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Racconti

Ritornerò

Ritornerò

Stavamo percorrendo un sentiero invisibile da diverse ore.

Le gambe mi dolevano, le scarpe si spaccavano sempre di più ad ogni mio passo.

Io e i miei compagni ci guardavamo a vicenda. Eravamo stanchi, spaventati e affamati, ma non potevamo fermarci.

 

Non riuscivamo nemmeno a voltarci, per guardare quella che una volta era stata casa nostra. Ci sentivamo come animali, braccati e affamati. Costretti a rifugiarci nei boschi e sulle montagne. Le nostre montagne.

Io continuavo a camminare, ma la mente si allontanava sempre di più dal sentiero invisibile del bosco. Ogni tanto mi inciampavo su qualche ramo o radice coperta dalle foglie secche. Nella mia testa compariva il ricordo di mio padre, di quella mattina che mi sgridò perchè non volevo andare a scuola. O più indietro a mio nonno, che mi insegnava a tagliare la vite, sotto un sole tenue di ottobre.

Ripensavo spesso a quei momenti felici, di vita quotidiana. Ripensavo alla mia infanzia. Alla mia casa. Quando ancora ero un ragazzo, libero. Darei qualsiasi cosa pur di tornare a quegli attimi, anche per riviverli solo qualche minuto. Ma non si può più tornare indietro. Si può solo andare avanti. Dovevamo andare avanti.

La guerra prima, l'armistizio poi, hanno interrotto la mia infanzia. Mi hanno privato di tutto. E mi hanno fatto diventare uomo. La libertà mi è stata strappata via. E per tentare di riprendermela, ho dovuto scegliere la via più pericolosa: sono dovuto diventare un bandito, o come ci chiamavano gli uomini in divisa, un ribelle.

Mi sono ritrovato là, sulle montagne, a percorrere sentieri fantasma conosciuti solo da noi e dagli animali, per sfuggire al nemico.

Ogni tanto incrociavo sguardi simili al mio.

Eravamo tutti ragazzi giovani, neanche ventenni, cresciuti assieme o provenienti da paesi vicini. Tra di noi c'era qualcuno di più esperto, ma la maggior parte erano contadini a cui era stato dato un fucile in mano.

 

Un segnale dal capitano e la colonna improvvisamente si arrestò. Smisi di fantasticare per tornare nel mondo reale. Ci trovammo immersi nell'oscurità. I respiri diventarono più pesanti. Il cuore battè più forte. Le mani strinsero i fucili.

Un altro segnale e la colonna ricominciò la salita. Sentii sospiri di sollievo intorno a me. Non era che un falso allarme. L'ennesimo in quei giorni di tensione.

Per fortuna, non mancava molto alla cascina.

Da giorni circolavano voci su un possibile piano di attacco dei tedeschi. Non potevamo permetterci di farci catturare proprio a casa nostra. In poco tempo eravamo diventati numerosi, avevamo ideato dei piani e iniziavamo a fare paura. Loro invece, stavano progettando il modo per distruggerci. Anche se ci sentivamo al sicuro tra gli alberi e in fondo alle grotte, sapevamo del pericolo che poteva piombarci addosso da un momento all'altro. Eravamo sempre in tensione.

 

Quando il bosco iniziò a diradarsi, la luce delle stelle schiarì sempre di più il paesaggio. Vedemmo una luce fioca in lontananza. Era il segnale che speravamo di

trovare. Eravamo giunti a destinazione.

Il campo era già stato allestito da un altro gruppo. Sapendo del nostro arrivo, avevano messo da parte alcuni pezzi di pane raffermo e del salame. Un contadino aveva regalato del formaggio a un ragazzo che non esitò a dividerlo col resto della compagnia. Continuavamo a ripeterci che sarebbero arrivati tempi migliori, ma fino ad allora, dovevamo resistere.

Ero talmente sfinito che mi addormentai quasi subito, lasciando a metà la mia misera razione. Non ebbi nemmeno la forza di scambiare due parole con chi mi circondava.

 

Nei miei sogni tutto era come un tempo. Il paese era pieno di gente, tutti sorridevano. Mio padre tornava dalla vigna con mio nonno, mia madre preparava il sugo, spargendo per la stanza un profumo intenso, inimitabile. Le case erano ancora li, con i comignoli che sputavano fumo bianco e i rumori delle massaie in cucina.

Io giravo nei boschi con mio fratello, alla ricerca di qualche lepre da stanare e portare alla mamma.

Ero ancora un bambino. Non esistevano divise, non esistevano armi, non esisteva la morte. Il mio unico pensiero era trovare qualcosa da fare per far arrivare la sera.

Nei miei sogni ero libero. Eravamo tutti liberi.

Ad un tratto, il mio sogno svanì. Fui svegliato dallo stivale di un mio compagno. Era Arturo. Lo fissai. Com'era cambiato in questi ultimi anni. Aveva perso sì e no dieci chili e una brutta ferita gli aveva fatto perdere due dita della mano destra, ma riusciva ancora a stringere il fucile meglio di me. Eravamo saliti insieme sulle montagne, entrambi spinti dallo stesso desiderio. Lui aveva perso il padre e cercava vendetta. Ma nei suoi occhi color del cielo, regnava incontrastata la paura.

Con un cenno del capo mi avvisò che toccava a me fare la guardia. Avevamo instaurato un dialogo muto, fatto solo di sguardi e gesti. Difficilmente ci mettevamo a parlare, anche perchè finivamo sempre col ripensare ai nostri cari e ovviamente, a casa. Il ricordo faceva troppo male. Preferivamo ricordarlo ognuno nella propria testa e piangere in silenzio.

Mi rimisi in piedi, tolsi le foglie secche dal cappotto fradicio e mi andai a sedere su una roccia poco più in alto. Arturo invece si sistemò al mio posto e cadde addormentato dopo pochi minuti.

 

Quella vita ci stava distruggendo. Ma non potevamo fare altro. Fortunatamente gli inglesi ci inviavano via aereo viveri e armi. Alle volte, sfidando il divieto, qualche contadino ci dava qualcosa da mangiare o dei vestiti puliti.

Mi era capitato di ricevere una giacca da un pastore che viveva sull'altro versante del monte. Era appartenuta a suo figlio. Anche lui era un partigiano, ma sapendo della madre malata, era sceso a valle per vederla un'ultima volta. I tedeschi lo presero sulla via che portava all'ospedale. Lo caricarono su un camion e non lo videro mai più. Mi impressionò con quanta calma il pastore mi raccontò del sequestro del figlio. Non si sforzò nemmeno di trattenere le lacrime. Mi disse che le aveva già versate tutte, ed ora non provava più nulla.

Mi riaffiorò alla mente quella mattina di settembre. Dopo aver sentito la notizia dell'armistizio alla radio, me ne andai nei boschi. Fu una decisione quasi spontanea.

