentre la altera, che era ritenuta come genuina, è un rifacimento al testo originale e contiene descrizioni di particolari non veri.

La seconda meta del pellegrino era Roma, la città di Pietro e Paolo, la città che conservava un numero alto di reliquie dei santi. La grandezza di Roma e i suoi monumenti cristiani, come le catacombe e le cattedrali, rendeva necessario per il pellegrino l’uso di guide sin dal VI secolo. Molte di esse sono giunte fino a noi e mi limiterò a riportarne solo alcuni esempi. Una guida che rappresenta un vero e proprio itinerario ad uso esclusivo dei pellegrini è la Notitia ecclesiarum urbis Romae (8), in cui tutte le chiese citate, a eccezione di quella dei santi Giovanni e Paolo, sono fuori dalla città. Sono anche indicati i sepolcri dei màrtiri in cimiteri sotterranei. L’itinerario parte dalla chiesa dei santi Giovanni e Paolo, arriva alla via Flaminia, e giunge sino alla tomba di San Pietro.

Un’opera molto più importante della precedente è l’Itineraium Einsiedlense (9), così chiamato per il manoscritto che lo conserva (Einsiedeln 326, sec. IX-X).

L’autore, anonimo, con molta precisione evidenzia i monumenti da visitare e offre una rappresentazione topografica di Roma.

 

L’arcivescovo di Canterbury, Sigerico, dal febbraio al luglio del 990 soggiornò a Roma, quello che lasciò dalla sua permanenza è l’Itinerarium di Sigerico (10), un testo di una certa importanza perché è l’unico catalogo di chiese romane scritto nel X secolo giunto sino a noi. Dopo l’anno Mille questi itinerari si trasformarono e iniziarono ad arricchirsi di elementi fantastici. Quindi da una descrizione reale si passò a quella leggendaria.

Terza meta del pellegrino è Santiago de Compostela. Non sono chiare le origini di questo pellegrinaggio: molto probabilmente esso fu determinato dalla scoperta della tomba dell’apostolo Giacomo. La devozione nei confronti della tomba di Giacomo fu forte sin da subito. Nell’XI secolo il carattere internazionale di questi viaggi era già affermato, ma la maggior fortuna per Santiago de Compostela fu nel XII secolo, poiché vennero costruiti ospedali e case di accoglienza per i pellegrini. Questi ultimi viaggiavano lungo quattro itinerari: la via Tolosana, la via Podensis, la via Lemovicensis, la via Turonensis, convergenti verso i Pirenei per poi formare il Cammino di Santiago. Fonte fondamentale di questo pellegrinaggio è il Liber Sancti Iacobi, conosciuto anche come Codex Calixtinus, poiché questo testo è introdotto da un’epistola attribuita a Papa Callisto II (11). Fissato intorno al 1160 e attribuito con ogni probabilità a Aiméry Picaud, un religioso, esso è costituito da cinque libri di cui l’ultimo contiene la Guida del pellegrino di Santiago (12). Vera e propria guida degli itinerarî per coloro i quali si recavano in pellegrinaggio. Nel Codex Calixtinus troviamo l’indicazione di tappe, ospizi, pericoli, riferimenti culturali, informazioni storiche, corpi santi e reliquie da venerare.

Narrazione di crociate

La crociata costituisce un esito diretto del pellegrinaggio, infatti nelle fonti medievali è definita iter o peregrinatio e gli stessi crociati sono considerati dei pellegrini. Pellegrini armati che nel 1095 partirono per andare a liberare la Terrasanta dagli infedeli.

Le crociate cambiarono totalmente il concetto di pellegrinaggio e di conseguenza anche tutte le fonti narrative ad esso legate. Ai resoconti di pellegrinaggi redatti per devozione si sostituirono quelli di spedizioni militari. Di queste narrazioni ve ne sono moltissime. La più antica è la narrazione conosciuta con il titolo di Gesta Francorum et aliorum Hierosolymitanorum, è della prima crociata, racconta in uno stile rustico le vicende del viaggio e della guerra dal 1095 al 1099 (13).

Altra considerevole è l’opera di Fulcherio di Chartres intitolata Historia Hierosolymitana seu Gesta Francorum Ierusalem peregrinantium divisa in tre parti: la prima narra gli avvenimenti dal 1095 al 1105; la seconda dal 1106 al 1124; la terza dal 1125 al 1127 (14). È un testo di grande interesse per il suo valore storico poiché Fulcherio fu testimone oculare delle vicende narrate. Se facciamo riferimento agli avvenimenti della prima e della seconda crociata non possiamo tralasciare l’opera di Guglielmo di Tiro (1130-1184) intitolata Historia rerum in partibus transmarinis gestarum (15). Essa si compone di tredici libri e narra degli avvenimenti a partire dal 1095 al 1184. Per la prima parte dell’opera l’autore si basa su una serie di fonti storiche tra le quali spiccano quelle di Fulcherio di Chartres, mentre per gli anni dal 1144 in poi, l’autore si concentra sulla propria esperienza personale e su quella di altri testimoni oculari vicini a lui. L’opera, scritta in un latino molto elegante, costituisce una grandiosa fonte storiografica e topografica ed è il testo più importante per la conoscenza della storia e della geografia della seconda crociata.

Per la terza crociata la fonte principale è l’Itinerarium peregrinorum redatto in Terrasanta tra il 1191 e il 1192 da un canonico inglese che partecipa alla crociata. (16)

Da dopo la terza crociata il genere degli itineraria e descriptiones continua a sovrapporsi con quello delle cronache delle varie spedizioni, un esempio significativo di questo caso è dato da Giacomo Vitry e dalla sua Historia Hierosolymitana abbreviata divisa in due libri. Il primo Historia Orientalis scritto dopo il 1219 contiene una descrizione della Terrasanta e una storia

delle crociate fino al 1193. Il secondo Historia Occidentalis scritto dopo il 1221 narra degli avvenimenti contemporanei della Chiesa di Occidente e degli Ordini religiosi. (17)

Camilla Bigatti

Note

4 Questo tipo di viaggio verrà analizzato e approfondito nel capitolo seguente.

5 Per un esame più dettagliato e per la bigliografia più significativa dell’Itinerarium Burdigalense cfr. Parente, La conoscenza, pp. 245-52. Da ricordare anche C. Milani, Strutture formali nell’ ‘Itinerarium Burdigalense’, in « Aevum », LVII 1983, pp. 99-108

6 Per le edizioni e per i riferimenti bibliografici più importanti cfr Egeria, in Repertorium fontium medii aevi, vol. IV (D-E-F-Gez), 1976 pp. 283-84, e Parente, La conoscenza, cit., p. 256 n. 36; segnalare anche N. Natalucci, Egeria, Pellegrinaggio in Terra Santa, Nardini, Firenze 1991.

7 Per i manoscritti, le edizioni e la bibliografia cfr. Antonini Placentini Itinerarium, in Repertorium fontium medii aevi, vol. III p. 376; si veda anche Parente, La conoscenza, pp. 267-68 n. 64.

