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Sezione di Psicologia

Harry Potter senza magia

Harry Potter ha conquistato i cuori di grandi e piccini: chi ha letto i libri ha avuto l’occasione di entrare più nel profondo delle storie rispetto a chi invece si è fermato alla versione cinematografica.
J. K. Rowling ha trattato alcuni tra i temi più spinosi della nostra società rendendoli più delicati per i più piccoli ma sufficientemente comprensibili da chi tanto piccolo non era mentre percorreva con la mente i corridoi della Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts.
Tra gli argomenti più caldi evidenziati da J.K. Rowling troviamo l’omosessualità, il razzismo, le differenze di genere ma anche concetti come la famiglia, l’amicizia e l’amore.
Il
“fenomeno Harry Potter” è stato studiato anche in psicologia e in letteratura si possono trovare moltissimi articoli e libri che si sono concentrati sulla storia del maghetto più famoso del mondo.

Harry Potter

Razzismo e magia

Per cominciare il mondo magico è contraddistinto dalla dualità: il bene e il male, i buoni e i cattivi, i puro – sangue e i mezzo – sangue. La questione dei Babbani è molto presente nei libri ma anche nei film è sottolineata: sono considerate persone meno avanzate e allo stesso modo sorprendenti poiché possono completare compiti senza l’uso della magia, cosa che per i maghi è completamente impossibile, si pensi a Molly Weaseley che usa la magia lavare i piatti oppure cucire.
Sempre restando nella famiglia Weaseley, uno dei fan più accaniti dei Babbani e delle loro affascinanti vite, è Arthur Weaseley il quale, al Ministero della Magia, lavora all’Ufficio per l’Uso Improprio degli Artefatti Babbani. Arthur Weaseley fa parte di quella parte di società magica che non vede i Babbani come dei nemici o li disprezza, ma come un popolo dalle curiose tradizioni. Arthur Weasley stravede per tutto ciò che riguarda i Babbani, infatti in uno dei primi momenti in cui incontra Harry gli chiede la funzione di una paperella di gomma! Arthur Weaseley rappresenta l’ambivalenza: lavora per l’uso improprio degli oggetti babbani ma è lui il primo ad adorarli e a desiderare di usarli.

Ritorniamo così alla dualità presente nella saga di Harry Potter: Arthur Weaseley è, naturalmente, il primo esempio di quella parte di popolazione magica “buona”, quella che sì, è affascinata ma non disprezza i Babbani e non vuole di certo fare loro del male.

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Dall’altro lato però si presenta la xenofobia che è per definizione:

“Paura dello straniero, paura che si manifesta attraverso comportamenti e atteggiamenti di rifiuto nei suoi confronti nella produzione del pregiudizio. La xenofobia individua una minaccia e afferma la superiorità del nazionale sullo straniero, dell'identità sull'alterità.”… “La xenofobia non prende di mira un avversario politico o economico o definito per certe sue pratiche culturali particolari, ma chi appartiene a un'altra società, e cioè lo straniero.” … “Occorre che lo straniero sia vicino, che sia in qualche modo interno, che condivida lo stesso mondo, perché la xenofobia acquisti forza, sia perché lo straniero invade la società dello xenofobo, sia perché si colloca in una condizione di superiorità o d'inferiorità al suo interno.” (Enciclopedia Treccani)

La frase più precisa di questa definizione è: “Lo straniero è qualcuno che manifesta nel suo aspetto fisico e/o nei suoi tratti culturali, nei modi e nel linguaggio che utilizza, di non appartenere all'identità culturale, spesso politicamente definita, del territorio in cui si trova.”

I puro – sangue del mondo magico la pensano proprio così: non comprendono pienamente la cultura dei Babbani ma si sentono molto superiori a essi. Si pensi alla scena in cui Draco Malfoy da a Hermione della “sporca mezzosangue”, nel secondo libro “La Camera dei Segreti”. Specialmente Draco Malfoy non manca mai di insultare Hermione per via del suo sangue, considerato come sporco, ma anche Ron e la sua famiglia perché simpatizzano per i Babbani e perché non sono una famiglia ricca. Draco Malfoy invece proviene da una stirpe di puro – sangue, è ricco, suo padre lavora al Ministero della Magia ed è uno dei fedeli servitori di Lord Voldemort.