Mio fratello era morto, indossando una divisa che non gli apparteneva. Forse la mia decisione di diventare un ribelle, un traditore, un bandito era anche un modo per sentirmi meno in colpa. Lui era dovuto andare, io no.

Non ne potevo più di vivere in quel modo. La fame, il freddo, patire come cani per cosa? Un ideale di un pazzo invasato? I crucchi non avevano portato che guai.

Anche in paese le cose non andavano meglio. Padri e figli non erano più tornati. Mogli, madri e figlie piangevano e vagavano per le strade come fantasmi. Alcune stringevano le foto dei cari ormai morti come fossero rosari.

Io e mio fratello avremmo dovuto coltivare la vite col nonno, trasformarlo in vino con papà. Farci una famiglia e vivere anche noi in paese. Ma ormai questa vita era solo un'utopia. Mio fratello non era più con noi, come molti altri giovani del nostro piccolo paese.

I pochi rimasti respinsero il richiamo alla Repubblica Sociale Italiana e si uniroro ai gruppi di resistenza armata. Tra quelli c'ero anche io.

 

Ed eccoci là, gli ultimi giovani rimasti, nascosti tra i nostri amati boschi. Passavamo di cascina in cascina, per portare messaggi, recuperare munizioni e farla pagare ai veri colpevoli.

Rimasi di sentinella finchè non arrivò l'ordine di rimetterci in marcia. Era ormai pomeriggio quando ci inoltrammo ulteriormente nel bosco.

Ma gli animi erano agitati. La voce che i nazisti volevano farcela pagare per le ultime incursiosi circolava con più vigore. Sapevano dei nostri movimenti ed erano meglio equipaggiati.

Si vociferava che volessero attuare un rastrellamento e portarci tutti via, in quei campi della morte al nord. I camion erano già nel piazzale di Voltaggio, pronti per caricarci.

Ma il nostro capitano ci rassicurava dicendoci che non potevano permettersi un dispiegamento di forze così massiccio. E per contrastare chi? Contadini con fucili d'epoca? No, potevamo stare tranquilli, sempre vigili certo, ma tranquilli che il rastrellamento non sarebbe avvenuto.

Camminammo ancora per tutta la notte. Nelle brevi tappe scrivevo lettere a mia madre, rimasta con papà in paese. Forse un modo per rimanere sano di mente, o forse per non pensare ai morsi della fame. Ne scrissi anche una in previsione della mia morte. Mentre la mano scorreva sul foglio tutto spiegazzato, mi si era formato un groppo in gola e le lacrime formavano piccole gocce sulla carta. Era da tanto che non piangevo.

Scrivere una lettera di addio ai propri cari quando si ha poco più che 17 anni non è facile. Lo stesso pensiero della morte spaventa.

Ma quando feci lo zaino per salire in montagna ed unirmi ai compagni, sapevo a cosa stessi andando incontro.

Mi sentivo quasi in dovere di partire. Per mio fratello, per i miei amici morti chissà dove. Per la mia famiglia. Per il mio paese.

Giu a Valle non si parlava volentieri dei briganti delle montagne. Sopratutto quando c'erano divise nei paraggi. Ma quando seppi di loro, delle loro gesta per contrastare i crucchi, non esitai un momento. Non mi voltai nemmeno quando varcai per l'ultima

volta la soglia di casa. In cuor mio sapevo benissimo che potevo anche non far ritorno, ma forse il mio sacrificio non sarebbe stato vano.

Dovevamo difendere noi e la nostra terra. I tedeschi dovevano andarsene. I fascisti dovevano sparire.

Cercai di togliermi il pensiero della morte in testa. Avevo promesso a mia madre che sarei tornato.

Dandole le spalle, poco prima di partire avevo sussurrato più a me stesso che a lei <<tornerò mamma...ritornerò.>>. Non so ancora perchè dissi quelle parole. Forse perchè mio fratello non le disse. E non tornò.

Quella povera donna vide entrambi i suoi figli varcare la soglia di casa per un ideale. Uno indossando una divisa da soldato, l'altro da bandito.

 

Alla mattina ci accampammo in una radura protetta dagli alberi. Quello era un luogo sicuro. Le voci di un possibile rastrellamento si facevano sempre più concrete e vive tra i ranghi della brigata. Lo sconforto iniziò a dilagare tra gli animi.

Ma il nostro capitano non si perse d'animo e continuò a smentire ogni possibile voce su un imminente arrivo dei crucchi.

Le sue parole parvero rassicurarci ma stringemmo ancora di più i nostri fucili e le nostre pistole.Tutti avevano perso un parente, un amico, e avevamo il cuore pieno di rabbia. Cervavamo lo scontro, ma allo stesso tempo lo temevamo.

Mi tolsi gli stivali e il sangue dalle vesciche iniziò a uscire copiosamente. Il dolore era lancinante, ma dovevo stringere i denti. Riuscii comunque ad addormentarmi, con la schiena appoggiata alla parete fredda di una pietra, quasi abbracciato al fucile.

 

All'alba del 6 aprile 1944, ci rimettemmo in marcia. Era il Giovedì Santo. Non riuscii a non pensare a casa. Ai preparativi per la Pasqua imminente. Chissà se in Paese avrebbero festeggiato.

Il capitano aveva mandato delle sentinelle in avanscoperta, e verso le otto del mattino, ritornarono. Era Giulio. Bianco come il latte, gli occhi sgranati. Si era fatto tutto il crinale di corsa per poterci avvisare nel minor tempo possibile.

<<Capitano....capitano...i tedeschi stanno arrivando... >>.

Calò il silenzio. Anche il lieve vento del mattino cessò di soffiare. Tutto era immobile. I tedeschi stavano arrivando. Erano li. Allora era vero. Le voci erano vere.

Tutti iniziammo a sussurrare, eravamo spaventati.

Ma il capitano cercò di mantenere la calma nel miglior modo possibile.

<< Dobbiamo ripiegare sulla Benedicta...non abbiamo altra scelta.>>

Ed iniziammo quella marcia forzata. I combattenti più esperti si misero in testa.

Ma tra di noi c'era anche chi non aveva mai imbracciato un fucile. Ecco allora i primi attacchi di panico. Il figlio del fornaio era al mio fianco, quando all'improvviso si fermò di colpo. Rallentai il passo per chiamarlo, ma quando capii che era come pietrificato, ritornai indietro. Non potevo lasciarlo lì.

Niente. Continuava a guardare la foto della sua famiglia. Di quel nucleo numeroso, non era rimasto che il nonno materno. Tutti uccisi, o in guerra o dalle bombe. Suo padre era stato portato via dai fascisti perchè l'avevano sorspreso a dare del pane extra ad una bambina che stava morendo di fame. Lo picchiarono sul posto e lo

trascinarono via chissà dove.