8 Edizione del testo in Codice topografico, vol. II pp. 60-66, e in Itineraria et alia geographica, pp. 303-11.

9 Edizione del testo in Codice topografico, cit., vol. II pp. 163-207, in Itineraria et alia geographica, pp. 329-43, si veda anche Itinerarium Einsiedlense, in Repertorium fontium medii aevi, vol. VI, p.469.

10 Edizione del testo – che è conservato nel ms. Cotton, Tiberius, B.5 (sec. X ex.) del British Museum di Londra – in W. Stubbs, Memorial of Saint Dunstan, Archbishop of Canterbury, London 1874 (Rerum Britannicarum Medii Aevii Scriptores, LXIII), pp. 391-95.

11 Per l’edizione del testo si veda Liber Sancti Iacobi-Codex Calixtinus, a cura di W.M. Whitehill, Santiago di Compostela, Edición del Instituto P. Sarmiento de Estudios Gallegos, 1994, vol. I. Cfr., inoltre, A. Moralejo-C. Torres-J. Feo, Liber Sancti Iacobi. Codex Calixtinus, Santiago de Compostela 1951.

12 Ricca bibliografia su questo testo, indicata in maniera esauriente Guida del pellegrino, pp. 137-48; si veda anche Guide du pèlerin de Saint-Jacques de Compostele, in Repertorium fontium medii aevi, vol. v, p. 273.

13 Per i manoscritti, le edizioni e la bibliografia dei Gesta Francorum cfr. Gesta francorum et aliorum Hierosolymitanorum, in Repertorium fontium medii aevi, vol. IV pp. 728-29.

14 Per i manoscritti, le edizioni e la bibliografia dell’ Historia Hierosolymitana cfr. Fulcherio Cartonensis, in Repertorium fontium medii aevi, vol. IV p. 601. Edizione parziale anche in Itinera Hierosolymitana crucesignatorum, vol. I pp. 95-130.

15 Per i manoscritti, le edizioni e la bibliografia si veda Guillelmus Tyrius, in Repertorium fontium medii aevi, vol. V pp. 329-32. Brani con notizie su Guglielmo sono in Itinera Hierosolymitana crucesignatorum, vol. I pp. 7-92.

16 Per i manoscritti, le edizioni e la bibliografia cfr. Itinerarium Peregrinorum, in Repertorium fontium medii aevi, vol. VI pp. 469-70.

17 Per le edizioni e la bibliografia dell’Historia Hierosolymitana, si veda anche Iacobus de Vitriaco, in Repertorium fontium medii aevi, vol. VI pp. 142-43; cfr. anche Itinera Hierosolymitana crucesignsatorum, vol. III pp. 297-391.

Articoli Allegati:

"Pellegrini e Itinerari Medievali Negli Annales Stadenses: il Viaggio (Parte 2)" : Camilla Bigatti

"Pellegrinaggi e Pellegrini" : Camilla Bigatti

Camilla Bigatti
Robert Fulton

Introduzione

Questo articolo nasce con un intento semplice, ossia di attribuire il giusto valore ad un uomo quasi sconosciuto nonostante sia meritevole di grande attenzione. Tale personaggio è l’ingegnere Robert Fulton (1765-1815), che pose le sue invenzioni al servizio del mondo e di un ideale che purtroppo resta  ancora oggi un sogno irrealizzato.

L’attenzione verrà rivolta in particolare alle innovazioni che introdusse nell’ambito navale, come il battello a vapore, il sottomarino e le torpedini. Strumenti diventati famosi con la Guerra Civile Americana (1861-1865) e  la Grande Guerra (1914-1918), nonostante Fulton le avesse già offerte ad uno degli uomini più importanti e potenti del suo tempo: Napoleone Bonaparte.

Immagine 1: Robert Fulton

Il Nautilus

 

Americano di origine, Fulton scelse di recarsi in Europa per lavorare alle sue invenzioni, raggiungendo la città di Parigi nel 1797. Suscitando l’interesse dei francesi riuscì a presentare il progetto di un’arma che mai ci immagineremmo ai tempi della rivoluzione francese o di Napoleone, ossia un sottomarino al quale diede il nome di Nautilus (le cui caratteristiche erano ben differenti da quelle del famoso sottomarino descritto da Jules Verne in 20000 leghe sotto i mari).

I giri di prova del Nautilos partirono il 13 Giugno del 1800. La sua struttura era interamente di legno, lunga 6 metri e larga 2. Per navigare disponeva di due diversi sistemi di propulsione: una vela per la superficie e un’elica manovrata a mano dall’equipaggio quando si trovava in immersione. Quest’ultima, che poteva durare fino ad un massimo di tre ore, si effettuava introducendo direttamente l’acqua in un apposito compartimento, proprio come i sottomarini dei giorni nostri, per poi espellerla con l’aiuto di una apposita pompa nelle fasi di risalita. Per manovrarlo bastavano tre uomini e l’armamento era costituito da una lunga asta munita di un congegno esplosivo (torpedine) che veniva azionato tramite una miccia dopo averlo conficcato nella carena nemica.

 Immagine 2: Il Nautilus di Fulton

Bisogna però precisare che quello di Fulton non fu il primo sottomarino della storia. L’interesse verso le armi sottomarine risaliva già al 1500, soltanto che riuscire a svilupparle richiese tempi molto lunghi, permettendo il loro impiego in battaglia solamente nel 1775 durante la Guerra d’Indipendenza Americana, con l’American Turtle2 di David Bushell3. Un mezzo dalla forma stravagante, ma già dotato di innovazioni tecniche che verranno poi riprese e migliorate proprio da Fulton col Nautilus: come il compartimento dell’acqua per le immersioni o l’utilizzo di una carica esplosiva per affondare le navi nemiche.

(Immagine 3: l’American Turtle di David Bushell)

Per le sue caratteristiche il Nautilus equivaleva ad un vero miracolo d’ingegneria. Da solo avrebbe potuto distruggere le navi inglesi fuori e dentro ai loro porti, il che provocò un sincero entusiasmo nei ministri francesi, prima del loro irreversibile cambio di opinione. Secondo loro quello con cui avevano a che fare era un abominio, capace di recare disonore a chi ne faceva uso perché silenzioso e letale. In questo modo un sommergibilista del 1800 avrebbe ottenuto la stessa considerazione di un pirata, con tanto di cappio al collo come ricompensa e questo sbalordì il povero Fulton, perché secondo la sua morale quella dei francesi era un’esibizione di ipocrisia.

Il sogno di Fulton

A questo punto risulta d’obbligo mostrare uno degli aspetti più interessanti e ambigui di Robert Fulton.

Solitamente gli americani sono conosciuti per la loro passione verso le armi, che hanno sviluppato e creato arrivando a realizzare veri e propri strumenti di distruzione come la bomba atomica (per fare uno degli esempi più calzanti), dando così motivo a numerosi gruppi pacifisti di accanirsi contro di loro anche all’interno stesso del suolo americano; come accadde nel corso della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) o della guerra in Vietnam (1955-1975).

Nel suo caso Robert Fulton rappresentava però un’eccezione singolare, dal momento che puntava al raggiungimento della pace tramite la creazione di armi così potenti da rendere inutili le guerre e indurre le nazioni al disarmo generale4.