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Un altro esempio di puro – sangue che odiano i Babbani è la famiglia Black che rinnegava gli elementi che tradivano il sangue della Nobile e Antichissima Casata dei Black. Sirius fu cancellato dall’albero genealogico della famiglia perché scappò a casa di James Potter, papà di Harry, rinnegando la supremazia dei puro – sangue; il nome di Andromeda Black, madre di Ninfadora Tonks, verrà bruciato ed eliminato dalla rappresentazione della famiglia perché ha sposato un Babbano.
All’interno della famiglia Black, benchè non sia un membro effettivo, c’è anche l’elfo domestico Kreacher il quale fa parte di una minoranza, rinnegata, schiavizzata, odiata e disprezzata dai maghi puro - sangue ma nonostante questo anche lui odia i Babbani e lo dimostra quando Hermione si trova nella residenza dei Black. Al contrario di Kreacher, Dobby l’elfo domestico della famiglia Malfoy è odiato dai suoi padroni e rischia tantissimo nell’aiutare Harry e, una volta libero, si rivela molto grato a Hermione e le si rivolge sempre con molto rispetto.

 

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Passiamo adesso a Lord Voldemort: cattivo, terrificante, sadico. Lord Voldemort ha avuto un cambiamento radicale all’interno della sua vita e ci viene permesso di riviverlo grazie ai ricordi nel pensatoio di Silente. Tom Riddle nasce e cresce in un orfanotrofio ed è figlio di Merope Gaunt discendente di Salazar Serpeverde e Tom Riddle Senior, un Babbano. Dopo la scuola diventa Lord Voldemort e crea gli Horcrux che rappresentano una delle peggiori sfumature della crudeltà.
Lord Voldemort nel periodo in cui seminava terrore nel mondo magico e uccideva Babbani e maghi che si mettevano sul suo cammino, come i genitori di Harry, aveva un’idea molto precisa di quale fosse la società che voleva instaurare e per farlo ha deciso di partire dalla scuola, cercando di modellare le menti dei bambini. Sarà poi Hermione a prendere la cattedra di Babbanologia per cambiare il modello educativo.
Nella letteratura Lord Voldemort è paragonato a Hitler, il quale considerava altrettanto fondamentale la razza ariana (maghi puro – sangue) che prevaleva sugli ebrei (Babbani).
Tuttavia J.K. Rowling è stata in grado di non presentare ai lettori il razzismo ma ha usato delle sfumature per differenziare il bene dal male. Inoltre mostra l’umanità dei personaggi “razzisti” come Draco Malfoy, un altro personaggio molto complesso, che ha affrontato un processo di cambiamento molto profondo. 

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Quindi i lettori possono valutare quali modelli comportamentali siano da seguire e a che cosa può portare adottare quelli razzisti ma che, oltre a questo, c’è sempre modo per cambiare e per dimostrare che c’è il modo per trovare la differenza tra bene e male. Bisogna anche sottolineare, tuttavia, la somiglianza tra Harry e Voldemort: il loro legame si rafforza nel corso degli anni ed entrambi vengono a sapere caratteristiche personali dell’altro, certe volte ciò che li accomuna è triste come il fatto di essere orfani, ma a volte è affascinante come il saper padroneggiare incantesimi complessi in giovane età.