Cercai di smuoverlo a continuare a camminare come meglio potevo, ma sembrava un blocco unico di marmo.

Con un gesto disperato, gli strappai la fotografia dalle mani e cercai di recuperare terreno dai compagni. E finalmente si mosse anche lui. Aveva le lacrime agli occhi e gli colava sangue dal naso. Non ci dicemmo una parola. Gli riconsegnai la foto.

I nostri sguardi parlavano da soli.

I tedeschi stavano effettivamente salendo sul Monte Tobbio. Al levar del sole cinque colonne avevano intrapreso una marcia di avvicinamento, in modo da chiudere tutte le vie di fuga e braccarci in una delle nostre basi.

 

Il sole era proprio al centro del cielo quando giungemmo nei pressi del cascinale. Ma non sapevamo a cosa stavamo andando incontro. Pensavamo di essere al sicuro li, tra i muri dell'antico convento, ma ci sbagliavamo di grosso.

Il gruppo di testa si ritrovò faccia a faccia con un gruppo di nazisti.

Ci stavano aspettando a braccia aperte. Eravamo in trappola. Era tutto finito.

Iniziammo una lotta disperata ma erano troppo numerosi e meglio armati.

Finì tutto in breve tempo.

I compagni che erano in coda si fecero prendere dal panico e tentarono in tutti i modi di uscire da quella trappola di morte.

Non so se qualcuno riuscì effettivamente a scappare.

Io mi ritrovai faccia a terra. La mia mano era bloccata da uno stivale nero, lucido, incrostato di fango. Intorno a me spari, urla e grida in una lingua che avevo imparato ad odiare.

Quelli di noi che non venenro uccisi durante lo scontro furono ammassati come bestie nell'antica cappella. Pensavamo di morire quel giorno, ma la nostra agonia non aveva ancora fine. Cercai tra i corpi ammassati e tremanti quello di Arturo. Era attaccato alla porta della cappella. Il volto insaguinato, ma vivo.

 

Passammo una notte insonne. C'era chi pregava, chi bagnava le foto di famiglia con lacrime salate, chi scriveva lettere a mogli, fidanzate e bambini. Eravamo tutti certi che la prossima alba sarebbe stata l'ultima.

Io mi trovavo in fondo alla cappella, la luce della luna non riusciva a filtrare fino li. Ero sommerso nel buio. Eravamo talmente accalcati che riuscivo a sentire i loro respiri, forse addirittura i loro battiti. Ogni tanto si sentiva fumo di tabacco, segno che qualche guardia crucca stava fumando davanti all'ingresso della nostra cella improvvisata.

Pensavo alla mia famiglia, a mio fratello ma non riuscivo a piangere. Dunque era veramente finita.

La mia ultima notte su questa terra.

Ero spaventato si, ma allo stesso tempo provavo una strana tranquillità. Ero sereno.

Mi ero convinto che il nostro sacrificio non sarebbe andato sprecato. Dopo di noi molti altri sarebbero saliti sulle montagne, avrebbero imbracciato il fucile e la resistenza avrebbe continuato ad esistere.

Noi non eravamo gli ultimi. Eravamo i primi.

Approffitando dei raggi di luna, cercai di vedere i volti dei miei compagni, i miei amici. Anche se con alcuni di essi non ci avevo scambiato che qualche sommaria parola, mi sentivo legato a loro in un modo particolare. Quasi morboso. Eravamo uniti nella lotta e saremo uniti nella morte.

Cercammo di addormentarci, ma credo che nessuno chiuse occhio quella notte.

 

Il sole sorse fin troppo presto.

Sentimmo le urla e i passi pesanti dei tedeschi. Fecero uscire la maggior parte dei prigionieri. Io ero in fondo quindi non fui fatto uscire dalla cella. Cercai nel gruppo Arturo, ma non lo vidi. Li stavo scrutando uno ad uno quando all' improvviso mi sentii afferrare la spalla. Mi voltai ed eccolo lì. Era riuscivo a spostarsi nella notte. Un camerata fece avanzare gli ultimi della fila di prigionieri dando lorodei colpi sulla schiena con la canna del fucile. Li condussero nel cortile dell'antico convento. Tra di noi non volò un fiato. Osservavamo in venerato silenzio quella macabra colonna di morte.

Dopo essere stati spogliati di ogni cosa, un meticoloso tedesco si segnò il nome di ogni prigioniero. I tedeschi sanno essere precisi anche quando compiono barbarie.

Un ragazzo aveva al collo una collanina con le foto dei suoi genitori. Rimase impassibile alle intimidazioni del soldato tedesco di toglierla. Allungò la mano guantata di pelle e con un colpo secco gliela strappò dal collo. Con disprezzo la getto a terra e la calpestò con tutta la rabbia che aveva in corpo.

Il giovane rimane impassibile, l'occhio fisso su un punto all'orizzonte. Non una lacrima rigò il suo viso.

 

Poi tutto iniziò. A gruppi di cinque li condussero sul sentiero che porta al Rio Gorgente. Gli spari riecheggiarono nella vallata per tutto il giorno.

Solo quando il sole toccò la linea del tramonto le mitragliette cessarono di sputare proiettili.

A terra giacevano 96 corpi.

Io ed altri compagni eravamo ancora rinchiusi nella cappella. Non avevamo più la forza di piangere. Avremmo voluto fare qualcosa, ma ci sentivamo impotenti. Ero pietrificato dinanzi a tutto quell'odio. Com'è possibile che un uomo simile a me possa essere capace di compiere gesta simili? Come fanno a dormire la notte?

Anche io ho ucciso per necessità. Continuavo a ripetermi " o la mia vita o la sua". Ma mi ricordo ogni singolo volto. Ricordo le loro espressioni sul punto di morte. E sapevo per certo che quegli sguardi sarebbero stati con me anche nella tomba.

All'improvviso, la porta si aprì. Entrò prima la bocca di un mitra, poi il corpo di un fascista, che ci ordinò di uscire fuori. Non eravamo rimasti in molti. Anzi, se volevano potevano ucciderci all'istante e si sarebbero risparmiati tutta la trafila dei nomi e della marcia.

Ma non ci portarono nel piazzale. Ci diedero delle pale. Ci guardavano tutti, non stavamo capendo più nulla.

E poi ecco l'ordine. Dovevamo scavare delle buche. Le fosse per i nostri compagni.

Coi fucili puntati sulla schiena, ci mettemmo a scavare. Alcuni di noi avevano la vista annebbiata dalle lacrime, altri non riuscivano più a contenere la bile.

Non bastava ucciderci, dovevano umiliarci fino all'ultimo.

Ma chi avrebbe scavano le nostre fosse poi?