Egli era quindi un pacifista5, se così lo possiamo definire, sicuro che le responsabili delle disgrazie del mondo fossero Grandi Potenze come l’Inghilterra, che al tempo deteneva un controllo marittimo indiscusso al quale avrebbe potuto contrapporsi soltanto la Francia, se fornita dei mezzi giusti.

Notiamo quindi che Fulton non giunse a Parigi per caso, soltanto che i ministri con cui dovette confrontarsi non possedevano il suo stesso altruismo e rifiutarono il Nautilus; uno strumento che avrebbe garantito il massimo dei successi, affondando le navi nemiche, col minimo delle perdite in vite umane. «Altro che le palle di cannone e i proiettili a mitraglia che aprono sanguinosi squarci fra gli equipaggi ammassati sui ponti o gli abbordaggi dove volano teste7».

Le Torpedini

Nonostante il rifiuto8 del Nautilus Fulton non volle retrocedere e presentò al ministero della marina francese un nuovo progetto dedicato alle Torpedini (mine sottomarine), congegni che secondo la sua visione avrebbero attirato sicuramente l’attenzione di Napoleone Bonaparte.

Occorre precisare che quando parliamo di torpedini possiamo riferirci tanto alle mine sottomarine quanto agli ordigni usati dai sottomarini. Originariamente il termine torpedine indicava tutti gli esplosivi utilizzati in ambito militare subacqueo, che solo successivamente vennero chiamati mine in senso generale, quindi sia terrestre che marittimo. «Ciò al fine di distinguere gli artifici esplosivi di uso bellico da quelli, detti mine, usati nelle miniere, negli scavi, per abbattere opere murarie etc.  […] Oggi pur essendo più pertinente chiamare mine quelle usate sulla terraferma […], e torpedini quelle impiegate in acqua […], si usa genericamente la sola voce “mina” per indicare qualunque ordigno esplosivo ovunque venga impiegato; pertanto da qualche lustro la voce torpedine è uscita dal linguaggio comune9».

I modelli proposti da Fulton erano due. «Le prime, dotate di molle simili a quelle di un orologio», potevano «scattare verso la superficie mediante un comando a tempo da quattro minuti a quattro ore. Le seconde» erano «ancorate al fondo con dei pesi e» scoppiavano «al contatto con lo scafo dell’unità nemica […] tenute a 5 o 6 piedi di profondità10».

Malauguratamente le ambizioni di Fulton ottennero la loro occasione troppo tardi. Al tempo Napoleone aveva problemi più urgenti da risolvere, tanto che poté interessarsi alle sue proposte soltanto nel luglio del 1804, periodo nel quale lo scienziato si era già allontanato dal paese. La sua nuova meta fu l’Inghilterra, la quale tuttavia respinse a sua volta i progetti del Nautilus e delle mine subacquee  temendo che il loro utilizzo potesse portare anche gli altri paesi a rivolgere simili armi contro la flotta britannica (quindi il piano iniziale dell’ingegnere non era errato). Oltre al danno però si aggiunse anche la beffa, perché Fulton mancò il proprio colpo di fortuna di pochissimo. Come aveva supposto, Napoleone comprese subito il potenziale delle sue invenzioni, tanto che lo stesso imperatore di Francia (era il luglio del 1804) scrisse: «[…] la proposta del cittadino Fulton […] può cambiare la faccia del mondo11».

Il Clermont

Prima di lasciare la Francia Fulton era riuscito a concretizzare un altro dei suoi progetti. Grazie alla Rivoluzione Industriale il 1800 fu un secolo ricco di innovazioni e scoperte che garantirono l’evoluzione del sistema dei trasporti, merito  da attribuire in particolare all’invenzione della macchina a vapore, che venne utilizzata proprio da Fulton per rivoluzionare il mondo marittimo-navale.

I primi esperimenti in questo ambito risalivano già alla prima metà del ‘700, soltanto che i risultati ottenuti non furono mai soddisfacenti a causa della scarsa potenza dei macchinari, così grazie alla sua mente brillante Fulton fu così il primo a realizzare un battello a vapore, che esibì lungo i canali della Senna nel 180312.

Purtroppo però, anche in questo caso i ministri francesi si rivelarono poco lungimiranti verso il suo  genio e successivamente gli inglesi non esitarono a fare altrettanto, dal momento che continuavano a preferire i loro più veloci e fidati velieri a quella nave lenta e pesante che gli si stava proponendo.

In questo modo, nei primi anni dell’800 le navi a vapore rimasero ancora avvolte dall’ombra perché a renderle malgradite c’erano complicazioni come la scarsa efficienza delle macchine, la dipendenza da grandi quantità di carbone e quel debole sistema di mozione costituito dalle pale laterali (le quali precedettero l’invenzione dell’elica) capaci di spezzarsi come fuscelli sotto i colpi dell’artiglieria nemica13. Soltanto negli anni ’50 gli studiosi cominciarono a dedicarsi seriamente alle navi a vapore e in particolare alle corazzate.

La svolta decisiva di Fulton si ebbe col suo ritorno in America. Conoscendo la fama dell’ingegnere i suoi compatrioti non esitarono ad appoggiarlo, permettendogli di costruire il battello a vapore North River Steamboat of Clermont, conosciuto anche solo come Clermont14, inaugurato l’11 agosto del 180715 sul fiume Hudson.

Immagine 4: North River Steamboat of Clermont

Grazie a questo successo Fulton ottenne un’alta considerazione dal congresso americano, che gli commissionò la realizzazione di una nave da combattimento a vapore, la quale però non poté essere completata a causa della morte del grande ingegnere (24 febbraio 1815). Un vero peccato, perché grazie alla sua mente Fulton aveva congegnato qualcosa di nuovamente incredibile. La nave da guerra a vapore avrebbe avuto «due scafi appaiati della lunghezza di 50 metri, con una larghezza totale di 19 e nel vano tra i due elementi una grande ruota propulsiva di 5 metri di diametro. In uno scafo fu collocata una caldaia e nell’altro la macchina, mentre i due alberi a vele latine s’innalzavano ognuno da uno degli scafi. L’armamento consisteva in 30 cannoni da 32 libre, in un ordigno subacqueo che avrebbe dovuto lanciare palle da 100 libbre sotto la superficie dell’acqua, in pompe capaci di gettare sulla nave nemica acqua bollente per impedire l’abbordaggio e bagnare le munizioni disposte sul ponte16».

Dunque, cosa si può riconoscere a Robert Fulton? Probabilmente non fu l’inventore più fortunato, ma fu uno dei più grandi e questo merito non potrà mai essergli negato. Grazie alle sue conoscenze e abilità era arrivato molto vicino a trasportare il mondo verso la guerra moderna, favorendo l’impiego di quelle armi diventate famose 100 anni dopo con la Grande Guerra (1914-1918) e non solo. In realtà il conflitto che vide il primo notevole impiego delle armi di Fulton fu la Guerra Civile Americana (1861-1865). Ad adoperarle furono soprattutto i confederati su ordine del ministro Stephen Russell Mallory17, più che mai favorevole all’avvio della guerra sottomarina18 tramite l’impiego delle torpedini e dei sottomarini, che non si trattennero dall’infliggere pesanti perdite alla flotta nordista in più di un’occasione. Celebre fu in particolare l’impresa del sottomarino Hunley, un mezzo quasi del tutto simile al Nautilus,  che la sera del 17 Febbraio 186419 affondò la fregata a vapore Housatonic nelle acque di Charlestone, colando poi a picco insieme ad essa per ragioni che purtroppo non si sono ancora svelate.

