top of page

Sezione di Geologia

PERICOLOSITA’ E RISCHIO SISMICO

Come ormai purtroppo ben sappiamo, il territorio italiano è soggetto a frequenti terremoti che possono raggiungere intensità capaci di provocare ingenti danni. Ogni qualvolta avviene uno di questi eventi tutti si interrogano sulle loro dinamiche, con tanto di Talk Show e inchieste televisive, ma, come sempre succede, una volta passato lo slancio del momento ricade tutto nel dimenticatoio. I terremoti però non dormono e ogni tanto rispuntano risollevando problemi e polveroni. Fra i termini che rimbombano maggiormente nei telegiornali nazionali in questi momenti ci sono la “Pericolosità” ed il “Rischio Sismico” che, attenzione, sono ben diversi uno dall’altro. In quanti sanno però cosa di fatto vogliano indicare questi termini? E soprattutto, siamo sicuri di conoscere il loro grado nei luoghi dove abitiamo?

​

Partiamo innanzitutto con il parlare del Rischio che non è altro che una valutazione potenziale dei danni (economici, ambientali, strutturali…) che un dato evento sismico può provocare in una determinata regione. Per definire quindi il livello di rischio di una città o di una regione è necessario prima di tutto valutare tre parametri: la Pericolosità sismica, la Vulnerabilità e l’Esposizione dell’area di indagine. La Pericolosità Sismica è la probabilità che un evento avvenga in una determinata area in funzione delle caratteristiche geologiche dell’area stessa, il valore di Vulnerabilità si basa invece sulle caratteristiche del o degli abitati presenti e, infine, l’Esposizione indica il valore economico del territorio, espresso sia in termini di quantità e di tipologia di strutture che in termini di densità di popolazione. Essendo che il valore di rischio è il risultato della moltiplicazione di questi termini se uno di essi è “0” allora il rischio dell’area diventa nullo.

​

Pericolosità e rischo sismico
geo1.jpg

 

Bene, ma quindi noi cosa possiamo fare per annullare il rischio? Quali sono i valori che possiamo annullare? La risposta è nessuno. Se infatti la Pericolosità è una caratteristica intrinseca del territorio e l’esposizione è un valore “costante”, l’unico dato su cui possiamo intervenire è la Vulnerabilità. La costruzione però di edifici e strutture in grado di resistere a qualsiasi evento è però di fatto impossibile per motivi sia ingegneristici che economici. La vulnerabilità di un’area però può e deve essere minimizzata, ad esempio, con opere di messa in sicurezza o edifici a struttura antisismica in grado di resistere a magnitudo superiori a quelle dei terremoti più frequenti.

Come fare? Lo strumento principe, che ciascuno di noi è libero di consultare sul sito dell’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia), è la “Mappa di Pericolosità Sismica del Territorio Nazionale” che si basa su una marea di dati su tutta la sismicità del territorio e sui relativi valori di accelerazione, velocità e spostamento del suolo ricavati dai sismogrammi. Per poter “colorare” e dividere in zone la nostra carta è però necessario definire l’evento sul quale vogliamo basare il tutto, detto evento limite, in termini di scuotimento del suolo e non di magnitudo, che è infatti un dato poco utile dal punto di vista pratico per l’ingegneria. La scelta di questo evento è data dal suo tempo di ritorno, ovvero il tempo medio che intercorre fra due eventi di intensità simile. In base alla legge italiana, le zone sismiche in carta vengono quindi definite in funzione dell’accelerazione sismica del suolo PGA (Pick Ground Acceleration) per un tempo di ritorno di 475 anni, corrispondente ad una probabilità di superamento del 10% in 5 anni.

​

Attenzione! Questo dato non ci dice che un evento deve accadere inesorabilmente ogni tot anni, ma piuttosto ci fornisce la sua probabilità di accadimento. Per fare un esempio, terremoti a magnitudo molto elevata hanno dei tempi di ritorno generalmente molto maggiori e probabilità di accadimento molto basse nel breve periodo perché sono, fortunatamente, molto meno frequenti rispetto ai terremoti a magnitudo molto bassa i quali avranno invece tempi di ritorno molto bassi e quindi probabilità molto elevate nel breve periodo.

Sulla Mappa di Pericolosità Sismica del Territorio Nazionale è quindi possibile leggere il grado di pericolosità sismica della propria area che, come abbiamo visto, non equivale al suo livello di rischio, ma ci fornisce informazioni sullo scuotimento atteso per quell’evento proprio di una probabilità di accadimento del 10% in 5 anni.

 

geoeoeo.png

 

Questa carta fornisce delle importanti informazioni per quanto riguarda la progettazione o l’eventuale messa in sicurezza di edifici nelle diverse regioni e indica, per esempio alla protezione civile, le aree che potrebbero richiedere interventi in caso di eventi straordinari.

Per avere un’idea di quanto detto suggerisco di visitare la mappa interattiva di pericolosità sismica sul sito dell’INGV (Link-> http://esse1-gis.mi.ingv.it/ ) nella quale potete “giocare” modificando la probabilità in 50 anni per vedere quali sono le accelerazioni attese sul vostro territorio. Risalta subito all’occhio che nel passaggio da 2% di probabilità di accadimento all’81% i valori saranno sempre inferiori!

Al seguente link invece trovate la lista dei terremoti registrati in Italia e aggiornata in tempo reale: http://cnt.rm.ingv.it/

​

Bibliografia e sitografia:

http://www.protezionecivile.gov.it/jcms/it/classificazione.wp

http://www.ingv.it/it/

http://www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/31392

D.M. 14 gennaio 2018 (Norme Tecniche per le Costruzioni)

Carlo G. Lai, Elisa Zuccolo – Definizione dell’Input Sismico di Riferimento per la Regione Toscana

L’India, la Pangea, i Plume e i Dinosauri

L'India, la Pangea, i Plume e i Dinosauri

PREMESSA

Se c’è un qualcosa che mi ha da subito affascinato quando nei primi mesi di lezione all’università venivamo introdotti alla Geodinamica con la Teoria della Deriva dei Continenti, è stata l’evoluzione geologica dell’India. Questo fascino non era legato tanto alla sua enorme collisione con l’Asia che ha generato l’Himalaya, la catena montuosa con le più alte vette attualmente presenti sul nostro pianeta, ma innanzitutto alla velocità con cui l’India andò incontro a questa collisione e in secondo luogo al ruolo che questa ricoprì nell’estinzione dei dinosauri!

Quello che cercherò di fare in questo articolo sarà di raccontarvi tutta questa parte di storia geologica basandomi sul modello rivisitato di tettonica delle placche e di paleogeografia di Jason R. Ali e Jonathan C. Aitchison pubblicato su Science nel 2008. I due autori hanno cercato di unificare i modelli paleobiografici, paleogeografici e tettonici già esistenti, lavoro non facile ovviamente visto che stiamo cercando di ricostruire con buona precisione un lungo periodo di tempo: decine di milioni di anni!

 

INTRODUZIONE

Prima di addentrarci nel succo della questione vorrei fare una breve introduzione su continenti, supercontinenti e paroloni simili. Ormai è universalmente riconosciuto dalla comunità scientifica che più di 180 Ma (milioni di anni fa) esisteva un supercontinente, e vai di primo parolone, chiamato Pangea contornato da un unico enorme oceano. Il primo signore che formulò questa ipotesi, e che come sempre accade venne preso per “pazzo”, fu il fisico tedesco Alfred Wegener agli inizi del XX secolo. Wegener, basandosi sulla coincidenza morfologica fra la costa Occidentale dell’Africa e la costa Orientale del Sud America, sulla loro natura geologicamente simile e sulla disposizione di fossili di Mesosaurus e di Glossopteris lungo percorsi irrealizzabili con l’attuale assetto dei continenti, formulò la famosa Teoria della Deriva dei Continenti. Nel corso dei decenni una moltitudine di nuove prove andò a sostegno di questa teoria e piano piano le evidenze hanno mostrato che la Pangea non fu il solo supercontinente ad essere esistito sul nostro pianeta prima del nostro arrivo ma se ne contano almeno altri 3: Pannotia, Rodinia e Vaalbara.

Ma torniamo a noi! Circa 180 Ma la Pangea cominciò a frantumarsi dividendosi prima in Laurasia a Nord, comprendente Nord America, Europa e Asia, e Gondwana a Sud, comprendente Sud America, Africa, Australia, Antartide e la nostra India. Ed è da questo momento che inizia la nostra storia!

1.png

Immagine 1: La distribuzione dei fossili di specie diverse

2.png

Immagine 2: La divisione N-S del Gondwana con Laurasia e Gondwana

IL VIAGGIO

Le immagini che vedrete adesso sono tratte dalla simulazione del modello di Ali e Aitchison e mostrano il percorso dell’India e i movimenti relativi degli altri continenti. Il tutto è stato ricostruito con l’utilizzo principalmente di dati paleomagnetici allineati lungo il complesso Réunion-Deccan-Trap e lungo le dorsali oceaniche. Il centro-Africa è stato utilizzato come polo apparente di riferimento dato che l’Africa viene considerata praticamente ferma.