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In cuor mio sapevo che non sarebbe finita li. Il futuro aveva in serbo per noi ancora qualcosa. Capii che non potevo arrendermi proprio adesso. La nostra Brigata non esisteva più ma noi eravamo ancora li. Sistemammo i corpi e li ricoprimmo alla bell'e meglio.

Ci rinchiusero di nuovo nella cappella. Avevano ancora dei ribelli da stanare prima di farci fuori tutti. Ci misero una sentinella di guardia. Era un ragazzo giovanissimo, forse mio coetaneo. Aveva uno sguardo innocente, come a chiedersi perchè fosse finito li. E commise l'errore più grosso della sua vita: si addormentò.

Le tenebre dominavano il paesaggio quando io e Arturo decidemmo di tentare la fuga. Non potevamo farci scappare un'occasione del genere. Meglio provare e morire che non provarci affatto. Cercarmmo di convincere i nostri compagni, ma erano troppo avviliti. Le emozioni provate durante il giorno erano state veramente forti.

Sforzammo il lucchetto che ci teneva rinchiusi e fuggimmo a gambe levate tra i boschi.

 

Non ci potevo credere. Era filato tutto liscio. Corremmo a perdifiato, senza mai voltarci indietro. Arrivammo fino ad un vecchio nascondiglio. Pregammo di trovarci armi e munizioni.

Ma erano arrivati prima i crucchi. La grotta era intrisa di sangue. Lì era stato compiuto un massacro. A testimoniarlo, i corpi deformati dei nostri compagni. Rimasi impietrito di fronte a quello spettacolo. Ciò che era accaduto alla Benedicta mi aveva sconvolto, ma non mi ero ancora abituato all'odore acre della morte.

Arturo trovò un fucile con qualche munizione. Volevamo dare degna sepoltura a quei ragazzi, ma non potevamo trattenerci oltre. Recitammo una preghiera e ci inoltrammo ulteriormente nel bosco.

 

I tedeschi misero a ferro e fuoco tutta la zona del Monte Tobbio, bruciando e distruggendo tutte le cascine che trovavano sul loro cammino. Dovevamo stare attenti a non imbatterci in qualche squadra.

Decidemmo alla fine di scendere a valle, tornare al paese e alle nostre famiglie. Ma dovevamo essere sempre vigili. Sentimmo un rumore di passi. Erano pesanti, troppo pesanti per essere tedeschi. Ci nascondemmo comunque dietro ad una grossa roccia. Arturo puntò il fucile nella direzione dei presunti passi. Sbucarono due ragazzi, erano partigiani.

<< Da dove venite voi due? >>

<<....dalla Benedicta >>

Ci guardarono stupefatti. Eravamo forse gli unici superstiti di quel che era successo lassù. La voce del massacro aveva già iniziato a girare.

<< Noi stiamo scendendo a valle....Non possiamo più vivere così.Ci presentiamo al comando tedesco...dicono che non ci porteranno via. >>

Io e Arturo ci scambianno uno sguardo attonito. Se i partigiani si consegnavano ai crucchi, la speranza era morta. Avevamo perso.

Da cosa stavamo scappando? Forse allungavamo solo l'attesa della nostra morte.

Trovammo uno spiazzo riparato e ci riposammo. Chiesi cosa fosse questa storia del consegnarci ai crucchi.

<< E' arrivato mio padre e mi ha spiegato che se ci consegnamo, i tedeschi ci condonano la pena prevista e non ci spediscono in Germania sui treni.... >>

Lessi quasi un velo di vergogna sul volto di quel giovane, che come me aveva riposto tutte le sue speranze della Brigata.

<< Noi abbiamo scelto di scendere...entrambi vogliamo riabbracciare i nostri cari...se volete unirvi a noi, siete i benvenuti. >> Era un invito quasi forzato.

Io e Arturo ci scambiammo uno sguardo disperato, non sapevamo cosa fare. Ma eravamo stanchi, malnutriti e pieni di sconforto. Alla finedecidemmo anche noi di scendere.

 

Giungemmo dinanzi al Comando. Dopo essere stati schedati, ci caricarono su un Camion. Passammo attraverso tutti i paesi: Morsene, Rossiglione, Masone fino all'arrivo a Genova. Per i tedeschi farci fare quella "parata" era un modo per umiliarci, ma in realtà tutti gli sguardi che incrociammo erano di ammirazione e di orgoglio. Eravamo visti come degli eroi. Arturo era commosso. Ma io non ci trovavo niente di eroico. Ero scappato come un vigliacco, mi ero costituito al nemico, troppo stanco e atterrito per continuare la lotta.

A Genova dovevano sistemarci alla Casa dello Studente, però non c'era posto. Ci riportarono indietro e fummo rinchiusi a Voltaggio. Li, incontrammo i nostri compagni sopravvisuti all'eccidio, catturati durante il rastrellamento sul Monte Tobbio. Ci scambiammo qualche sorriso d'incoraggiamento, nulla di più.

Al mattino ci fecero radunare nel cortile delle scuole. Ad attenderci c'era una figura già vista, ma non riuscivo a ricordare dove. Poi ecco, lo rividi in mezzo al piazzale del sacrario. Quel crucco era presente alla Benedicta. Aveva dato lui l'ordine di sparare.

Si presentò come maggiore Rotherpieler. Ci fece un discorso molto amichevole, ma nella mia testa risuonavamo ancora le urla di agonia, gli spari e i pianti incessanti di chi assisteva alla morte degli amici. Ci veniva data la possibilità di riabilitarci e riscattare la nostra colpa; in cambio dovevamo solo combattere o lavorare per la causa dell' Italia e della sua alleata. Ci assicurò che ci avrebbero smistato ai centri di reclutamento. Da buon tedesco qual era, ci diede la sua parola d' onore che non saremmo mai stati inviati in Gemania.

Un'ora dopo, giungemmo a Novi. Fummo alloggiati a Villa Rosa, circondati da sentinelle armate e reticolati di filo spinato. Alla vista di quel dispiegamento di forze, sapevo che le parole di quell'uomo non erano che fumo negli occhi per noi poveri disperati.

 

Sulle montagne avevo sentito spesso parlare dei campi del Nord, dove ti fanno lavorare fino alla morte. Ma li per lì mi sembravamo non più che storie. Esaltazioni della guerra. Un uomo non può arrivare a tanto. Ma non avevamo ancora conosciuto i crucchi. Nei loro occhi leggevamo un odio mai visto prima. Ci disprezzavano. Eppure, molti dei loro erano ragazzi come noi.

Il 12 aprile 1944, salii sul treno. In 400 partimmo per la Germania. Arturo era sempre al mio fianco.

 

Persi il conto dei giorni trascorsi chiuso in quel vagone.

Quando finalmente sentì i freni stridere e i portelloni aprirsi, un vento gelido mi sferzò il viso. Dinanzi a me si stagliava un' imponente fortezza in pietra: ero arrivato a Mauthausen.