(Immagine 5: il Sottomarino Hunley della Confederate States Navy)

Data l’efficienza delle sue armi, probabilmente il maggiore dispiacere di Fulton fu legato all’impossibilità di realizzare i suoi sogni di pacificatore. L’armonia tra gli uomini non si poteva certo ottenere fornendogli nuove armi con cui combattersi e questa realtà pare essere trascurata ancora oggi nonostante la storia abbia fornito tanti spunti ed esempi da cui poter imparare. 

       

                                                                                                            Emanuele Bacigalupo

Note

1G. Blond, Storia della Grande Armèe, cit. p. 32.

2 L. Musciarelli, Dizionario delle armi, cit. p. 614.

3 D. Macintyre - Bathe Basil W.: Man of War: a history of the combat vessel, Gothenburg, Sweden, by Tre Tryckare, Cagner & Co., 1969, cit. p. 165..

4 G. da Frè, Storia delle Battaglie sul mare, cit. pp.254.

5 Edizione speciale per Il Giornale, Militaria: storia, battaglie, armate, Mondadori Electa S.p.A., Milano, 2006, Vol.7, cit.pp. 80-81.

7 G. Blond, Storia della Grande Armèe, cit. p. 33.

8 D. Macintyre - Bathe Basil W.: Man of War,cit.  p. 165.

9  L. Musciarelli, Dizionario delle armi, cit. p. 614..

10 G. Blond, Storia della Grande Armèe, cit. p. 33.

11 G. Blond, Storia della Grande Armèe, cit. p. 34.

12 G. Blond, Storia della Grande Armèe, cit. p. 34.

13 G. da Frè, Storia delle Battaglie sul mare, cit. p.255.

14 E. Abranson, La Storia della Nave, Mondadori, Milano, 1977,  p.72.

15 G. da Frè, Storia delle Battaglie sul mare, cit. p.255.

16 G. Giorgerini, Storia della marina: Profili, Milano, Fabbri Editori, 1978, cit. p. 1.

17 G. da Frè, Storia delle Battaglie sul mare, cit. p. 253.

18  R.Luraghi, Storia della guerra civile americana, cit. p. 307.

19 D. Macintyre - Bathe Basil W.: Man of War,cit.  p. 166.

 

Note Immagini

1: https://www.pinterest.de/pin/473018767087115429/

2: Macintyre D.- Bathe Basil W.: Man of War: a history of the combat vessel, cit. p.167.

3: Macintyre D.- Bathe Basil W.: Man of War: a history of the combat vessel, cit. p.166.

4: G. Giorgerini, Storia della marina: Profili, Milano, Fabbri Editori, 1978, cit. p. 1.

5: G. Giorgerini, Storia della marina: da Trafalgar a Tshushima, cit. p. 75.

 

Bibliografia

  1. Blond G., Storia della Grande Armèe, Vivere e morire per l’imperatore: l’epopea della perfetta macchina da guerra di Napoleone, Milano,Rizzoli, 1981. Paris, Èditions Robert Laffont, S.A., 1979.

 

  1. da Frè G., Storia delle Battaglie sul mare, da Salamina alle Falkland. Bologna,Odoya srl, 2014.

 

  1. G. Giorgerini, Storia della marina: da Trafalgar a Tshushima, Milano,Fabbri Editori, 1978.

 

  1. G. Giorgerini, Storia della marina: Profili, Milano,Fabbri Editori, 1978.

 

  1. Macintyre D.- Bathe Basil W.: Man of War: a history of the combat vessel, Gothenburg, Sweden, by Tre Tryckare, Cagner & Co., 1969.

 

  1. Luraghi R., Storia della guerra civile americana, Torino,Einaudi, 1966.

 

  1. Musciarelli L., Dizionario delle armi, Verona, Arnoldo Mondadori Editore, 1971.

 

  1. Edizione speciale per Il Giornale, Militaria: storia, battaglie, armate, Mondadori Electa S.p.A., Milano, 2006, Vol.7

Emanuele Bacigalupo
Vette Nere

Vette nere: quando il fascismo vinse le alpi

Intorno all’alpinismo ruotano molti miti, nati da quell’aura di mistero che circonda le montagne e dalle memorabili gesta che alcuni uomini hanno saputo compiere in condizioni estreme. I valori e la purezza di questa attività, opposti ai vizi e alla frenesia della vita urbana, hanno avuto come rovescio negativo quello di portarla a essere idealizzata e mistificata. Così, ancora oggi , resiste l’idea che l’alpinismo sia sempre rimasto neutrale di fronte al contesto storico-politico. Per sradicare questo mito e affrontare un tema poco conosciuto, alcuni studiosi della storia alpinistica hanno iniziato a pubblicare lavori incentrati sull’analisi dei rapporti tra alpinismo e politica. In Italia, l’attività alpinistica è stata sin dalle origini legata alle vicende politiche e agli ideali nazionalistici. Da un’illuminazione del ministro delle finanze Quintino Sella venne fondato nel 1863 il Club Alpino Italiano, seguendo l’esempio inglese ed austriaco. In un periodo concitato dal punto di vista politico, gli interessi scientifici delle primissime ascensioni persero d’importanza a scapito della conquista “fisica” delle vette da celebrare come montagne dell’Italia appena unificata. Dopo la Grande Guerra, che esasperò alcuni tratti nazionalistici e militari dell’associazionismo di montagna, i circoli alpinistici furono inquadrati progressivamente nel regime fascista.

Nel caso del CAI, il 1927 segnò la sottomissione al fascismo. Il Club venne inglobato nel CONI, « che aveva espresso nel suo statuto un vincolo di piena sudditanza ai voleri del potere politico».1 Il fascismo aveva tutto l’interesse di far gravitare nella propria orbita il CAI, il ruolo svolto nell’assimilazione dei nuovi confini e nella promozione di un’ identità alpina a livello nazionale rendeva l’associazione un importante centro culturale e propagandistico. Inoltre uno dei punti centrali del CAI era rappresentato dall’interesse per i giovani e la loro formazione, aspetto condiviso fortemente anche dal regime fascista. L’attività giovanile che si avvicinava all’alpinismo, considerato già in passato come scuola per il fisico e la morale, diventava agli occhi del regime un sistema per instillare un’educazione militare e migliorare il futuro della “razza italiana”.