3.png
4.png
5.png
6.png
7.png
8.png
9.png

>180 Ma: Il Gondwana prima della sua frammentazione. Notare la disposizione degli attuali continenti!

166 Ma: Inizia la separazione fra Est e Ovest Gondwana che andrà avanti almeno per i 50 milioni di anni successivi. Si ha l’apertura dei bacini Somalo e del Mozambico e la probabile formazione di nuova crosta oceanica. In questo periodo la connettività biologica è ancora molto elevata. Le aree in azzurro chiaro forniscono una indicazione riguardo alle terre attualmente emerse che al tempo erano invece sotto al livello medio mare!

120 Ma: Il Madagascar, attualmente a ca. 400 km dalla costa africana, ha interrotto la sua migrazione verso Est e si trova ancora in compagnia dell’India. Nel frattempo, con l’apertura del Sud Atlantico, comparabile in dimensioni al Mar Rosso, è iniziato il distacco del blocco Australia-Antartide-India.

100 Ma: Il complesso India-Seychelles-Madagascar è ormai relativamente distante rispetto ad Antartide e Australia, ancora relativamente vicini, ma la bio-connettività potrebbe essere comunque stata garantita dall’emersione del Kerguelen Plateau, un micro-continente generatosi a seguito dell’intensa attività magmatica di un plume di mantello iniziata ca. a 110 Ma. Dopo la fine del magmatismo il Kerguelen Plateau ha iniziato a essere eroso velocemente e ad andare in subsidenza e si stima che ca. 20 milioni di anni fa sia stato completamente sommerso dall’oceano.

83 Ma: L’India è ora sola soletta in mezzo all’oceano mentre Antartide e Australia si allontanano sempre di più.

68 Ma: In questo periodo di totale isolamento dell’India il livello marino è relativamente molto alto, gran parte di Arabia Saudita, Africa e India è infatti sommersa.

60 Ma: L’India si trova ormai molto a Nord ed è ormai separata da Madagascar e Seychelles. È in un momento particolare della sua evoluzione perché sta attraversando un periodo di 5-10 milioni di anni di intensissime eruzioni vulcaniche che daranno vita al Deccan.

55 Ma: Ora vediamo la situazione più dall’emisfero Boreale. In questo momento l’India ha cominciato la sua collisione con l’arco vulcanico della placca Lhasa. Questa placca oceanica non più esistente subduceva l’Asia e a sua volta era subdotta dall’India in un contesto molto particolare di doppia subduzione consequenziale continente-oceano-continente.

11.png

Present Day: Attualmente il Bacino Indiano si presenta come da immagine nella quale troviamo: in giallo i continenti compresi i margini continentali sommersi e i margini di placca in verde; in arancio-marrone le tre antiche subduzioni che hanno preceduto la collisione India-Asia riscontrati con l’utilizzo della tomografia sismica; in grigio scuro le tracce lasciate dai plume di mantello colpevoli della frammentazione del Gondwana. Di queste tracce possiamo notare la loro disposizione a “binario ferroviario” che sembra proprio registrare il passaggio dell’India la quale sembra quindi essere proprio passata sopra ad uno di questi plume di mantello! Nel paragrafo successivo andremo a vedere cosa questo ha comportato!

10.png

La collisione con l’Asia vera e propria inizierà solo 20 milioni di anni più tardi, a ca. 35 Ma, dopo che la placca Lhasa era stata completamente consumata. La datazione della collisione ci arriva dalla datazione dei fossili marini più giovani ritrovati sull’Himilaya.

12.png

VELOCITA’ DI MOVIMENTO

Grazie ai dati paleomagnetici è stato possibile ricostruire la velocità di movimento dei singoli continenti dalla frammentazione del Gondwana fino ad oggi e si è visto che:

  • Australia, Africa e Antartide hanno mantenuto delle velocità costanti, alcune stime parlano di 2-4 cm/y mentre altre di 3-5 cm/y, tutto sommato comunque velocità relativamente basse e nella media;

  • L’India invece sembra aver avuto differenti velocità durante la sua passeggiata verso Nord e in particolare:

    • Ca. 6 cm/y tra 120 e 73 Ma: velocità di movimento iniziale “normale”;

    • Ca. 20 cm/y tra 73 e 57 Ma: brusca accelerazione

    • Ca. 9.5 cm/y intorno a 57 Ma: brusca decelerazione a seguito della collisione con l’arco vulcanico della placca Lhasa. Velocità comunque superiore alla media.

    • Decelerazione finale fino alla collisione continentale avvenuta a 35 Ma.

Ma cosa ha comportato queste repentine e sostanziali variazioni di velocità? Per capirlo ci vengono incontro Prakash et al (Letters to Nature, 2007) che propongono che la velocità di una placca sia direttamente correlata alla penetrazione delle radici litosferiche all’interno dell’astenosfera. Per verificare questa ipotesi hanno quindi condotto degli studi di tomografia sismica nell’Oceano Indiano che hanno proprio evidenziato come la divisione litosfera-astenosfera (LAB) sia ad una profondità compresa fra i 180 e i 300 km al di sotto di Sud-Africa, Australia e Antartide mentre è <100 km sotto l’India!

Ma quale processo ha portato a questo assottigliamento così radicale? Ricordiamoci che l’India nel suo viaggio sembra esser passata sopra a un plume, ovvero a una fuoriuscita di calore molto intensa dal mantello. Questo potrebbe aver portato a:

  • Fusione di grandi percentuali di litosfera;

  • Diminuzione di massa a seguito della fusione e conseguente aumento esponenziale della velocità di movimento dell’India;

  • Formazione di grosse quantità di magma che fuoriuscendo hanno portato all’accrescimento sostanziale dei Trappi del Deccan;

  • Immissione di enormi quantità di CO2 in atmosfera a seguito delle eruzioni vulcaniche che, insieme all’impatto meteorico avvenuto nell’area del centro America a ca. 65 Ma, ha portato all’estinzione dei dinosauri.

Immagine 3: Differenza di profondità del limite Litosfera-Astenosfera (LAB) al di sotto dei continenti che circonda l’Oceano Indiano

Abbiamo quindi ripercorso l’evoluzione dell’India e cosa questa abbia comportato per il nostro pianeta. Se non ci fosse stato l’attraversamento di quel plume forse l’impatto con l’Asia non sarebbe stato così “traumatico” da formare una catena come l’Himalaya (tutte le volte che lo dico mi viene in mente la voce dell’uomo delle nevi di Monsters & Co., scusate l’OT) e forse il solo impatto meteorico non avrebbe portato all’enorme estinzione di massa che ha segnato la fine del Cretaceo. In tutto questo quindi era destino che i dinosauri si estinguessero, era di fatto arrivato il loro momento dopo milioni di anni di dominio assoluto sulla Terra!

Evandro Balbi

LA GEOLOGIA MILITARE E LA GRANDE GUERRA

Le esperienze precedenti

L’applicazione e la conoscenza della geologia si è rivelata di fondamentale importanza nella conduzione delle operazioni militari, oltre che a risolvere problemi relativi all’approvvigionamento di materiali utili, durante i conflitti in epoca moderna. La prima operazione militare documentata che si è svolta con l’ausilio di questa disciplina, fu nel 1813 con la battaglia del Katzbach, durante le guerre napoleoniche, quando il Professor von Raumer analizzò il terreno dell’allora provincia della Slesia, per conto del Generale von Blücher, il quale portò alla vittoria l’esercito prussiano a scapito dell’armata francese (Kiersch, 1998).

Durante la guerra di secessione americana, l’esercito Unionista vinse importanti battaglie grazie alle conoscenze geologiche dei campi di combattimento: a Gettysburg, nel 1863, respinse 

geo1.png

Figura 1 (a) Sezione geologica schematica della galleria principale, lunga 510 piedi (circa 155 m). In legenda: Sand (sabbia); Sand and clay (sabbia e argilla); Clay (argilla); Marl (marna). (b) Limiti e sezione del cratere formatosi a seguito dell’esplosione (MCPHERSON, 1989)

Geologia militare e Grande Guerra

Bibliografia:

Jason R. Ali, Jonathan C. Aitchison. Gondwana to Asia: Plate tectonics, paleogeography and the biological connectivity of the Indian sub-continent from the Middle Jurassic through latest Eocene (166–35 Ma). Science, 2008.