Gli occhi mi si riempirono di lacrime.

E nel profondo del mio cuore sussurrò una frase : tornerò mamma...ritornerò.

 

Destinazione ignota

Destinazione ignota
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Giovanni era un ragazzone buono e simpatico, un po' bonaccione. Conosciuto da tutti come Batta, si era invaghito di Rosetta, la fidanzata del fratello maggiore Paolo. Anche se gli ronzava sempre intorno, non aveva mai espresso i propri sentimenti per paura delle ripercussioni. Nel quartiere savonese di Marmorassi li conoscevano tutti, e avevano molta stima del fratello di Batta.

 

Purtroppo però, Paolo venne chiamato per il sevizio militare e Rosetta rimase così sola. Batta non esitò un attimo e, superata la prima fase di imbarazzo, iniziò a corteggiarla. La Rosetta non si fece pregare due volte, e in breve tempo, la giovane coppia decise di sposarsi. Ovviamente la cosa non passò inosservata nel quartiere, ma i due non ci diedero molto peso.

Quando suo fratello ritornò a casa, non se la prese con Batta. Anzi, vedendoli così felici e contenti, fu felice anche lui. Questa sua reazione, così pacata, stupì un po' tutti.

Una sera, mentre prendeva un bicchiere di vino alla società, qualcuno gli fece notare la storia di Rosetta e Batta, ma lui tagliò subito il discorso esclamando << Se si accontenta dei miei avanzi, sono felice per lui!>>. Dopo quella volta nessuno chise più niente.

 

Rosetta rimase presto incinta di Giovanni. Il ragazzo doveva dunque darsi da fare: trovare un lavoro per mantenere la nuova famiglia. Non poteva più permettersi di ciondolare tutto il giorno.

Ma Batta, anche se di buon cuore, non era molto sveglio e dovette affidarsi a Paolo. Lui lavorava come capo elettricista all'ILVA di Savona, e cercò di far trovare  un posto anche per lui. Non ebbe molte difficoltà: l'economia della fabbrica andava bene e c'era sempre del lavoro.

 

In breve tempo Batta si fece conoscere da tutti. Cercava sempre di portare allegria in ogni reparto dove andava a fare i lavori. Suo fratello invece era molto più serio. Spesso e volentieri rimbeccava il fratello minore per la poca serietà che ci metteva durante il turno. Anche se sapeva che lo avrebbe rallentato, aveva optato per prenderselo come apprendista e portarselo dietro in qualsiasi reparto. Un po' per insegnargli il lavoro, un po' per controllarlo.

 

Ma la guerra arrivò a Savona. E le risate cessarono anche per Giovanni. Durante tutto il 1943, i bombardamenti avevano causato ingenti danni agli edifici e avevano provocato molti morti. Le vie e la stessa vita della città non erano più le stesse. I rifugi anti aereo erano diventati delle vere e proprie seconde case. Interi quartieri vennero spazzati via in pochi minuti. Piazze e palazzi  non esistevano più.

Per fortuna la casa di Batta non era stata colpita.  Essendo in un quartiere periferico,  non venne presa di mira dai bombardamenti. E, fortuna ancora più grande, la fabbrica dell'Ilva era rimasta in piedi. Sembrava una scena surreale. Lo stabilimento si stagliava impetuoso tra il porto e la fortezza del Priamar. Tutt'intorno, macerie di case bombardate. La ciminiera sovrastava tutto e continuava a fumare giorno e notte.

La produzione non si fermava mai e, con l'incremento dello sforzo bellico al fronte, la produzione era addirittura aumentata.

 Essendo operai, Batta e suo fratello non vennero chiamati per la leva; con le loro tute blu servivano l'esercito italiano nella stessa maniera dei ragazzi al fronte.

 

Però la situazione stava diventando insostenibile anche per gli stessi operai.  Per via dei vari blocchi nei porti, i viveri di prima necessità avevano iniziato a scarseggiare.  La fame era diventata compagna costante delle loro vite e le promesse fatte dai pezzi grossi dell'azienda,  ma mai mantenute, non facevano che accrescere quel senso di malessere che aleggiava nell'aria dei reparti. I cambiamenti tanto promessi, non erano mai arrivati. Non si riusciva ad intravedere un aumento nello stipendio e comprare anche solo che un pezzo di pane era diventato quasi impossibile. Gli alimenti avevano toccato cifre da capogiro. I negozi erano vuoti. Si salvava solo chi era riuscito nel tempo a mantenere un pezzettino di orto tra le varie case.

 

Produrre per i tedeschi non aiutava certo a tirare su il morale, ma era l'unico modo per portare in tavola del cibo la sera. Molti dei lavoratori avevano parenti e amici che, o erano dovuti partire per il fronte, o si erano rifugiani sulle montagne per cercare di contrastare quel regime che stava distruggendo la nazione. Mario, un collega di reparto di Batta, aveva suo fratello Luca sulle montagne di Cuneo. Era scappato per non essere chiamato al fronte. Non si avevano più sue notizie da diversi mesi ormai. Ma Mario sapeva che suo fratello non si sarebbe fatto ammazzare così facilmente.

Ogni tanto venivano degli uomini in divisa in reparto, a chiedere di Luca, ma  Mario rispondeva sempre in modo vago. Non poteva rischiare di essere portato in qualche stanzino e torturato  per dare informazioni sul fratello e sui compagni. Preferiva giurare il falso che condannare tutto il gruppo.

 

Se c'erano ragazzi come Mario, ce ne'erano altrettanti come Fausto. Un omone degli altiforni, che si era incollato addosso la camicia nera. Lui era un tutt'uno coi fascisti. Se vedeva o sentiva qualcosa di sospetto, non perdeva tempo e andava a riferire tutto. Batta andava d'accordo con entrambi all'interno della fabbrica. Cercava di non schierarsi con nessuno dei due fronti. Un po' perchè non se ne capiva molto di politica, un po' perchè suo fratello gli aveva consigliato di starsene fuori. A lui doveva importare solo di lavorare, finire il turno e tornarsene a casa.

 

 

<< Batta! Hai sentito? >> Chiese un giorno il suo collega di turno, Massimiliano.

<< Cosa?>> Giovanni non seguiva molto le cronache locali, voleva vivere in pace. Ma più che vivere, in quel periodo sperava di sopravvivere.

<< Vogliono fare uno sciopero!>> Massimiliano abbassò il tono della voce per non farsi sentire da orecchie indiscrete. Batta non era mai venuto ad una riunione segreta, ma sapeva che ci si poteva fidare di lui.

<< Uno sciopero? >> chiese Giovanni, cercando di non mostrare troppo interesse. Sapeva benissimo che le cose sarebbero potute andare di male in peggio se si fosse realmente fatto uno sciopero. Aveva sentito delle voci negli spogliatoi, ma nulla di più.