Dopo un anno sotto il comando di Augusto Turati, le redini del CAI passarono a Angelo Manaresi. La presidenza di Manaresi durò ben tredici anni, dal 1930 al 1943, interessando uno tra i periodi più floridi dell’alpinismo italiano. La scelta del PNF non fu casuale: alpino medagliato della Prima Guerra mondiale2, Manaresi aveva dimostrato la sua fedeltà al partito fin dalle origini, sostenendo il potere fascista nelle zona di Bologna. Il suo ruolo fu premiato con nuove cariche e numerose onorificenze: « Dal 1921 al ’23 è deputato al Parlamento. Nel marzo ’26 è presidente dell’Opera Nazionale Combattenti, nel ’28 commissario straordinario dell’Opera Nazionale Alpini [Associazione Nazionale Alpini] di cui diventa presidente nel ’29. Dal ’29 al ’33 è sottosegretario presso il Ministero della Guerra. Nel ’30 viene eletto presidente del CAI e dal ’33 al ’35 è Podestà di Bologna».3 La città felsinea fu il luogo di nascita per Manaresi, il 9 luglio 1890, e anche dove ottenne la laurea in legge. Dopo la fine della guerra tornò a Bologna e diventò tra i principali protagonisti della lotta politica che infervorava le piazze e le vie bolognesi. La sua esperienza da alpino durante la guerra e l’appartenenza al CAI, per cui era tesserato come socio, rendevano Manaresi un appassionato ed esperto di alpinismo, soprattutto un conoscitore degli ambienti legati all’associazionismo di montagna. Inoltre Manaresi aveva partecipato in prima linea agli scontri con i socialisti bolognesi e nel 1930 descriverà alcuni episodi nell’articolo Ricordi di Bologna rossa, tra i quali inserisce la strage di Palazzo d’Accursio. Ma all’interno della narrazione c’è anche la prova di come alcune « sedi non politicamente pertinenti (quali erano appunto i locali del CAI)»4 fossero utilizzate da Manaresi e altri esponenti come ritrovo abituale. Secondo Pastore, « l’avvocato ed ex ufficiale degli alpini […] rappresenta, nel contesto della lotta politica bolognese, un momento importante di coagulo fra l’esperienza vissuta della guerra, l’appartenenza alla cerchia dell’alpinismo organizzato e la crescita del composito movimento fascista».5 La figura di Manaresi raccoglieva in sé i consensi degli ambienti alpinistici e dei gerarchi fascisti, anche se nella zona emiliana i contrasti all’interno del movimento fascista non permettevano di ottenere un supporto omogeneo. L’avvocato bolognese dovette affrontare queste lotte di fazione e si schierò « dalla parte della figura emergente del giovane Dino Grandi». 6

Quindi dal maggio 1930 vennero affidate le redini del CAI a Manaresi, che aveva già ottenuto la presidenza dell’Associazione Nazionale Alpini e diventava il principale rappresentante dell’alpinismo civile e militare. Le due associazioni avevano subito lo stesso destino quando le proprie sedi furono spostate a Roma e i propri regolamenti furono stravolti dal regime, da quel momento condivisero anche lo stesso presidente. Manaresi fu subito chiaro nel spiegare le nuove linee guida del CAI (a questo proposito l’analisi da parte degli studiosi Mestre e Pastore del primo editoriale dell’avvocato bolognese è significativo). Manaresi infatti «passava subito a sottolineare l’appartenenza del CAI al CONI e quindi la dipendenza del club dal PNF: era un modo di dire a chi spettasse prendere decisioni, di limitare la propria responsabilità, ma anche di minacciare indirettamente chi si fosse opposto».7 Oltre alla totale sottomissione al regime, l’editoriale « racchiude al tempo stesso la volontà del gerarca bolognese di rinsaldare lo spirito patriottico nel solco dell’esperienza della guerra e l’intento dichiarato di garantire il massimo di devozione e di ubbidienza al regime».8

Con l’avvento di Manaresi la fascistizzazione del CAI venne perfezionata e il mondo alpinistico che vi ruotava intorno ne subì gli influssi. Il presidente bolognese vedeva l’associazione « come un corpo ancora sano, anche se viziato dalle rivalità interne», ma sperava nel nuovo corso iniziato dalla propria presidenza e dalle nuove regole che « vengono presentate come semplici ritocchi formali (non si parla più del congresso, ma dell’adunata del CAI)».9 Queste novità avevano l’obbiettivo di riformare l’associazione e dimostrare la superiorità « del comando di vertice contro la discussione democratica di base»10, accentrando di fatto il potere nelle mani del presidente. Quest’ultimo saprà raccogliere un certo consenso negli ambienti alpinistici, soprattutto grazie alla sua esperienza e alla passione per la montagna, e in alcuni casi si porrà a difesa di essa, come durante la costruzione della funivia Breuil-Plan Maison e del seguente segmento che saliva fino al Plateau Rosa. 11 I contrasti che ne nacquero non incrinarono i rapporti tra Manaresi e il regime, tanto che il gerarca bolognese farà marcia indietro e accetterà i nuovi collegamenti nella conca del Breuil. La fedeltà dell’avvocato bolognese al partito fascista non può essere messa in discussione, il suo rapporto con Mussolini si basava in gran parte sugli scambi epistolari e aveva ottenuto il supporto dei più importanti gerarchi fascisti, oltre a quello del Duce stesso. La conseguenza di ciò fu ben evidente nel destino del CAI: l’associazione, ormai senza più una propria indipendenza e sotto il pieno controllo del regime, diventerà una delle principali organizzazioni fasciste nell’addestramento dei giovani e pianificatrice, di facciata, delle future grandi imprese alpinistiche.

I cambiamenti, anche i più piccoli, non si fecero attendere; dopo tre mesi dall’insediamento di Manaresi il distintivo del CAI venne modificato, il nuovo stemma presentava un’aquila stilizzata e l’aggiunta di un fascio littorio nella parte inferiore dello scudo.12 Inoltre nel 1931 fu richiesto dal presidente del CAI « che il Club fosse un ente con riconosciuta capacità giuridica», con l’obiettivo di « garantire al CAI una maggiore capacità d’azione autonoma nell’ambito delle scelte amministrative e della posizione giuridica, i cui riflessi erano del resto evidenti anche sul piano del governo di un’associazione impegnata in campo sportivo e culturale».13 Tuttavia questi furono solo i primi segnali dell’intensa politica che Manaresi attuò all’interno del CAI. L’azione del presidente bolognese si sviluppò attraverso progetti a lungo termine basati su tre aspetti dell’ideologia fascista: italianizzazione, militarizzazione e gioventù. Il primo aspetto strinse la morsa del regime fascista intorno al CAI e interessò i rifugi alpini. Il Club Alpino Italiano diventò l’unica associazione alpinistica riconosciuta dal regime fascista: « Lo dimostra bene la volontà esplicita di smantellare ogni altro organismo associativo impegnato nella montagna a carattere politico o confessionale».14

L’ufficializzazione del CAI come unica associazione alpinistica italiana era tesa ad evitare un’eccessiva autonomia delle sezioni periferiche o di altre organizzazioni, soprattutto di quelle appartenenti alle regioni ottenute con la vittoria della Grande Guerra. La zona del Trentino e del Sudtirolo era « in una posizione geografica e politica delicata e strategica, per la dislocazione di un gran numero di rifugi già appartenuti al DuÖAV, e per la volontà del governo di accelerare l’italianizzazione e neutralizzare l’influenza linguistica e culturale germanica».15 Per questo motivo nel 1931 la sezione di Bolzano venne commissariata e divenne presidente lo stesso Manaresi; questo cambiamento comportò una stretta sulla selezione del personale nei rifugi e delle guide del CAI.16 L’ultimo atto della politica di italianizzazione dei nomi, che interessò anche molti paesi alpini, colpì il CAI, costretto nel 1938 a ribattezzarsi Centro Alpinistico Italiano.