Prakash Kumar1, Xiaohui Yuan2, M. Ravi Kumar1, Rainer Kind2,3, Xueqing Li2 & R. K. Chadha. The rapid drift of the Indian tectonic plate. Letters to Science, 2007

M.N. Saxena. Geodynamic synopsis of the Deccan Traps in relation to epochs of volcanic activity of the Indian shield, drift of the subcontinent, and the tectonic development of southern and south-eastern Asia. Journal of Southeast Asian Earth Sciences, Vol. 1, No. 4, pp. 205-213, 1986

​

​

​

l’avanzata dell’esercito Confederato trincerandosi dietro a sill (intrusione laminare concordante rispetto alle strutture planari delle rocce ospitanti) di diabasi (rocce gabbriche filoniane, intruse a modeste profondità e a grana fine affioranti, fig. 1) (Brown, 1961); nel 1864, per espugnare le fortificazioni dell’esercito sudista a Petersburg, il colonnello Pleasants, ingegnere minerario, insieme a un gruppo di volontari formato da minatori di carbone, propose di scavare un sistema di tunnel negli strati argillosi e sabbioso-argillosi, fin sotto al campo trincerato nemico (fig. 2).

geo2.png

Questi tunnel furono riempiti di polvere da sparo e nel mattino del 30 luglio, alle 4:45, furono fatti saltare in aria, causando la formazione di un enorme cratere e pesanti perdite (McPherson, 1989). Il primo uso a larga scala di geologi è però registrato con la guerra russo-giapponese (1904-1905), dove entrambe le parti effettuarono rilievi geologici dedicati alle zone di guerra (Whitmore, 1954). Ma è con il primo conflitto mondiale che si ha la consacrazione della geologia come disciplina dell’arte della guerra, dove gli eserciti di entrambi i fronti si sono organizzati con servizi geologici militari per far fronte a problematiche, sia prettamente legate ai combattimenti sia legate all’approvvigionamento di acqua e la realizzazione di opere di ingegneria. Oltre ai numerosi articoli e manuali che furono redatti in concomitanza dell’inizio delle azioni belliche, si ricordano anche opere antecedenti, come: A Rudimentary Treatise on Geology, del Maggior Generale dell’esercito britannico J. E. Portlock, 1867; Geology and Military Geography, dello statunitense A. W. Vodges, 1884; La Guerra y la Geologia, dello spagnolo Rodriguez De Qujano, 1876; Géologie et Géographie militaire, del francese Clerk, 1880; L’importanza della geologia nello studio militare del terreno, del Tenente Colonnello (poi Generale) del Regio Esercito Riva-Palazzi, 1883; l’opera principe, su cui si baseranno i manuali futuri, è l’articolo 

Figura 2 Diabasi affioranti presso Devil’s Den, Gettysburg, Pennsylvania (Carolyn Davis, National Park Service)

del Capitano del genio tedesco (promosso in seguito a Maggiore, alla fine della guerra) W. Kranz, sotto il titolo di Militärgeologie, pubblicato a Berlino nel 1913.

​

La Prima guerra mondiale

 

Nelle prime fasi del conflitto, tutte le forze belligeranti ignorarono l’utilità delle conoscenze geologiche, tranne che per alcune considerazioni riguardanti la scelta dei terreni per la movimentazione delle truppe, poiché si illusero di una rapida conclusione degli eventi. Quando si passò da una guerra di movimento ad una guerra di trincea, emersero diverse problematiche che, grazie alla padronanza della geologia tecnica, si poterono risolvere; si decise quindi di istituire servizi geologici di guerra.

In Germania fu instituito nel 1915 e fu alle dipendenze dell’istituito topografico militare. I geologi erano inquadrati nelle sezioni geologiche (Geologen Stellen) ed eseguivano ricerche minerarie e rilievi geologici (Brooks, 1920). Per quanto riguarda l’esercito austriaco, non si sa con certezza come fossero inquadrati i geologi, ma si sa che furono molto impiegati, soprattutto per caratterizzare la valle dell’Isonzo, sotto l’attenta guida del primo Sottotenente, il Dr. A. Winkler (Häusler, 2013) (fig.3). L’esercito britannico formò un piccolo gruppo di ufficiali che si occuparono principalmente della ricerca di acqua potabile e in seguito affiancarono gli ingegneri minerari per la guerra sotterranea (Brooks, 1920). L’esercito statunitense, dato che entrò in guerra solo successivamente, approfittò delle esperienze degli altri eserciti e formò un servizio geologico militare che lavorò efficacemente, grazie anche al numeroso personale impiegato.

​

Alcune applicazioni

​

Manovre di movimento

Come scritto in precedenza, la prima applicazione della geologia alla guerra è stata la valutazione della praticabilità delle strade e delle aree circostanti per una efficiente direzione delle manovre di terra, andando a distinguere terreni che, a seconda delle condizioni metereologiche, sarebbero stati più o meno praticabili. Grazie a tali rilievi venne constatato che terreni limosi o argillosi diventano delle trappole per la fanteria nei periodi piovosi, mentre i terreni ghiaiosi 

​

geo3.png

Figura 3 Il Dr. Artur Winkler nel 1918

non ostacolano il flusso delle truppe in quanto consentono un migliore drenaggio dell’acqua superficiale. La topografia può frenare le fasi d’attacco ed essa varia in funzione del substrato roccioso e degli eventi geologici più recenti, come frane, alluvioni, ecc. Durante i combattimenti emersero i comportamenti dei vari tipi di terreno, rispetto alle 

geo4.png

conseguenze del fuoco di artiglieria: se sono presenti strati argillosi sovrastanti a strati sabbiosi che contengono acque artesiane, ovvero una falda idrica sotterranea in pressione, nel momento in cui dovesse formarsi un cratere dovuto ad una esplosione, questo si riempirà rapidamente d’acqua, intralciando le manovre di attacco; se invece è presente dell’acqua superficiale e lo strato sabbioso sottostante è asciutto, questa drenerà le acque superficiali evitando l’allagamento di trincee o crateri (fig.4). Verso la fine della guerra, con l’avvento dei primi carri armati, vennero preparate delle vere e proprie mappe per classificare i suoli in base alla manovrabilità di questi mezzi (Brooks, 1920).

​

Figura 4. Conseguenze del fuoco d'artiglieria sul terreno: in alto si vede il riempimento del cratere di acque artesiane; in basso si vede il drenaggio delle acque superficiali nel sottosuolo (Brooks, 1920)

Ripari e protezione dal tiro

La parte essenziale dell’opera protettiva è lo scavo di trincee e dugouts (rifugi scavati perpendicolarmente alla trincea, che venivano utilizzati come quartier generale, dormitori o magazzini), dove i maggiori ostacoli erano rappresentati dalla presenza di falde acquifere e substrato roccioso a basse profondità. Il lavoro del geologo prevedeva, dopo uno studio accurato che poteva comprendere rapidi lavori di esplorazione, l’elaborazione di cartografie (fig.5) e sezioni geologiche (fig.6) nelle quali sarebbero stati messi in evidenza diversi aspetti: natura del terreno o della roccia, lavorabilità, stabilità del terreno ed eventuale presenza di acqua. Queste informazioni erano molto importanti poiché gli scavi dovevano essere eseguiti in tempi brevi e da personale non specializzato ed era necessario quindi iniziare le operazioni fin da subito nei luoghi più adatti. Un manuale di geologia militare tedesco suddivideva il terreno secondo sei gradi di lavorabilità: 1°- solo con la pala; 2°- con la zappa; 3° - con il piccone; 4° - con mazza, palanchino e cuneo di ferro; 5° con i mezzi precedentemente indicati e l’ausilio di mine; 6° - uso esclusivo di mine (Fossa-Mancini, 1925).

geo5.png

Una caratteristica fondamentale, che doveva essere tenuta in considerazione durante gli scavi, è la stabilità del terreno e delle rocce, che influisce sia sulle pendenze delle pareti degli scavi che sulla durabilità degli stessi. Il geologo, dunque, doveva prevedere eventuali situazioni che potessero mettere in pericolo gli occupanti delle trincee, come il comportamento rigonfiante che i terreni argillosi (aumento di volume dipendente dal tempo) e la liquefazione a cui possono andare incontro le sabbie. Ciò successe nelle Argonne, dove un terreno derivante dalla detrizione di arenarie, che nella buona stagione era molto stabile, con le piogge divenne estremamente instabile. 