 

Ma quelle voci si facevano sempre più forti dopo la manifestazione dei colleghi della Scarpa & Magnano e iniziarono a girare per i reparti e gli spogliatoi volantini e manifesti che invitavano i compagni dell'Ilva ad unirsi per uno sciopero generale dello stabilimento.

Batta, appena si trovò con uno di questi pezzi di carta tra le mani, lo lesse attentamente, per poi buttarlo subito dopo. Non voleva rischiare di passare per un provocatore.

Da un lato, era d'accordo con lo sciopero, ma dall'altro, si sentiva in dovere di continuare a lavorare per portare a casa il pane per la famiglia. Rosetta era di nuovo incinta. Anche se la cosa lo insospettì un poco, non poteva permettersi di perdere il lavoro. Delle vite dipendevano da lui. E poi, se avesse scioperato, cosa sarebbe successo? I tedeschi non erano gente che scherzava tanto. Non poteva rischiare di lasciare la sua famiglia senza cibo.

 

Da diversi mesi comunque, per lo stabilimento venivano affissi manifesti ufficiali, in cui veniva dichiarato <<lo sciopero è sabotaggio>>. Segno che qualcosa era arrivato alle orecchie sbagliate. Il malumore era ormai un fatto comune tra tutti, e ognugno  si stava preparando al peggio.

 

La mattina del 1° marzo 1944, Batta si recava al lavoro col il fratello. Poteva sembrare una mattinata come tante altre, ma in cuor suo sapeva che non era così. Involontariamente, aveva salutato sua moglie con più enfasi del solito. Lei rimase molto sorpresa per questo ma non ebbe nemmeno il tempo di chiedergli come mai che lui si era già avviato verso la fabbrica. Il pancione si intravedeva da sotto la veste.

Savona era particolarmente silenziosa quella mattina. Ogni tanto, macerie di palazzi bombardati sbucavano dalle vie secondarie.

I rifugi antiaerei si riconoscevano subito, e Batta li conosceva tutti a memoria.

 

Nei giorni precedenti, aveva notato un aumento della distribuzione dei volantini clandestini. Gruppi sempre più numerosi si riunivano in segreto a parlottare di qualcosa.

Quando quella mattina Batta e suo fratello entrarono in reparto, la tensione era tagliente.

Stava per succede qualcosa di grosso. Batta lo poteva leggere benissimo negli occhi dei suoi colleghi.

Difatti, poco dopo l'inizio del turno, come guidati da un'unica voce, in quasi tutti i reparti dell'Ilva la produzione cessò ma nessuno abbandonò il suo posto. Batta ci pensò qualche minuto prima di decidere di incrociare le braccia, spinto dagli sguardi dei ragazzi affianco a lui

Ecco, persò, ci siamo. Lo sciopero è cominciato.

Paolo si era allontanato per recuperare la cassetta dei ferri, e quando arrivò  vide suo fratello a braccia incrociate. Andò su tutte le furie e, prendendolo per il colletto, lo spinse contro uno dei macchinari. Paolo sapeva cosa stava rischiando il fratello con quel comportamento e non aveva certo l'intenzione di finire ammanettato e portato chissà dove.

 

Nemmeno il tempo di inveire contro il fratello più piccolo che lo stabilimento si trasformò in un formicaio,  riempendosi di tedeschi, bersaglieri e G.N.R.

Urla, ordini gridati in lingue diverse e soldati che correvano da tutte le parti.

Batta aveva paura. Lo sapeva che sarebbe finita male. Si malediceva per essersi fatto trascinare.

Liberatosi dalla presa del fratello, si guardò intorno nella speranza di incrociare qualche sguardo di supporto, ma in tutti gli occhi non lesse altro che preoccupazione e paura. Anche se i militari correvano su e giù per i reparti, nessun operario si mosse dalla sua postazione, nessuna macchina tornò in funzione.

Suo fratello, capita la situazione, non si fece prendere dal panico, raggruppò tutti gli attrezzi da lavoro e cercò di nascondersi tra i macchinari.

<< Forza Batta! Seguimi!>> Cercò invano di farsi seguire dal fratello. Batta non riuscì a seguirlo. Era come paralizzato. E poi, all'improvviso, due tedeschi lo presero per le spalle e lo lanciarono in mezzo alla sala. Con lo sguardo cercò invano suo fratello, nascosto nel buio.

 

In poco tempo, oltre un centinaio di scioperandi e lavoratori vennero raggruppati nelle sale più grandi. Molti erano giovani, giovanissimi.

Nella confusione, qualcuno riuscì anche a scappare. Ma Batta non era il tipo da cogliere gli attimi e rimase in piedi nella sala. Eseguì gli ordini che gli erano stati gridati; all'improvviso, senza una ragione apparente, si ritrovò con una canna di un fucile tedesco puntata sul petto.

 

Successivamente, venne formata una colonna e gli operai vennero condotti ella sede della Questura di Savona. Non si poterono nemmeno togliere i vestiti del lavoro.

Si fermarono nel grande piazzale al centro della struttura di mattoni. Tutt'intorno, uomini in divisa e armati di mitra.

Un militare italiano reggeva una lista di nomi. Scorse il dito lungo il foglio e gridò: << Suetta Giovanni Battista!>>

Batta esitò. Un brivido gli corse lungo la schiena. Ma dopo pochi secondi fece un passo avanti, staccandosi così dalla fila. Venne strattonato e condotto all'interno dell'edificio. Dopo vari giri tra corridoi e stanze, lo buttarono dentro  un piccolo stanzino. Non capiva perchè presero proprio lui. Un militare lo perquisì da cima a fondo. Ringraziò se stesso di non aver tenuto nessun volantino nelle tasche della tuta.

Ad attenderlo in un'altra stanza, seduto su una scrivania lucida, un militare fascista. La testa pelata luccicava proprio come gli stivali neri. Il militare alzò gli occhi e per un breve istante incontrarono quelli di Batta.

Poi, con un brusco cenno del capo, ordinò ai suoi di far sedere l'operaio.

 Venne interrogato sullo sciopero. Prima in modo cordiale, poi con un fare sempre più insistente, gli chiesero chi aveva organizzato il tutto, chi stampava e distribuiva i volantini.  Ma Batta non ne sapeva niente. Provò a ripeterlo più volte, cercando comunque di non mettere nei guai nessuno. Sapeva qualche nome, ma non voleva parlare. Non voleva mettersi in difficoltà con nessuno. Cercò di convinverli che lui era solo andato a lavorare come tutti i giorni. Ma ovviamente nessuno gli credette. Il tempo sembrava non passare mai. Il fascista iniziò ad avere un atteggiamento aggressivo. Stava perdendo la pazienza. All'ennessino non so nulla, ve lo giuro  una mano pesante e callosa pionbò sul volto di Batta. Un rigolo di sangue iniziò a scendergli dal labbro ed andò a macchiare la tuta ancora sporca del lavoro.