L’aspetto della militarizzazione interessò le montagne e i soci, vecchi e nuovi, del CAI; « Durante il processo di costruzione degli alpinisti il regime si stava appropriando sia delle persone che delle montagne».17 Le Alpi diventarono nuovamente un luogo da conquistare, un’appropriazione che avveniva attraverso la scalata e la messa in vetta di un fascio littorio o di altri simboli fascisti incisi nella roccia. Nello studio di Marco Armiero viene descritto un documentario del 1935 che mostra un evento significativo; « il film raffigurava un gruppo di giovani fascisti che attaccavano la montagna per installare­­­ – era una mania– un fascio littorio sulla cima della Torre Venezia a 2,400 metri».18 Per difendere simbolicamente le nuove e vecchie frontiere si pensa, « a metà degli anni Trenta, di edificare grandi fasci littori da dislocare ai passi alpini».19 Così un fascio littorio venne installato il 7 ottobre 1935 sul Colle del Moncenisio, al confine con la Francia. Il progetto del regime era quello di rinforzare la nazionalizzazione delle Alpi, popolazione alpina compresa, attraverso scalate, gite di gruppo che assomigliavano sempre di più ad esercitazioni militari e marce. Lo stesso fenomeno di militarizzazione coinvolse i soci del CAI, a fronte di una maggiore apertura verso tutte le classi sociali e con modalità di reclutamento che portarono il numero degli iscritti a raddoppiare in tre anni: da 30.000 membri nel 1930 a 63.000 nel 1933.20 Questo dato è anche frutto degli accordi che il CAI prese nel 1928 con alcune tra le organizzazioni fasciste di massa più grandi, come l’Opera Nazionale Dopolavoro e i Gruppi Universitari fascisti. In questo modo l’associazione alpinistica diventò una vera e propria organizzazione di massa. A suggello della militarizzazione del CAI, nel 1936 fu eletto come presidente militare il Generale e Ispettore delle truppe alpine Celestino Bes, che affiancava il presidente generale Angelo Manaresi.

Il terzo aspetto della politica del gerarca bolognese, ossia quello riguardante la gioventù, comprende e unisce i due punti precedenti. Futuro della “razza italiana”, i giovani dovevano essere avviati dai dirigenti fascisti ad attività favorevoli alla loro crescita ed educazione, con un certo riguardo alla preparazione militare. Durante il ventennio fascista l’alpinismo diventò una delle principali discipline nella formazione dei giovani italiani. L’introduzione di quest’ultimi nel CAI rappresentò una sfida per Manaresi, costretto ad attivare « un meccanismo di reclutamento di forze giovani e allineate per consolidare, quantitativamente e qualitativamente, il corpo sociale del CAI».21 La collaborazione con i GUF rappresentò la soluzione ai problemi e nel 1932 ben quarantamila universitari fascisti appartenenti all’organizzazione furono iscritti automaticamente al CAI. Questa « decisione, presa di concerto nel 1932 fra la segreteria generale dei GUF e la presidenza Manaresi con l’avallo di Achille Starace, di inquadrare automaticamente i 40.000 universitari fascisti nel Club alpino avrebbe avuto l’obiettivo di abbassare l’età media dei soci, di conferire un maggior slancio all’azione delle sezioni territoriali e di promuovere il ruolo»22 della gioventù.

Le novità che interessarono strettamente il mondo alpinistico, apportate da Manaresi, furono più limitate ma non meno importanti. Sotto la presidenza del gerarca bolognese si costituì, nel 1930, il Consorzio Nazionale Guide Alpine e Portatori, alla diretta dipendenza del CAI; quest’ultimo curava l’amministrazione e la formazione. Due anni dopo venne fondata a Chamonix l’UIAA (Unione Internazionale delle Associazioni Alpinistiche) e nella lista delle associazioni fondatrici figura il CAI, che avrà un ruolo decisivo nel definire lo statuto dell’organizzazione internazionale. Infatti « si era tenuto a Cortina, e precisamente dal 10 al 14 settembre 1933, il 4˚ congresso internazionale di alpinismo» dove la proposta italiana sullo schema di statuto dell’UIAA « aveva prevalso su quello, a carattere liberale, proposto da svizzeri e francesi».23 Inoltre si moltiplicarono le competizioni sportive alpinistiche e che prevedano le diverse discipline della montagna, come lo sci e l’alpinismo; nel 1933 iniziò la gara probabilmente più famosa, il Trofeo Mezzalama. Anche una « parte dei Giochi del Littorio era dedicata specificamente agli sport invernali e alle attività alpinistiche».24

L’inizio della seconda guerra mondiale e l’intervento militare dell’Italia a fianco della Germania mostrò la sottomissione completa del CAI al regime e la presa di Manaresi sull’associazione alpinistica. Già prima dello scoppio della guerra entrò in vigore il foglio disposizioni, firmato da Manaresi l’8 maggio 1939, che modificava l’articolo 12 dello statuto e « imponeva ai soci di qualsivoglia categoria (onorari, vitalizi, ordinari e aggregati) l’appartenenza esclusiva» 25 alla “razza ariana”. Questo evento permette di comprendere quanto il CAI fosse ormai inquadrato nel regime fascista. Uno “standard” che fu mantenuto due anni dopo, a guerra in corso, quando arrivò da Manaresi « la decisione […] di scorporare il Centro alpinistico italiano dal CONI e di porlo direttamente alle dipendenze del PNF».26 Il cambiamento fu giustificato dalla situazione politica e dai « compiti militari che in tempo di guerra prevalevano sull’impegno sportivo»27, che pian piano si affievoliva con la diminuzione delle scalate alpinistiche e delle altre discipline di montagna. Un periodo di grandi imprese a livello alpinistico si chiuse, mentre la guerra continuava a imperversare. Le pubblicazioni del CAI si intrisero ulteriormente di retorica fascista, nei « verbali delle riunioni dei soci delle sezioni del CAI tenutesi agli inizi della seconda guerra mondiale, sentiamo risuonarvi il richiamo ai valori che devono essere difesi dai cittadini ancora di nuovo alle armi: la difesa dei sacri confini italiani e il senso del dovere per la gloria della nazione, spinto sino all’estremo sacrificio».28

La guerra coinvolse i soci ma anche il presidente Manaresi, che chiese e ottenne di essere reintegrato nei ranghi militari e fu arruolato come tenente colonnello, mentre in parallelo continuò la sua attività di presidente del CAI e passò in rassegna alcuni reparti in qualità di massimo esponente del 10˚ reggimento alpini.29 Per ben due volte Manaresi si recò sul fronte russo e durante la seconda spedizione toccò con mano lo scontento delle truppe italiane, preludio alla caduta del regime.30 Quando questo avvenne il 25 luglio 1943, Manaresi scomparve da Roma e il primo agosto inviò due telegrammi, uno a Badoglio e uno al re, dove assicurò il suo supporto e la sua devozione; questo gesto comportò una rischiosa esposizione e infatti, il 17 ottobre 1943, venne tradotto in carcere dalla milizia della Repubblica Sociale. La sua scarcerazione dopo due mesi fu probabilmente avvallata da Mussolini. L’ex gerarca tornerà a praticare l’attività da avvocato e morirà il 6 aprile 1965.