Figura 5 Carta geologica militare di Montsec, Francia e dintorni (Brooks, 1920)

Sul fronte russo-tedesco e sul fronte italiano si notò che le morene (forme di accumulo di sedimenti mobilitati da un ghiacciaio) quaternarie sono più stabili rispetto a quelle recenti che franavano invece con maggiore facilità (Fossa-Mancini, 1925). La permeabilità (capacità di un terreno, o di una roccia, di essere attraversato da un fluido) dei materiali in cui si scava è un rilevante proprietà da considerare per evitare gli allagamenti dei ripari, i quali sarebbero potuti avvenire sia a causa di acque freatiche, sia di acque di ruscellamento superficiale. Trincee scavate in banchi di terreno impermeabile non avrebbero avuto problemi di allagamento da falda ma avrebbero dovuto essere dotate di un buon impianto di drenaggio delle acque superficiali. Strati permeabili intercalati in strati impermeabili invece avrebbero comportato venute di acque sotterranee, così come la presenza di faglie, alle quali sono associate zone molto fratturate che aumentano la permeabilità nell’ammasso roccioso, formando vie preferenziali per le acque. Gli scavi, inoltre, venivano eseguiti in modo tale da non superare la profondità minima dell’eventuale presenza della falda acquifera, o tavola d’acqua (fig.7).

geo6.png

Figura 6 Sezione geologica della zona del fiume Moselle (BROOKS, 1920)

geo7.png

Figura 7.Sezione schematica di un campo trincerato in Francia (1917-1918); notare come la profondità della tavola d’acqua controlli la costruzione dei ripari (Brooks, 1920)

Guerra sotterranea

Durante la Prima Guerra Mondiale si ricorse molto spesso allo scavo di gallerie da mina, per far saltare le postazioni nemiche. La galleria da mina per essere efficace doveva essere scavata velocemente e con il minimo rumore, dunque era estremamente importante sapere in tempo quali fossero gli strati più idonei ad essere scavati per poter programmare gli attacchi. Inoltre, bisognava evitare di incontrare le acque sotterranee, che avrebbero allagato le gallerie e quindi neutralizzato le azioni offensive. I fattori più importanti di cui tenere conto sono: distribuzione, spessore e strutture degli strati, caratteristiche meccaniche dei terreni e le acque sotterranee. Tenendo a mente quanto scritto, i terreni più favorevoli all’escavazione erano quelli argillosi che, essendo “soffici”, consentivano un rapido avanzamento tramite attrezzi manuali e attutivano i rumori dello scavo. Una buona conoscenza della geologia quindi avrebbe potuto evitare spiacevoli imprevisti; per esempio la presenza di dicchi (intrusioni laminari discordanti di un magma che interseca le strutture planari delle rocce ospitanti o che si intromettono in rocce di aspetto massiccio) di rocce magmatiche, facilmente riconoscibili da foto aeree, rendeva impraticabile la guerra di mina, prevenendo attacchi sotterranei (fig.8). Altri elementi di disturbo, erano le faglie che dislocavano gli strati, ostacolando lo scavo della galleria (fig.9).

geo8.png

Figura 8.Fig. 8 Il dicco preveniva l'attacco sotterraneo, poiché composto da roccia che necessitava l’uso delle mine e quindi rallentava le operazioni d’attacco con il rischio di farsi scoprire dal nemico (Brooks, 1920)

geo9.png

Fig. 9 La presenza della faglia ostacola lo scavo poiché disloca lo strato favorevole, l’argillite (shale) contrapponendone uno più sfavorevole, l’arenaria (sandstone) che essendo più compatta avrebbe rallentato l’escavazione e avrebbe trasmesso meglio il suono degli scavi, facendo perdere l’effetto sorpresa degli attaccanti (Brooks, 1920)

Ricerca, raccolta e distribuzione delle acque

La presenza di un grande numero di soldati al fronte comportò un fabbisogno di acqua senza eguali. Gli acquedotti civili, non potevano far fronte a tali esigenze, poiché parzialmente distrutti, mentre le acque superficiali si inquinarono a causa delle munizioni, vittime e liquami (King, 1919). Era necessario dunque che ogni compagnia fosse dotata di personale e mezzi per trovare e distribuire acqua potabile.

I tedeschi inizialmente lasciarono una qual certa indipendenza nella costruzione degli acquedotti, ciò però comportò uno spreco di fatica e materiali e si ritenne più conveniente l’istituzione di una direzione unica. Si formò una Commissione delle acque per ogni armata, la quale era formata da un ufficiale del Genio, un geologo e un consulente igienista (Fossa-Mancini, 1925), inoltre, ogni armata aveva a disposizione capotecnici e operai specializzati per l’esecuzione dei lavori. L’opera dei geologi era molto presa in considerazione e ognuno di essi aveva l’obbligo di segnare sul “Libro dei pozzi e delle sorgenti” tutte le annotazioni utili che poi venivano unificate nelle “Carte delle acque sotterranee”. Tali carte idrogeologiche rappresentavano l’andamento degli acquiferi con le linee isofreatiche (rappresentano il luogo dei punti di uguale quota assoluta della superficie freatica), la posizione delle sorgenti, le aree dove si conoscevano le acque profonde, la quantità e la qualità delle acque degli acquedotti civili e tutte le opere costituenti gli acquedotti militari. In figura 10 viene raffigurata la carta delle acque sotterranee del Foglio 14 Crépy (scala 1:25.000), nella regione della Piccardia, preparata per la Settima Armata Tedesca Gruppo C (Rose, 2009). Anche il servizio geologico militare inglese preparò carte idrogeologiche simili a quelle dell’esercito tedesco mentre l’esercito americano, nei primi mesi dell’entrata in guerra, non sfruttò molto le conoscenze dei propri geologi per la ricerca idrica.

geo10.png

Fig. 10 Carta delle acque sotterranee, Foglio 14 Crépy (scala 1:25.000) per la Settima Armata Tedesca Gruppo C. Sono rappresentati: Acquiferi in roccia (calcare chalky); Linee isofreatiche; Valli paludose, che impediscono la costruzione di trincee; Sorgenti; Pozzi.

Comunque, durante la guerra, i geologi militari statunitensi, dopo una prima fase di quiescenza, si occuparono molto di idrogeologia, compilando undici carte idrogeologiche che furono preziose per l’approvvigionamento delle acque.

 

Ricerca di materiali utili

Un compito molto importante, affidato ai geologi, fu infine la ricerca e la scelta dei materiali per il calcestruzzo, materiale ampiamente utilizzato per le fortificazioni. I geologi dovevano stabilire la qualità e la quantità del materiale da prelevare, quale pietrisco, ghiaia e sabbia, dalle zone più idonee per l’apertura delle cave. Oltre alle cave per aggregati, dovevano scegliere cave idonee per estrarre pietre da costruzione, calcari per la calce, argilla e torba.

Dopo la guerra

Finita la guerra, la geologia, non fu pienamente apprezzata dai militari, ciò nonostante ebbe una grande importanza nei conflitti successivi: nella Seconda Guerra Mondiale, gli eserciti di Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna istituirono unità geologiche militari. L’esercito statunitense, per esempio, nel 1942 fondò la Military Geologic Unit, la quale partecipò alla pianificazione dell’Operazione Overvlord, per individuare le aree più idonee allo sbarco che portò alla liberazione della Normandia (Rose & Pareyn, 1995). Durante la guerra del Vietnam molte azioni furono pianificate tenendo conto della geologia, così come durante le guerre più recenti, come quella in Afghanistan e le guerre del Golfo, nelle quali si è cominciato ad utilizzare anche immagini satellitari e strumenti GIS (Geographic Information System) (Kiersch, 1998).

​

​

​

Bibliografia

Brooks A.H., 1920. The use of geology on the western front, U.S.~ Geology Survey Professional Paper 128-D. U.S. Geology Survey, pp. 85-124, Wash. DC.

Brown A., 1961. Geology and the Gettysburg campaign, Pennsylvania Geological Survey Education Series, No. 5.

Fossa-Mancini E., 1925. Storia della geologia militare, Giornale di Geologia pratica, vol. XX, 40-110.

Häusler H., 2013. Oberleutnant in der Reserve Dr. Artur Winkler von Hermaden Leiter der Geologengruppe Isonzo im Jahr 1918, Berichte der Geologischen Bundesanstalt, ISSN 1017-8880, Band 103.

Kiersch G.A., 1998. Engineering geosciences and military operations, Engineering Geology, 49(2). 123-176.

King W. B. R., 1919. Geological work on the Western Front, Geographical Journal, 54, pp. 201–215. [215–221 discussion].

 

McPherson. J.M. (Ed.), 1989. Battle Chronicles of the Civil War, Macmillan, New York, pp. 548 549.

Rose E. P. F., Pareyn C., 1995, Geology and the liberation of Normandy, France, 1944, Geology Today, Blackwell Science Ltd.

Rose E. P. F., 2009. Water Supply Maps for the Western Front (Belgium and Northern France) Developed by British, German and American Military Geologists during World War I: Pioneering Studies in Hydrogeology from Trench Warfare, The Cartographic Journal, Vol. 46 No. 2, pp. 76–103.

Whitmore F.C., 1954. Military geology. The Military Engineer XLV| (331), 212.

Emanuele Pasquale

LA SISMOLOGIA

Un sisma si può definire come una liberazione di energia, accumulata in decine, centinaia o milioni di anni, in un dato volume della crosta terrestre e che in poche decine di secondi può scatenare un movimento tellurico.