Venne risbattuto in fila. Nessuno ebbe il coraggio di guardarlo in viso. Presero poi altri operai per l'interrogatorio. Il tempo sembrava non passare mai.

Finalmente, finiti gli interrogatori, gli scioperandi vennero condotti in Corso Ricci, nella caserma della 34° Legione delle Camicie Nere.

 

La colonna entrò all'interno del cortile. Giovanni, essendo tra i primi, si accorse subito di un camion militare proprio al centro. Dei soldati li stavano aspettando.

Era confuso. La guancia gli doleva ancora, ma guardandosi intorno capì che con lui c'erano andati leggeri.

Non sapeva cosa sarebbe successo, chissà se sarebbe riuscito a tornare a casa. La sera era ormai scesa. Sperava che qualcuno fosse andato ad avvisare sua moglie dell'arresto. Non faceva altro che pensare a lei. E suo fratello? Con tutto quel caos se ne era dimenticato. Non l'aveva visto nella colonna. Forse era riuscito a salvarsi almeno lui.

Intanto intorno al camion iniziò del movimento e questo portò Giovanni alla realtà della situazione.

Dal retro del camion spuntò una mitragliatrice, puntata proprio sul gruppo di prigionieri.

Un giovane in divisa dettò le condizioni. Se lo sciopero non fosse cessato all'istante, la mitragliatrice avrebbe fatto fuoco.

I tedeschi ci trovavano un certo gusto a diversirsi con questi operai smagriti. Ridevano nel vedere il terrore della morte in quegli occhi.

Ma Batta non era divertito. Alla vista di quell'arma, iniziò a sudare copiosamente, nonostante la serata non fosse particolarmente calda. Un rigagnolo di sudore gli corse lungo tutta la schiena, formando una chiazza in fondo alla tuta del lavoro. Nessuno ebbe il coraggio di guardare il suo vicino, impietrito davanti a quell'arma micidiale. Un solo gesto, una sola parola e potevano morirne a decine in pochi secondi.

 

Ma non accadde nulla.

La mitragliatrice venne scaricata dal furgone e si iniziò il carico dei prigionieri. Ovviamente lo spazio non era sufficiente ad ospitare tutti, ma questo non importava ai militari.

Batta cercò di indietreggiare e venne fatto salire quando il mezzo era pieno per metà. Riuscì a trovarsi un piccolo spazio vicino al portellone, mentre dal fondo si iniziarono a sentire dei lamenti. L'aria stava iniziando a mancare.

Alcuni, per la paura provocata dalla mitragliatrice, avevano lasciato andare gli intestiti e l'odore riempiva tutto il vano. Ma nessuno ci fece caso.

Da un lato erano sollevati dall'essere ancora vivi, ma sapevano che non avrebbero fatto ritorno a casa tanto presto.

 

Gli operai dell'Ilva, assieme ad altri prigionieri furono condotti all'istituto "Merello" di Spotorno e nel carcere di "S. Agostino".

Furono tenuti lì per due lunghissimi giorni. Vennero trattati come bestie, tra insulti, minacce di morte e percosse.

Batta non ne poteva più. Aveva le labbra spaccate dalla troppa sete e un occhio livido per le botte ricevute. Ma più si guardava intorno, più capiva che c'era chi stava peggio di lui.

I giovani passarono quei due giorni a piangere. Si pentirono amaramente di aver preso parte allo sciopero. Poi c'era chi, lontano da orecchie indiscrete, continuava ad inneggiare alla causa, incitava a resistere, a non sottomettersi alla mano dura dei padroni e dei militari.

Batta ammirava questi elementi. Ma in fondo sapeva bene che, più che incitare gli altri, cercavano di farsi forza loro stessi.

Ogni tanto veniva una guardia, apriva una cella e portava via un operaio. Questo, ritornava solo dopo non si sa quanto tempo, conciato peggio di prima. C'era chi provava a chiedere dove l'avessero portato, ma i più cadevano in un profondo mutismo.

 

Finalmente quell'inferno cessò e vennero condotti a Genova, a Villa Di Negro.

Nel passare di nuovo attraverso Savona, Batta osservò tutto con attenzione. Pensò alla sua famiglia, a sua moglie, al piccolo Flavio e al piccolo che doveva ancora nascere. Ai suoi genitori e a suo fratello. Ma nessuna lacrima gli rigò il viso. Si era convinto che non sarebbe più riuscito a tornare a casa.

 

Arrivati a destinazione, vennero nuovamente messi in fila. Spogliati di ogni cosa, furono visitati da un gruppo di uomini in camice bianco.

E' risaputo che i tedeschi sono maniaci dell'ordine e, conclusa la visita, vennero nuovamente formati due gruppi: gli abili e i riformati.

Batta fu inserito tra i secondi.

 

Uniti ad altri operai del Piemonte e della Lombardia, circa sessantasette operai dell'Ilva, tra cui Batta, furono caricati su dei carri bestiame.

La prima sosta fu a San Vittore, per poi ripartire per Bergamo.

Il viaggio era estenuante. Batta non aveva mai patito così tanto la fame e la sete. Rinpiangeva casa sua, il suo posto in fabbrica; eh si, anche quello gli mancava. Gli mancava la minestra calda alla sera, il tozzo di pane raffermo che la moglie gli fasciava nel fazzoletto per il pranzo. Gli mancavano i rimproveri del fratello, il sorriso del figlioletto. Non avrebbe mai visto gli occhi del  nuovo arrivato. Pur sapendo che non era figlio suo, lo avrebbe amato comunque. << Se nasce femmina >>, aveva detto un giorno a Rosetta, <<...chiamiamola Mirella >>

 

Arrivati a Bergamo, gli animi erano gelati. Alcuni iniziavano a discutere sulla meta finale. Sapevano benissimo che quelle erano soltanto delle soste intermedie.

Batta cercava di respirare più aria pulita che poteva durante quelle fermate. La tuta era ormai logora ed emava un odore nauseabondo, ma dentro quel carro c'erano odori ben peggiori.

Le inibizioni cessarono di esistere.

 

Durante l'interminabile viaggio, Batta ogni tanto provava a chiudere gli occhi, ma dormire era praticamente impossibile.

Il rumore del treno era assordante.

 

Finalmente, dopo un tempo che era parso infinito, le porte del treno si aprirono.

Dopo quasi venti giorni di viaggio, tra interrogatori, violenze e privazioni, gli operai dell'Ilva di Savona giunsero nell'inferno sulla terra. Quel 20 marzo 1944 a Mauthausen nevicava.

Faceva freddo, e il gruppo era ancora più infreddolito per le privazioni del viaggio. Gli operai piemontesi e lombardi erano abituati alla neve, ma Batta no. Era una cosa che soffriva. Cresciuto in una città di mare, era abituato all'odore di salsedine, al sole che  brucia il viso ed al rumore delle onde. Odiava la neve.