L’influenza del fascismo non si fermò solamente a intaccare e mutare la struttura e il regolamento del CAI, ma fu attiva anche nel campo culturale. Per il regime fascista, l’alpinismo rappresentava una delle migliori opportunità per modellare il “nuovo italiano”. L’attività di montagna destava interesse per i suoi influssi benefici sul fisico e sulla mente, che potevano elevare e migliorare la “razza italiana”. Manaresi si interessò alla questione, descrivendo in una sua opera un gracile intellettuale e uno sportivo senza intelligenza. L’alpinismo, appunto, poteva essere la soluzione al problema: « L’arrampicata era un viaggio spirituale e materiale, probabilmente l’unico esercizio fisico capace di riconciliare la mente e i muscoli, provocando la pace tra i due personaggi della parabola di Manaresi».31 Per questi motivi l’alpinismo diventò uno degli sport più enfatizzati dal regime: le sue imprese “maschie” e “ardite” potevano certificare la superiorità della “razza italiana” e preparare una nuova generazione di alpinisti/combattenti. Tuttavia, durante gli anni trenta, le prime pagine dei giornali sportivi furono monopolizzate principalmente da quattro sport: ciclismo, calcio, boxe e atletica. L’alpinismo riuscì a ritagliarsi comunque un proprio spazio grazie alle imprese di scalatori diventati celebri nel tempo come tra i principali dell’era del sesto grado.

Le loro gesta non sarebbero però del tutto comprensibili se prima non si chiarissero le nuove influenze culturali che interessarono gli ambienti alpinistici. La nuova spinta che pervase l’alpinismo italiano negli anni trenta non può essere attribuita solamente agli appelli al coraggio e al confronto con il rischio lanciati dal regime fascista. Uno dei motivi di questo rinnovato slancio è riconducibile al libro “Fontana di giovinezza”, opera in cui l’alpinista tedesco Eugenio Guido Lammer descrive le proprie avventure alpinistiche e detta i principi di un nuovo alpinismo più autentico ed estremo, tendente all’eroismo e alla esaltazione del rischio di morire, che in Italia venne tradotto e pubblicato proprio all’inizio degli anni trenta.32 Soprattutto due personaggi fecero proprie queste idee e le rielaborarono adattandole all’ideologia del regime: Julius Evola e Domenico Rudatis. Del primo è impossibile analizzarne la figura in poche righe, data la sua personalità poliedrica e i suoi innumerevoli interessi, tra cui troviamo l’alpinismo, probabilmente una delle passioni meno conosciute di Evola. I suoi scritti portarono all’interno delle associazione idee innovative riguardanti l’approccio verso la montagna e la tecnica alpinistica. Il dibattito che si creò intorno ai testi di Evola produsse una serie di confronti e spaccature tra posizioni divergenti all’interno del CAI. Una delle innovazioni fu l’importanza data da Evola al fattore psichico durante l’arrampicata; questa tesi, apparsa in alcuni articoli, suscitò immediatamente la reazione degli ambienti tradizionalisti, tanto che causò « una messa a punto redazionale della rivista, evidentemente preoccupata all’idea che teorie del genere potessero essere realmente messe in atto da lettori sprovveduti».33 Invece, in altri saggi di Evola riguardanti la pratica alpinistica, viene messo l’accento sul legame tra alpinismo e “razza”. Per provare questo, Marco Armiero nel proprio lavoro analizza il testo di “Razza e montagna”, dove viene notata la « razzializzazione di Evola dell’alpinismo sia come prodotto che come produttore di una razza superiore».34

Inoltre Evola fu un’alpinista vero e proprio che seppe scalare alcune vette di difficoltà elevata. I suoi articoli, che vennero pubblicati sugli organi di informazione del CAI, sono molto significativi per l’analisi della sua concezione dell’alpinismo: « Un racconto alpinistico della salita al Lyskamm occidentale (gruppo del monte Rosa) per la via della parete nord si connota di toni militareschi nella descrizione della fase di progressione su ghiaccio realizzata d’impeto, […] senza riguardi alla sicurezza».35 Da questo estratto emerge la stessa concezione dell’arrampicata che aveva Lammer, ma non viene descritto solamente questo, le pubblicazioni di Evola colpiscono per la loro « miscela di tecnica, di esoterismo e di prestiti nietzschiani».36Infatti « in un articolo del 1931, apparentemente tecnico, dedicato alle forme di allenamento, si avvale dell’esempio delle straordinarie capacità di sforzo e di resistenza del corpo degli yogi [ coloro che praticano yoga]».37

Da queste valutazioni prese spunto l’altro personaggio di spicco del panorama alpinistico italiano, il cosiddetto “profeta del sesto grado” Domenico Rudatis. Nato a Venezia nel 1898, diventò ben presto un « profondo studioso delle filosofie orientali ed […] un seguace della filosofia nietzschiana», mentre la sua passione per la montagna lo portò a svolgere « una acuta analisi di tutto l’alpinismo dolomitico, rivalutando uomini ed imprese che ingiustamente erano rimaste nell’ombra».38 L’influenza di Evola su Rudatis fu forte e viene provata da alcune lettere. Infatti « un nome importante che ricorre più volte negli scambi epistolari di Domenico Rudatis con Attilio Tissi [fortissimo arrampicatore dolomitico] è quello di Julius Evola: il Rudatis ne apprezza, anzi considera “formidabile”, un testo come Rivolta contro il mondo moderno».39 Il lavoro dell’alpinista veneziano « fu veramente fondamentale per il futuro sviluppo dell’alpinismo dolomitico italiano».40 È bene specificare italiano perché fino al 1929 le scalate più spettacolari e difficili erano state compiute da alpinisti tedeschi, provocando negli ambienti dell’alpinismo nostrano un crescente senso di sfiducia e di inferiorità rispetto alla scuola tedesca. Quest’ultima aveva come massimo esponente quel Solleder che, con la sua via al Civetta, fissò il paletto del sesto grado. Rudatis, attraverso i suoi scritti e la sua attività alpinistica, diede una scossa all’intero movimento. Intanto « formulò una propria ideologia, in cui l’alpinismo e soprattutto l’arrampicata estrema erano il mezzo ideale per superare se stessi, per uscire dalla vile condizione soggetta al destino e per scoprire una dimensione di libertà in cui ci si riuniva a tutte le forze del cosmo».41 Per realizzare però questo superamento del limite e arrivare alla sommità della vetta e della propria anima bisognava annullare il gap esistente con la scuola tedesca. In questo senso Rudatis « in una serie di brillantissimi articoli illustrò e diffuse anche in Italia i sistemi e le idee che avevano permesso le grandi realizzazioni dei tedeschi sulle Dolomiti».42 Fu lui stesso, nel 1929, a eguagliare l’ impresa di Solleder con la salita dello spigolo della Busazza, situato sempre sul Civetta e formato da una parete di 1200 metri.43 Ma il suo lavoro non fu sempre accolto con entusiasmo. Gli articoli di Rudatis non furono sempre compresi, anzi molti si schierarono contro il “profeta” per aver rivalutato le imprese tedesche nel dopoguerra e essere « un fanatico ed esaltato cultore di filosofie trascendentali».44 Le critiche maggiori però le suscitò la sua posizione di orientalista, in un momento in cui lo scontro, a causa di diversi fattori, era all’apice. Rudatis difese lo stile dell’arrampicata orientale, che si differenziava da quello occidentale per l’utilizzo di movimenti acrobatici durante la scalata, data soprattutto dalla diversa composizione superficiale della parete. I suoi interventi suscitarono sempre le reazioni degli avversari, colpiti dalla tesi della superiorità delle Dolomiti: « In un altro articolo Rudatis dichiara chiaramente che l’arrampicata nelle Dolomiti produceva un tipo differente di cittadino, radicalmente superiore di quelli “equiparati” nelle democrazie occidentali, e spiritualmente rinnovati dal fascismo italiano».45 Come si può notare, anche Rudatis supportava il fascismo, tanto che vedeva nelle nuove imprese alpinistiche un riflesso del nuovo clima instaurato dal regime.