Nell’antica Cina, i terremoti erano visti come causa di un mancato equilibrio tra due controparti: lo Yin e lo Yang; questo squilibrio era dovuto agli errori commessi dai regnanti di quell’epoca, o almeno questo è quello che si credeva. Fu in quel periodo che Zhang Heng, astronomo, matematico, ingegnere, geografo e inventore, vissuto tra il 78 e il 139 d.C., inventò il primo strumento per monitorare il territorio: il sismoscopio. Interamente realizzato in bronzo, il sismoscopio consisteva in un grande vaso intorno al quale erano disposti verticalmente, con la testa rivolta verso il basso e orientati verso un punto cardinale, otto draghi, ciascuno dei quali reggeva tra le fauci una biglia. Alla base del recipiente, in corrispondenza di ciascun drago, erano disposti dei rospi, anch’essi in bronzo, con la bocca aperta verso l’alto. Se lo strumento avesse rilevato una scossa, una delle sfere di bronzo sarebbe automaticamente caduta nella bocca del corrispondente rospo e la sua posizione avrebbe indicato così la direzione da cui era giunta la scossa.

Sismologia

Con il passare del tempo e l’avanzare delle tecnologie è stato possibile sviluppare strumentazioni sempre più avanzate che, ai nostri giorni, ci permettono di rilevare i movimenti sismici con una precisione tale da identificarne il punto di origine all’interno della crosta terrestre, detto ipocentro, con errori molto piccoli.

Ultimamente si sente sempre più parlare dei danni che questi fenomeni causano alla popolazione, ma questi movimenti, pur essendo dannosi per l’uomo, sono indice che il nostro pianeta è vivo e in continua evoluzione.

I terremoti, a loro modo, sono degli strumenti molto utili per gli scienziati, perché hanno permesso di studiare la struttura e i movimenti che avvengono all’interno della Terra, fino a permetterci di capirne l’evoluzione dalla sua formazione fino ai giorni nostri.

Onde sismiche e stratificazione della terra

Una delle figure più importanti per la sismologia è stato R.D. Oldham, geofisico e sismologo inglese, che contribuì in maniera fondamentale allo sviluppo della teoria della tettonica a placche ed al miglioramento delle conoscenze relative all’interno della Terra. Oldham infatti riuscì ad identificare tre tipi diversi di onde sismiche: le onde P, S e le onde superficiali. Egli inoltre scoprì che questi tre tipi di onde viaggiano a diversa velocità e con modalità di propagazione differenti attraverso l‘interno del nostro pianeta. Quest’ultima caratteristica lo condusse nel 1906 alla sua scoperta più importante: i tempi di arrivo di alcune onde sismiche risultavano maggiori di quanto previsto. Oldham attribuì questo ritardo dei tempi di arrivo alla presenza di un nucleo fluido e, a seguito dei suoi studi e del sempre maggiore interesse verso la sismologia, agli inizi del ‘900 venne quindi formulata l’ipotesi che la struttura interna del nostro pianeta avesse, in prima approssimazione, una simmetria radiale, il così detto “modello a cipolla”, ovvero una struttura a strati concentrici dove ogni strato eÌ€ caratterizzato da uno specifico insieme di proprietà fisiche e chimiche come composizione, pressione e temperatura.

I quattro strati principali del nostro pianeta ad ora riconosciuti sono: crosta, mantello, nucleo estero e nucleo interno.

L’identificazione di questi strati è stata possibile grazie alla presenza di marcate discontinuità che separano in modo netto zone a differenti caratteristiche fisiche e chimiche e che quindi modificano l’andamento e la velocità delle onde sismiche. Alla profondità di alcune decine di km al di sotto dei continenti e a meno di 10 km al di sotto degli oceani, la velocità delle onde sismiche subisce un brusco aumento. Questa variazione ha portato alla scoperta, nel 1909 da parte del geofisico croato, A. Mohoroviçiç, della transizione, che da lui prende il nome, fra la crosta ed il mantello terrestre. Successivamente, nel 1914 B. Gutenberg, fisico e sismologo tedesco identificò una zona d’ombra per le onde sismiche a una profondità di circa 2900km dalla superficie e la ricollegò alla discontinuità che separa il mantello dal nucleo terrestre fluido, confermando quindi l’ipotesi formulata qualche anno prima dal Oldham. Fu solo nel 1936 che si arrivò però al quadro “completo”, quando Inge Lehmann, sismologa e geofisica danese, osservò altre irregolarità delle onde sismiche a una profondità di circa 5100km. Questa evidenza la portò ad ipotizzare una differenziazione del nucleo terrestre e ad identificare la terza e ultima discontinuità principale all’interno del nostro pianeta: la transizione fra nucleo esterno fluido e nucleo interno solido.

Early warning

 

Negli ultimi decenni la sismologia ha fatto passi da gigante nello studio dei terremoti e nell’individuazione delle aree più o meno a rischio sismico, nozione questa fondamentale per poter per esempio costruire edifici antisismici o per creare piani di emergenza. Uno degli aspetti che però non è ancora stato risolto riguarda la previsione di un evento sismico. Attualmente i sismologi possono soltanto definire con quale probabilità un terremoto di una certa intensità, o magnitudo, può verificarsi in una determinata regione ma nessuno è in grado di definire il “quando”. Purtroppo infatti non esiste ad oggi, o non è ancora stato scoperto, un metodo che possa indicare con precisione che alle coordinate “x” avverrà un terremoto di magnitudo “y”. La sempre maggiore conoscenza dei fenomeni sismici però ha permesso di individuare parametri fisici e/o chimici che, prima di un terremoto, possono subire delle variazioni. Tali parametri vengono appunto definiti “precursori sismici” e vengono divisi in: geochimici, geofisici e geodetici. Negli ultimi anni gli scienziati hanno cominciato a monitorare questi precursori per vedere se il loro utilizzo era effettivamente possibile; purtroppo però, a differenza di quanto succede per esempio per le eruzioni vulcaniche dove variazioni di determinati parametri o avvenimenti indicano con “certezza” un possibile evento, per i terremoti non sono ancora state individuate correlazioni certe.

 

Esiste però un sistema di Early Warning sui terremoti, una rete di monitoraggio che, al momento della scossa, è in grado di avvisare via SMS gli abitanti della zona, nel migliore dei casi, con una decina di secondi di anticipo, sufficienti per mettersi in salvo o quantomeno per prepararsi e non essere completamente colti di sorpresa.

Esistono anche dei “segnali naturali” di Early Warning che, anche se non hanno un vero fondamento scientifico, possono essere tenuti in considerazione, si pensi per esempio al comportamento degli animali, che secondo alcuni studiosi vengono disturbati dalle variazioni del campo magnetico, ma non è nulla di certo. Sesto senso? Chi lo sa...sicuramente in certe situazioni può essere utile e farebbe comodo anche a noi! Al momento in ogni caso l’Early Warning è il sistema più efficace per prevenire un terremoto e limitare il più possibile le perdite ma la ricerca continua nella speranza che la finestra di preavviso possa passare da qualche secondo fino a qualche decina o arrivare, perché no, al minuto!

 

Dinesh Kunalan

STORIA DI UN ANTICO TERREMOTO ALPINO AVVENUTO IN PROFONDITÀ

Terremoto alpino in profondità

In questo articolo mi pongo l’obiettivo di riassumere nel modo più chiaro possibile il lavoro di tesi svolto da me e dai miei inseparabili compagni di viaggio, Ferdinando Musso Piantelli e Luca Notini, alla conclusione del ciclo triennale di studi in Scienze Geologiche presso l’Università Degli Studi di Genova. L’obiettivo del lavoro è stato comprendere la natura delle pseudotachiliti, rocce vetrose o microcristalline associate a terremoti, del Monte Cuneo, situato a circa 30km a NW rispetto a Torino, descrivere le interazioni strutturali fra le differenti litologie ad esse associate e infine collocare l’evento sismico di formazione all’interno di precisi intervalli di pressione e temperatura, ovvero ad una determinata profondità al di sotto della superficie terrestre.

Ovviamente, essendo una tesi triennale ed essendo che è stato il nostro primo faccia a faccia con uno studio sperimentale, non vi nascondo che il nostro lavoro è stato seguito e siamo stati guidati dai nostri relatori di tesi, specialmente durante la fase di elaborazione dati e di analisi al microscopio. Nonostante questo ci sentiamo di dire che il risultato finale è frutto del nostro lavoro e, siccome la “prima volta non si scorda mai”, mi scuso in anticipo se ogni tanto l’enfasi e il romanticismo dovessero sfuggirmi di mano! Per concludere questa breve introduzione vi prometto che, dato che quello che andrò a presentarvi è uno studio prettamente geologico e dato che non vorrei annoiarvi più del necessario, cercherò di essere il più conciso possibile e spero che quello che uscirà dal cilindro possa, seppur in minima parte, suscitarvi interesse, domande o curiosità!