I tedeschi li riunirono nel pazziale principale e li lasciarono li fino a sera. Non una voce si levò per protestare quell'attesa. Erano come afflitti, denudati dalla loro stessa anima.

Al calar del sole, dai tedeschi arrivò l'ordine di andarsene nelle baracche a loro assegnate. Un militare urlava numeri e nomi mentre un prigioniero italiano che aveva la sfortuna di parlare un poco di tedesco aveva il brutto compito di tradurlo.

 

A Savona, giorni dopo il grande sciopero del primo marzo, non si parlava d'altro che di quel gruppo di operai che i tedeschi portarono via.

Rosetta non aveva più visto il marito rincasare, tantè che si era spinta perfino alla fabbrica per chiedere sue notizie. Non aveva il coraggio di chiedere a Paolo. E anche l'uomo, dal canto suo, non aveva il coraggio di avvicinarsi a Rosetta e dirle la verità. Aveva abbandonato suo fratello, l'aveva condannato.

Arrivata davanti alla portineria con Flavio al fianco, venne fermata da un soldato armato che le intimò di girare alla larga da quella zona.

<< Sto solo cercando mio marito. Lavora qui...Si chiama Giova...>>

<< Basta! Se ne vada!>> urlò il militare e, piazzandosi a gambe larghe davanti all'ingresso, sbarrò la strada alla donna.

Rosetta indietreggiò ma voleva comunque avere notizie di suo marito. Riprovò diverse volte, sottolieando anche il fatto che si era recata lì a piedi da Marmorassi con un bimbo in grembo. Ma il gendarme fù impassibile. Col calcio del fucile  la spinse via. Negli occhi si leggeva una  tale rabbia che Rosetta rimase come pietrificata.

La scena fu vista dalla portinaia, che conoceva benissimo Rosetta, Paolo e ancor di più Giovanni.

La donna, nonostante l'avvertimento del militare, cercò in tutti i modi di raggiungere la povera mamma.

<< Rosetta, Rosetta cara...Hanno portato via il tuo Giovanni.>> Rosetta non ci credeva. Non potevano aver portato via suo marito.

<< Dove? Dove l'hanno portato?>>
<<Non lo so...vai a chiedere alla Caserma..magari loro ti sapranno dare delle risposte...>>

 

Rosetta era frastornata, ma voleva a tutti i costi scoprire dove avevano portato il suo Giovanni.

Col piccolo Flavio per mano, arrivò davanti alla caserma. La scena che le si presentò davanti fù straziante: altre madri e mogli coi bambini  cercavano spiegazioni sulla destinazione dei loro cari. Erano tutti operai dell'Ilva. Rosetta riconobbe alcune donne e si unì a loro. Insieme, pensò, forse avrebbero avuto più fortuna.

Finalmente, dopo ore di attesa, di suppliche e di preghiere, alle donne venne consegnato un certificato. Con tono freddo e distaccato, in una frase scritta a macchina era racchiusa la destinazione dei loro amati.

Accanto al nome, a chiare lettere era scritto "partito per destinazione ignota".

 

Il mondo era come crollato su se stesso. Rosetta ritornò a casa stringendo al petto quel foglio di carte, ultimo ricordo di suo marito.  Sapeva benissimo che non sarebbe mai più tornato, che non l'avrebbe più riabbracciata.

 

Rimasta sola, dovette arrangiarsi come meglio poteva. Iniziò a gestire la società di Marmorassi. La piccola Mirella era ormai nata, bella e sana. Non aveva avuto il coraggio di dire a suo marito che quella bambina nata da poco, non era figlia sua. Ma probabilmente lui lo sapeva già. Flavio aiutava la mamma come meglio poteva. Era un bambino sveglio e gentile. Ma Rosetta molti lavori non riusciva proprio a farli da sola. Ogni tanto arrivava Luigino a darle una mano, ma anche lui aveva il suo lavoro e la sua famiglia da mantenere.

Un giorno, mentre era intenta a scaricare delle damigliane di vino nel retro del negozio, arrivò Paolo. Dal giorno della retata, non l'aveva più visto. Non era riuscita nemmeno a fargli vedere la piccola Mirella. Tramite una vicina, il cognato le lasciava sempre qualcosa per sostenere i bambini. Ma doveva fare tutto di nascosto, la moglie di Paolo lo controllava a vista. E con Rosetta non scorreva buon sangue. Era dimagrito e aveva due grosse occhiaie. I due si guardarono a lungo. L'uomo iniziò a portare dentro le damigiane senza dire una parola. A Rosetta scese una lacrima.

 

Un giorno, alla stazione di Savona arrivò un treno. Scesero otto uomini  gravemente denutriti e menomali. Erano gli uomini dell'Ilva, sopravvisuti all'inferno del lager di Mauthausen. Tra questi, Batta non c'era.

Dopo aver riabbracciato i propri cari, i superstiti si recarono dai cari di chi non aveva fatto ritorno. Alla porta di Rosetta bussò Mario. Non sapeva come dirle la verità e alla fine, decise di ometterla. Le disse che Batta non era sopravvisuto a quella vita di stenti, soprusi e fatiche. Ma la verità era un'altra.

 

Giovanni "Batta" non aveva trovato la forza per resistere. Sapeva che la moglie era rimasta incinta di un altro uomo. Tutti nel quartiere sapevano la vera natura della moglie. Suo fratello era stato più furbo di lui. Doveva capirlo dal fatto che non aveva mosso un dito quando gli aveva soffiato la fidanzata. E durante la retata si era nascosto, riuscendo a tornare a casa. Lui no. Non era mai stato molto furbo.

 In quel campo coperto di neve, Batta non riuscì a trovare la forza per reagire a tutto quello che era costretto a sopportare. Decise dunque di farla finita. Diede le sue razioni di cibo a dei ragazzi giovani, tanto a lui non servivano più. Non era un ambiente dove si facevano molte domande. Dentro al campo nessuno giudicava. Morì poco tempo dopo, tra il filo spinato coperto di neve.

 

Le motivazioni base dello sciopero del 1 marzo 1944 non furono mai raggiunte, ma l'atto in sè ebbe un significato diverso. Diede coraggio alla popolazione savonese di ribellarsi, di contrastare quel regime che portava fame e vedove.

Lo sciopero dell' Ilva non si concluse con una sconfitta, ma diede il via alla liberazione di Savona. 

 

Oggi, una lapide ai piedi della Fortezza del Priamar di Savona ricorda quei 67 operai deportati. Ogni tanto, qualcuno vi deposita una rosa rossa.

 

Giovanni Battista Suetta era il mio pro zio. E questo racconto si basa sulla sua storia.

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di Beatrice Citron

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