Evola e Rudatis furono quindi gli esponenti principali del nucleo intellettuale legato al mondo alpinistico di questo periodo. I loro articoli contribuirono a creare un nuovo tipo di approccio verso la montagna, che innalzava il ruolo del fattore psichico a fianco di quello fisico e esaltava la “razza italiana”. L’influenza che generarono Evola e Rudatis, due figure completamente innovative , portò scompiglio in un’associazione tradizionalista come il CAI. Con gli scritti e le salite di Rudatis la componente orientalista dell’associazione acquisì una maggiore fiducia nei propri mezzi e si compattò ulteriormente. Anche se i tradizionalisti erano ancora la maggioranza del CAI, lo spirito innovatore di Evola e Rudatis fu fondamentale nell’introduzione di tematiche che influenzeranno il mondo alpinistico negli anni seguenti. Furono anche i più fascisti degli ambienti alpinistici, quasi una sorta di esempi viventi della figura dell’uomo nuovo voluta dal regime. La nuova generazione di alpinisti che si affacciava sulla scena degli anni trenta mostrò le ambiguità dell’ideologia fascista. Da una parte il motivo è da ricercare nei caratteri di questi personaggi, uomini perlopiù solitari che non avevano passioni oltre la montagna e ripudiavano la politica. Insomma, anche se molti erano « ragazzi cresciuti nell’ambiente del regime ed il regime li appoggiava apertamente in ogni caso, li valorizzava come uomini e sportivi»46, la maggior parte di essi imbraccerà in seguito le armi contro il fascismo. Crollerà così l’immaginario degli alpinisti/combattenti fedeli al regime.

 

di Jacopo Giovannini

 

BIBLIOGRAFIA

Volumi

​ARMIERO, Marco, Rugged Nation. Mountains and the Making of Modern Italy: Nineteenth and Twentieth Centuries, The White Horse Press, Cambridge 2011.

​MESTRE, Michel, Le Alpi contese. Alpinismo e nazionalismi, Centro di Documentazione Alpina, Torino 2000.

​MOTTI, Gian Piero e CAMANNI, Enrico (a cura di), La storia dell'alpinismo, Priuli & Verlucca, Scarmagno 2013.

​PASTORE, Alessandro, Alpinismo e storia d'Italia. Dall'Unità alla Resistenza, il Mulino, Bologna 2003.

​SERAFIN Roberto, SERAFIN Matteo, Scarpone e moschetto. Alpinismo in camicia nera, Centro di Documentazione Alpina, Torino 2002.

Note

​1[1] Crf. A. Pastore, op. cit., p. 133.

​2[1] Crf. Roberto Serafin, Matteo Serafin, Scarpone e moschetto. Alpinismo in camicia nera, Centro di Documentazione Alpina, Torino 2002, p. 68.

​3[1] R. Serafin, M. Serafin, op. cit., p. 69.

​4[1] A. Pastore, op. cit., p. 149.

​5[1] Ibidem.

​6[1] Ivi, p. 154.

​7[1] M. Mestre, op. cit., p. 167.

​8[1] A. Pastore, op. cit., p. 168.

​9[1] Ibidem.

​10[1] Ivi, p. 169.

​11[1] Crf. R. Serafin, M. Serafin, op. cit., p. 110.

​12[1] Crf. supra, p. 48.

​13[1] A. Pastore, op. cit., p. 178.

​14[1] Ivi, p. 175.

​15[1] Ibidem.

​16[1] Crf supra. Pastore descrive «la vicenda di una guida alpina altoatesina radiata dall’elenco delle guide del CAI per la sua scarsa conoscenza della lingua italiana».

​17[1] Marco Armiero, Rugged Nation. Mountains and the Making of Modern Italy: Nineteenth and Twentieth Centuries, The White Horse Press, Cambridge 2011, p. 153, traduzione mia.

​18[1] Ibidem, traduzione mia.

​19[1] A. Pastore, op. cit., p. 176.

​20[1] Crf. M. Mestre, op. cit., p. 168.

​21[1] A. Pastore, op. cit., p. 176.

​22[1] Ibidem.

23[1] Ivi, p. 179.

​24[1] M. Armiero, op. cit., p. 152, traduzione mia.

​25[1] A. Pastore, op. cit., p. 198.

​26[1] Ivi, p. 202.

​27[1] Ibidem.

​28[1] Ivi, p. 205.

​29[1] Crf., rispettivamente, R. Serafin, M. Serafin, op. cit., p. 86; A. Pastore, op. cit., p. 206. Il 10˚ reggimento alpini non è altro che l’ANA, il cambio di nome fu deciso dal regime e rappresenta un’ulteriore prova della militarizzazione in atto.

​30[1] Crf. R. Serafin, M. Serafin, op. cit., p. 88.

​31[1] M. Armiero, op. cit., p. 151, traduzione mia.

​32[1] Crf. A. Pastore ,op. cit., p. 170.

​33[1] Ivi, p. 171.

​34[1] M. Armiero, op. cit., p. 150, traduzione mia.

​35[1] A. Pastore ,op. cit., p. 170.

​36[1] Ivi, p. 171.

​37[1] Ivi, p. 170.

​38[1] G. P. Motti e E. Camanni (a cura di), op. cit., pp. 308-309.

​39[1] A. Pastore ,op. cit., p. 170.

​40[1] G. P. Motti e E. Camanni (a cura di), op. cit., p. 308.

​41[1] Ibidem.

​42[1] Ivi, p. 309.

​43[1] Crf. supra, pp. 313-314.

​44[1] Ivi, p. 309.

​45[1] M. Armiero, op. cit., p. 151, traduzione mia.

​46[1] G. P. Motti e E. Camanni (a cura di), op. cit., p. 364.

Jacopo Giovannini
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Emanuele Bacigalupo

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