Evandro Balbi

Introduzione: terremoti e pseudotachiliti

​

Prima di addentrarci nel cuore dello studio di rocce con genesi correlata ai sismi è necessario fare una piccola digressione iniziando con una semplice domanda: Che cosa sono i terremoti? Se andiamo a vedere la definizione sull'Enciclopedia Treccani troveremo “Movimento di una porzione più o meno grande di superficie terrestre,costituito da oscillazioni del terreno che si succedono per un periodo di tempo che può andare da pochi secondi ad alcuni minuti e corrispondenti all'arrivo nella zona di gruppi diversi di onde sismiche".

Dato che questo non è un articolo che vuole svelare i misteri che si celano dietro alla sismologia non entreremo troppo nel merito ma andremo a toccare solo quegli aspetti che saranno utili per meglio comprendere lo scopo del lavoro. Partiamo dunque parlando della loro localizzazione. I terremoti non hanno una distribuzione omogenea sulla superficie terrestre ma anzi, dopo diversi decenni di monitoraggi, si è visto che sono circoscritti all'interno di precise aree che, dal punto di vista geologico, possiamo definire geodinamicamente attive. 

Distribuzione mondiale dei terremoti

Questa definizione ci indica che queste zone sono aratterizzate da movimenti geologici attualmente in atto e in costante evoluzione che nella maggior parte dei casi si riconducono a dorsali oceaniche, ovvero zone di estensione in cui avviene la formazione di nuova crosta oceanica, e ambienti di subduzione, ovvero aree di contrazione dove la placca a densità maggiore “scivola” al di sotto della placca a densità minore. A questi ultimi sono associati i terremoti più profondi, fino a 700 km, e a magnitudo assoluta più elevata (M: 9.5 Valdivia, Cile 1960; M: 9.2 Stretto di Prince William, Alaska 1964; M:9.1 Sumatra, Indonesia 2004).

Dato che la nostra area di studio è stata ricollegata proprio ad un antico ambiente di subduzione, queste aree sismogenetiche sono per noi le più interessanti e quelle su cui dobbiamo focalizzarci. Ma come si genera un terremoto? Normalmente, quando sentiamo parlare di terremoti è sempre presente l’associazione con la parola “faglia” che, per definizione, è una frattura nella roccia che presenta uno scorrimento relativo a destra o a sinistra di due blocchi rocciosi separati. Questa “rottura” della roccia e questo scorrimento avvengono in tempi brevissimi e rilasciano una quantità di energia pari a quella accumulata dalla roccia stessa durante le centinaia, le migliaia o i milioni di anni.

Immaginate per esempio di rompere un bastoncino di legno, mentre lo piegate continua ad accumulare energia e infatti sentite che oppone sempre più resistenza fino a che, in un istante impercettibile, si rompe e le vostre mani e i due lembi rimasti del bastoncino tremano. Ecco, per le rocce vale esattamente lo stesso principio di accumulo e rilascio dell’energia che, in questo caso, non è fornita da voi ma da movimenti geologici di enormi proporzioni che interessano quantità di energie impossibili da quantificare.Nel momento in cui avviene la frattura però l’area nell’intorno, nella maggior parte dei casi, subisce sostanziali variazioni che possono portare le rocce circostanti a essere irriconoscibili, esattamente come i lembi sfrangiati del nostro bastoncino. Per indicare questo tipo di rocce modificate da un evento di fagliazione è stato coniato il termine “Rocce di faglia”, di cui esistono numerose classificazioni fra le quali la più usata, e quella a cui abbiamo fatto riferimento per questa tesi, è di Sibson (1977), all’interno della quale rientrano anche le nostre Pseudotachiliti. Le pseudotachiliti sono dunque rocce di faglia la cui formazione è legata alla fusione della roccia circostante, detta “incassante”.

Questa fusione è causata da un drastico e repentino aumento localizzato di temperatura, si possono superare i 1000°C, a seguito dell’attrito generato dallo scorrimento di due porzioni di roccia durante un evento sismico. Il fuso che ne deriva, trovandosi in un ambiente relativamente più freddo, cristallizza quasi istantaneamente minerali stabili alle condizioni di profondità, ovvero di pressione e temperatura, alle quali si trova. Trovare quindi le pseudotachiliti in un’area ricollegabile al contesto di subduzione, esattamente come nel nostro caso, è molto utile perché può consentire di capire a quali profondità è avvenuto il terremoto. Ed è proprio da questo punto che parte il nostro lavoro.

Esempio di Pseudotachilite impostata fra un gabbro (sopra) e una peridotite (sotto). Foto al microscopio a luce trasmessa

Attività di terreno

 

Attività di terreno

​

Il Monte Cuneo è situato all’ingresso della Val di Susa, Piemonte, e dal punto di vista geologico è formato da rocce di litosfera oceanica (Ofioliti), ovvero peridotiti a plagioclasio contenenti diffusi dicchi gabbrici e circondate da un mare di serpentini. È stato riconosciuto inoltre che queste rocce sono ricollegabili a quelle del massiccio ofiolitico di Lanzo: un volume roccioso di origine oceanica che attualmente affiora in superficie in seguito a processi di subduzione ed esumazione complicati che sono ancora in fase di studio.

Pseudotachilite lenticolare in peridotite

 Questo è importante per capire la sua evoluzione geologica, ricollegabile alla formazione della Tetide Ligure-Piemontese, oceano presente durante il Mesozoico, e la sua successiva consumazione dovuta ad una subduzione per convergenza fra placche, avvenuta a partire dal Cretaceo, e che si è conclusa con la formazione delle Alpi.

​Non mi dilungherò su questa parte di storia geologica che però è descritta all’interno della tesi al Capitolo 3: Inquadramento Geologico. La base di questo lavoro è fornita dagli studi che io, Luca e Ferdinando abbiamo svolto sul terreno durante il mese di agosto 2016. Già, mentre tutti erano al mare e in vacanza noi eravamo impegnati ad abbronzarci sulla “vetta” del Monte Cuneo, fra arbusti, zanzare e vespe di dimensioni sospette. Ma tralasciamo le varie vicissitudini che ci hanno visti protagonisti durante la convivenza forzata in camper nel piazzale della chiesa di Trana e torniamo al motivo fondante della nostra spedizione: il rilevamento geologico delle rocce e delle strutture affioranti nell’area.

Pseudotachilite in peridotite con spessore di circa 15cm

Come dicevamo quindi il Moncuni è un corpo di peridotiti con intrusioni gabbriche fra le quali è emerso che solo il 5-10% di queste rocce presenta ricristallizzazioni  di nuovi minerali a discapito di minerali precedenti a causa dell’aumento delle condizioni di pressione e temperatura in seguito alla subduzione. La totalità di queste rocce è interessata in modo pervasivo da pseudotachiliti che tagliano tutti i litotipi presenti, sia che siano formati dai minerali originari che da quelli più recenti di alta profondità/pressione. Questo ultimo aspetto è forse fra i più importanti di tutti, ma perché? Perché è così importante che le pseudotachiliti taglino tutte le associazioni di minerali? In geologia per definire un ordine cronologico degli eventi esistono 3 principi fondamentali: dell’Intrusione, dell’Inclusione e del Taglio. Il primo ci dice che se una roccia intrude un’altra allora è senza dubbio relativamente più giovane, per esempio i nostri dicchi gabbrici che intrudono le peridotiti. Il secondo invece ci dice che un corpo incluso all’interno di un altro è sicuramente relativamente più vecchio, mentre il terzo, il più importante per noi in questo momento, suggerisce che se un corpo geologico ne taglia un altro allora deve necessariamente essere venuto dopo e quindi essere più giovane.

Density plot dei dati relativi alla giacitura delle pseudotachiliti nella peridotite e nei gabbri (Contour Diagram, N=541, da rosso a blu diminuisce la concentrazione di misure).

Basandoci su questo principio e sulle evidenze di terreno siamo stati quindi in grado di presupporre che l’evento sismico che ha formato le pseudotachiliti deve essere avvenuto a) in un lasso di tempo successivo alla formazione dei minerali di alta pressione e b) ad elevate profondità all’interno della placca oceanica in subduzione. Ma non è finita qui, durante il rilevamento geologico abbiamo raccolto più di 1600 giaciture, ovvero misure di direzione, inclinazione e immersione, fra foliazioni di peridotiti, andamento dei dicchi di gabbro e delle pseudotachiliti. I risultati che sono emersi dallo studio delle giaciture hanno mostrato che I) le peridotiti hanno una foliazione comparabile a quella del massiccio di Lanzo e che quindi la correlazione Lanzo-Moncuni non è infondata, II) i gabbri presentano un andamento più caotico ma con una concentrazione di misure che taglia la foliazione delle peridotiti con una inclinazione di circa 30° e III) le pseudotachiliti presentano una giacitura preferenziale ben definita comparabile con l’andamento principale dei dicchi gabbrici, il che ci mostra che le pseudotachiliti hanno probabilmente sfruttato la debolezza del contatto fra gabbri e peridotiti come luogo per impostarsi.

Queste informazioni però non bastano per localizzare con precisione il sisma e attualmente sappiamo solo che è avvenuto una volta che le rocce hanno superato le massime condizioni di pressione alle quali sono state sottoposte. Ma quali sono queste condizioni? Qual è il range di profondità di cui stiamo parlando? Per rispondere a queste domande abbiamo svolto un campionamento mirato dell’area per successivi studi petrografici, al microscopio a luce trasmessa, sia sui campioni ricristallizzati che su quelli “freschi”.

Studio petrografico

Studio petrografico

Granato all’interno di una pseudotachilite. Foto scattata al SEM.

Lo studio petrografico, come già accennato, ha riguardato le pseudotachiliti, le rocce non interessate da associazioni di minerali di alta pressione e i campioni che invece presentano questa caratteristica. Grazie all’utilizzo del microscopio a luce trasmessa e del SEM (Scanning Electron Microscope), microscopio che oltre a consentire un ingrandimento fino alla scala dei micrometri possiede una sonda che fornisce una analisi chimica puntuale dei minerali, è stato possibile confermare le osservazioni di terreno per le quali le pseudotachiliti si sono formate all’interno sia delle rocce di mantello, le peridotiti a plagioclasio, sia delle rocce magmatiche, i gabbri. Queste rocce hanno inoltre mantenuto la loro originaria associazione mineralogica stabile, o paragenesi, rispettivamente di mantello e magmatica, e non hanno registrato alcun tipo di trasformazione metamorfica legata alla fase di subduzione o di esumazione, ovvero quella fase per cui, nel momento in cui viene 

interrotta la subduzione, le rocce subdotte in profondità all’interno del mantello risalgono per una differenza di densità e vengono esposte sulla superficie terrestre. Infine, durante l’osservazione delle pseudotachiliti impostate sulle litologie “fresche” è stato possibile notare che il fuso derivante dalla fusione per attrito della roccia incassante ha cristallizzato piccoli minerali, detti microliti, e lo studio proprio di questi microliti ha consentito di definire un range di profondità di formazione del terremoto, corrispondente alla facies eclogitica, ovvero un intervallo di pressioni e temperature riscontrabile solo all’interno degli ambienti di subduzione! Quanto detto fino ad ora però ancora non basta, servono altre evidenze per cercare di definire in modo univoco la profondità alla quale il sisma si è scatenato. Per questo motivo è stato necessario svolgere un’analisi petrografica e microstrutturale anche sulle pseudotachiliti ritrovate associate ai gabbri e alle peridotiti con paragenesi eclogitica, ovvero caratterizzate da associazioni stabili di minerali di alta pressione. Le analisi al microscopio a luce trasmessa e al SEM su questi campioni hanno mostrato quanto segue: le pseudotachiliti tagliano le paragenesi eclogitiche sia nei gabbri che nelle peridotiti e a loro volta sono sigillate da un minerale caratteristico della facies eclogitica, il granato, il cui abito risulta dendritico, sintomo di una cristallizzazione talmente repentina che non gli ha permesso di sviluppare la sua forma naturale. Quindi in pratica, facendo riferimento al principio del taglio di cui abbiamo parlato prima, possiamo dire che l’evento sismico che ha generato le pseudotachiliti è avvenuto all’interno di una finestra temporale che parte dal momento in cui le rocce del Monte Cuneo hanno cominciato a sviluppare i minerali di alta pressione, poiché soggette alle pressioni e alle temperature della facies eclogitica, e che si è conclusa, come ci suggerisce il granato dendritico che sigilla le vene, sempre all’interno di questa facies caratteristica delle zone di subduzione.

​

Conclusioni​

Unendo i dati di terreno, gli studi petrografici e facendo riferimento a vari grafici tratti dalla bibliografia che correlano le diverse associazioni stabili di minerali a diverse condizioni di pressioni e temperature, siamo riusciti a concludere che le pseudotachiliti si sono formate nell’intorno dei 2 GPa di pressione, ovvero circa a 60km di profondità rispetto alla superficie terrestre, all’interno delle facies eclogitica e quindi del contesto di subduzione. Questa tesi concorda con la storia evolutiva del complesso ultrabasico di Lanzo, di cui il Monte Cuneo è satellite, trattata in bibliografia.

Conclusioni

Foto al SEM di una microfaglia (linea tratteggiata rossa) che interessa il meta-gabbro eclogitico dislocando i minerali presenti: clinopirosseno, ex-olivina e ex-plagioclasio magmatici. Importante è notare la sovracrescita di granato dendritico a sigillare la microfaglia.

Se ci rifacciamo alle datazioni proprio presenti in bibliografia sulle rocce della zona è possibile collocare anche temporalmente il terremoto fra 55 e 46 milioni di anni fa, all’interno del Periodo Terziario, ovvero durante l’orogenesi alpina della quale però non tratteremo visto che meriterebbe un articolo tutto per sé.

​

di Evandro Balbi

Bibliografia

​

ANDERSEN T., AUSTRHEIM H., 2006. Fossil earthquakes recorded by pseudotachylytes in mantle peridotite from the Alpine subduction complex of Corsica. Earth and planetary Science letters, 242, 58-72.

ANDERSEN T.B., AUSTRHEIM H., DESETA N., SILKOSET P., ASHWAL L.D, 2014. Large subduction earthquakes along the fossil Moho in Alpine Corsica. Geology, 5; 395–398.

ANGIBOUST S., AGARD P., YAMATO P., RAIMBOURG H., 2012 ,Eclogite breccias in a subducted ophiolite: A record of intermediatedepth earthquakes?, Geology, doi:10.1130/G32925.1.

AUSTRHEIM H., ERAMBERT M., BOUNDY T.M., 1996. Garnets recording deep crustal earthquakes. Earth and Planetary Science Letters, 139 ,223-238.

AUSTRHEIM H., ANDERSEN T.B., 2004. Pseudotachylytes from Corsica: fossil earthquakes from a subduction complex. Terra Nova, 16, 193–197.

AUSTRHEIM H., BOUNDY T.M., 1994. Pseudotachylytes generated during seismic faulting and eclogitization of the deep crust. Science, 265,5168,82-83.

BALESTRO G., CADOPPI P., PICCARDO G.B., POLINO R., SPAGNOLO G., TALLONE S., FIORASO G., LUCCHESI S., FORNO M.G.. Foglio 155 Torino Ovest della Carta Geologica d'Italia, scala 1:50000.

BALESTRO G., CADOPPI P., PICCARDO G.B., POLINO R., SPAGNOLO G., TALLONE S., FIORASO G., LUCCHESI S., FORNO M.G.. Note Illustrative della Carta Geologica d'Italia alla scala 1:50000, foglio 155 Torino Ovest.

BIRD P., KAGAN Y.Y., JACKSON D.D., SHOENBERG F.P., WERNER M.J., 2009. Linear and nonlinear relations between relative plate velocity and seismicity, Bulletin of the Seismology Society of America, 99, 3097-3113.

BOSTOCK M.G., 2012, The Moho in subduction zones, Tectonophysics, 609, 547 - 557.

BRUDZINSKI M.R., THURBER C. H., HACKER B.R., ENGDAHL E.R. 2007, Global Prevalence of Double Benioff Zones. Science, 316.

CHOLLET M., DANIEL I., KOGA K.T., PETITGIRARD S., MORARD G., 2009, Dehydration kinetics of talc and 10 Å phase: Consequences for subduction zone seismicity, Elsevier, EPSL-09778.

DEBRET B., NICOLLET C., ANDREANI M., SCHWARTZ S., GODARD M., 2013. Three steps of serpentinization in an eclogitized oceanic serpentinization front (Lanzo Massif – Western Alps). Journal of Metamorphic Geology, 31, 165–186.

DESCHAMPS F., GODARD M., GUILLOT S., HATTORI K., 2013. Geochemistry of subduction zone serpentinites: A review. Lithos 178, 96–127.

DESETA N., ANDERSEN T.B., ASHWAL L.D., 2013. A weakening mechanism for intermediate-depth seismicity? Detailed petrographic and microtextural observations from blueschist facies pseudotachylytes, Cape Corse, Corsica. Tectonophysics, 610, 138-149.

DESETA N., ASHWAL L.D., ANDERSEN T.B., 2014. Initiating intermediate-depth earthquakes: Insights from a HP-LT ophiolite from Corsica. Lithos 206-207, 127-146.

DI TORO G., NIELSEN S., PENNACCHIONI G., 2005. Earthquake rupture dynamics frozen in exhumed ancient faults. Nature, 436, doi:10.1038/nature03910.

EGGER, A.E., 2003, Teaching and Research in Taiwan, GSA Today, 12, 30-31.

FORSYTH D., UYEDA S., 1975. On the Relative Importance of the Driving Forces of Plate Motion. Geophysical Journal of the Royal Astronomical Society, 43, 163-200.

FROITZHEIM N., MANATSCHAL G., 1996. Kinematics of Jurassic rifting, mantle exhumation, and passive-margin formation in the Austroalpine and Penninic nappes (eastern Switzerland). GSA Bulletin, 1, 1120-1133.

GERYA, T.V., YUEN, D.A., 2003. Rayleigh–Taylor instabilities from hydration and melting propel “cold Plumes” at subduction zones. Earth Planet. Sci. Lett. 212, 47–62.

GREEN H.W., CHEN W.P., BRUDZINSKI M.R., 2010, Seismic evidence of neligible water carried below 400- km depth in subducting lithosphere., Nature, 476.

GROCOTT J., 1981. Freacture geometry of pseudotachylytes generation zones: a study of shear fractures formed during seismic events. Journal of structural geology, 3, 167-178.

GUILLOT S., HATTORI K., AGARD P., SCHWARTZ S., VIDAL O., 2009. Exhumation processes in oceanic and continental subduction contexts: A Review. Doi:10.1007/978-3-540-87974-9.

HASEGAWA A., UMINO N., TAKAGI A., 1978. Doubled-planed structure of the deep seismic zone in the north-eastern Japan arc. Tectonophysics, 47, 43-58.

HERMANN J., MUNTENER O., SCAMBELLURI M., 2000. The importance of serpentinite mylonites for subduction and exhumation of oceanic crust. Tectonophysics, 327, 225-238.

ITO K., KENNEDY G.C., 1967. Melting and phase relations in a natural peridotite to 40 kilobars. American Journal of Science 265, 519-538.

JACKSON JA, 1997. Glossary of Geology.

JOHN T., MEDVEDEV S., RÜPKE L.H., ANDERSEN T.B., PODLADCHIKOV Y.Y., AUSTRHEIM H. 2009. Generation of intermediate-depth earthquakes by self-localizing thermal runaway. Nature, 2.

JOHN T., SCHENK V., 2006, Interrelations between intermediate-depth earthquakes and fluid flow within subducting oceanic plates: Constraints from eclogite facies pseudotachylytes, Geology, 34, 557–560.

KACZMAREK M.-A. MÜNTENER O., 2008. Juxtaposition of melt impregnation and high-temperature shear zones in the upper mantle; field and petrological constraints from the Lanzo peridotite (Northern Italy). Journal of petrology, 49, 2187-2220.

KACZMAREK M.-A., MÜNTENER O., 2010. The variability of peridotite composition across a mantle shear zone (Lanzo Massif, Italy): interplay of melt focusing and deformation. Contributions to Mineralogy and Petrology, 160, 663-679.

KELEMEN P.B., AND HIRTH G. 2007. A periodic shear-heating mechanism for intermediate-depth earthquakes in the mantle. Nature, 446.

LIN A., 2008. Fossil Earthquakes: The Formation and Preservation of Pseudotachylytes.

LIN A., MARUYAMA T.T., AARON S., MICHIBAYASHI K., CAMACHO A., KANO K. 2005. Propagation of seismic slip from brittle to ductile crust: Evidence from pseudotachylyte of the Woodroffe thrust, central Australia. Tectonophisics, 402, 21- 5.

LUND M.G., AUSTRHEIM H., ERAMBERT M., 2004. Earthquakes in the deep continental crust-insights from studies on exhumed high-pressure rocks. Geophysical journal international 158, 569-576.

MAGLOUGHLIN J.F., SPRAY J.G, 1992. Frictional melting processes and products in geological materials: introduction and discussion. Tectonophysics 204 (3-4), 197-204.

MOECHER D.P. AND STELTENPOHL M.G, 2011, Direct calculation of rupture depth for an exhumed paleoseismogenic fault from mylonitic pseudotachylyte, Geology, 11, 999–1002.

MORBIDELLI L., 2007. Le rocce e i loro costituenti.

OBATA M., KARATO S., 1995. Ultramafic pseudotachylite from the Balmuccia peridotite, Ivrea-Verbano zone, northern Italy. Tectonophysics, 242, 313-328.

PASSCHIER C. W. AND TROUW R. A. J., 2005. Microtectonics. Springer.

PELLETIER L., MÜNTENER O., 2006. High-pressure metamorphism of the Lanzo peridotite and its oceanic cover, and some consequences for the Sesia–Lanzo zone (northwestern Italian Alps). Lithos, 90, 111–130.

PELLETTIER L., MÜNTENER O., 2006, High-Pressure metamorphism of the Lanzo peridotite and its oceanic cover, and some consequences of the Sesia-Lanzo zone (NW Italian Alps). Lithos. 90.1, 111 - 130.

PICCARDO G.B. 2010. The Evolution of the Lithospheric Mantle during Mesozoic Rifting in the Ligure-Piedmontese Domain. Journal of the Virtual Explorer, Electronic Edition. ISSN 1441-8142, 36, 7.

PICCARDO G.B., RANALLI G., GUARNIERI L., 2010. Seismogenic Shear Zones in the Lithospheric Mantle: Ultramafic Pseudotachylytes in the Lanzo Peridotite (Western Alps, NW Italy). Journal of Petrology, 51, 81-100.

PICCARDO G.B., RANALLI G., MARASCO M., PADOVANO M., 2007. Ultramafic pseudotachylytes in the Mt. Moncuni peridotite (Lanzo Massif, Western Aps): tectonic evolution and upper mantle seismicity. Periodico di Mineralogia, 76, 181-197.

PICCARDO G.B., ZANETTI A., MÜNTENER O. 2007, Melt/peridotite interaction in the Southern Lanzo peridotite: Field, textural and geochemical evidence. Lithos. 94. 181 - 209.

RAMPONE E., HOFMANN A.W., 2012. A global overview of isotopic heterogeneities in the oceanic mantle.

RONDENAY S., ABERS G., KEKEN P.E., 2008, Seismic imaging of subduction zone metamorphism, Geology, 36, 275 - 278.

SCAMBELLURI M. ET AL. 2017, Fossil intermediate-depth earthquakes in subducting slabs linked to differential stress release. Nature Geoscience

SCAMBELLURI M. ET AL. 2014, Petrology and trace element budgets of high-pressure peridotites indicate subduction dehydration of serpentinized mantle (Cima di Gagnone, Central Alps, Switzerland)., Journal of Petrology, egt068.

SCHMIDT. M. W., POLI S., 1998. Experimentally based water budgets for dehydrating slabs and consequences for arc magma generation. Earth and Planetary Science Letters 163, 361–379.

SCHOLZ C. H., 2003, The Mechanics of Earthquakes and Faulting, Paperback.

SIBSON R.H., 1975. Generation of pseudotachylytes by Ancient Seismic Faulting. Geophysical Journal of the Royal Astronimical Society, 43, 775-794.

SIBSON R.H., 1977. Fault rocks and fault mechanisms. Journal of the Geological Society of London, 133, 191-213.

SO B., YUEN D. A., 2016, Influence on Earthquake distributions in slabs from bimaterial shear-heating, American geophysical union, Subsuction Dynamics 211

SOUQUIÈRE F., FABBRI O., 2010. Pseudotachylytes in the Balmuccia peridotite (Ivrea Zone) as markers of the exhumation of the southern Alpine continental crust . Terra Nova, 22, 70–77.

STEIN S., WYSESSION M., 2003, An introduction to seismology, earthquakes and earth structure, Blackwell.

STERN R.J., 2002. Subduction zones, Reviews of Geophysics, 40 doi:10.1029/2001RG000108, 2002.

SWANSON F.S., KRATZ T.K., CAINE N., WOODMANSEE, 1988. Landform effects on ecosystem patterns and processes. BioScience, 38, 92-98.

TETZLAFF M., SCHMELING H., 2000, The influence of olivine metastability on deep subduction of oceanic lithosphere. Physics of the Earth and Planetary Interiors, 120, 29 - 38.

UEDA T., OBATA M., DI TORO G., KANAGAWA K., OZAWA K., 2008. Mantle earthquakes frozen in mylonitized ultramafic pseudotachylytes of spinel-lherzolite facies. Geology, 36,8,607-610.

VANOSSI M., CORTESOGNO L., GALBIATI B., MESSIGA B., PICCARDO G.B., VANNUCCI R., 1984. Geologia delle Alpi Liguri: dati, problemi, ipotesi. Memorie Società Geologica Italiana, 28, 5-75.

evvalove.jpg
Evandro Balbi

Caporedattore Sezione di Geologia

Se vuoi scoprire gli articoli passati della Sezione di Geologia 

Se vuoi scoprire le prossime pubblicazioni della Sezione di Geologia

Contattaci
bottom of page