L’attaccamento a Hogwarts

Negli anni Cinquanta John Bowlby afferma che gli individui abbiano una predisposizione innata a sviluppare relazioni di attaccamento con le figure genitoriali primarie che servono a garantire la sicurezza e la protezione dai pericoli. È qui che si sviluppa la Teoria dei Modelli Operativi Interni cioè delle rappresentazioni interne di sé stessi, dell’ambiente e delle figure d’attaccamento. Per valutare l’attaccamento nel periodo tra infanzia e adolescenza si usano due modelli di valutazione: il primo è stato sviluppato da Mary Ainsworth e si chiama Strange Situation dove il bambino all’età di uno o due anni viene esposto a brevi separazioni dalla madre in un ambiente di ricerca, ad esempio un laboratorio. Grazie alla Strange Situation vengono evidenziate tre tipologie di attaccamento: sicuro, insicuro – evitante ed insicuro – ambivalente.
In età adulta la tecnica più utilizzata è la Adult Attachment Interview (AAI) creata da George, Kaplan e Main ossia un’intervista semistrutturata per verificare se lo stile di attaccamento si ripete, e quindi si trasmette, attraverso le generazioni.
In adolescenza, un’età difficile e caratterizzata dal mutamento dei legami tra ragazzo e genitori oltre ad altre capacità che si sviluppano in quel periodo, i cambiamenti dei
Modelli Operativi Interni sarebbero legati agli eventi di vita stressanti, ai cambiamenti biologici e cerebrali, all'avvio della pubertà invece che dal tipo di attaccamento manifestato durante l'infanzia.

Se dovessimo associare gli stili di attaccamento sopracitati ad alcuni personaggi di Harry Potter, come sarebbero?
Bisogna fare una distinzione: l’attaccamento sicuro, nella Strange Situation, si manifesta quando alla presenza della figura genitoriale il bambino esplora l’ambiente e gioca ma quando il caregiver (figura genitoriale) esce dalla stanza il bambino è preoccupato. Nello stile insicuro – evitante il bambino tende a ignorare la figura genitoriale e a procedere con l’esplorazione, inoltre è indifferente all’uscita del caregiver. Nello stile insicuro – ambivalente il bambino agisce in modo contraddittorio nei confronti del caregiver, un po’ lo ignora e un po’ lo cerca. Quando esce e in seguito ritorna il bambino è inconsolabile.

Hermione potrebbe rappresentare il primo stile di attaccamento: il suo rapporto con i genitori è stabile e forte, sembra avere supporto da loro. Dopotutto ricordiamo che lei è una Babbana, perciò il fatto che i genitori le abbiano concesso di andare a frequentare una scuola di Magia e Stregoneria, è una manifestazione di fiducia e sostegno non indifferente da parte dei genitori. Inoltre anche loro prendono visione del mondo dei maghi e la accompagnano a Diagon Alley dove conosceranno i signori Weaseley. Hermione nomina i suoi genitori in diverse occasioni, specialmente nel sesto libro “Il Principe Mezzosangue” sia a lezione di pozioni, dove afferma di sentire odore di pasta dentifricia poiché suo padre è effettivamente un dentista, sia a cena con il Professor Lumacorno dove spiega a una tavolata di maghi il ruolo del dentista nella società babbana.
La sicurezza di Hermione è più volte presente nei libri, anzi è praticamente uno dei tratti caratteristici della ragazza: lo possiamo notare sin dal momento esatto in cui incontra Harry e Ron sul treno, è spavalda quando chiede a Ron di effettuare l’incantesimo che dovrebbe far diventare Crosta (il topo di Ron) giallo, è evidente inoltre ogni volta che alza la mano durante le lezioni. Dimostra un carattere forte in più occasioni e in situazioni di pericolo. Uno dei momenti in cui emerge il suo temperamento è quello in cui decide di creare il CREPA: nei film,

purtroppo, non si fanno accenni a questa “associazione” ma è il primo modo di Hermione di affrontare le ingiustizie, in questo caso verso gli elfi dato che CREPA significa Comitato per la Riabilitazione degli Elfi Poveri e Abbrutiti. Hermione tiene davvero al benessere degli elfi, forse perché facente parte di una minoranza talvolta denigrata, forse perché non trova giusto che gli elfi debbano lavorare per dare ai maghi da mangiare o fare loro il letto senza avere una retribuzione. Nonostante nessuno sposi la sua protesta, nemmeno l’elfo domestico Kreacher, Hermione non demorde evidenziando così un carattere tenace e sicuro di sé.

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Anche le relazioni amorose di Hermione sono fondamentali per associarla di più a questo stile di attaccamento: la prima cotta la ha a dodici anni per il Professor Gilderoy Allock, nei film è poco sottolineata ma nei libri è molto più presente. Hermione non è infatuata di qualche cantante o attore come succede spesso nel mondo Babbano, lei è interessata a un professore la cui fama e le cui peripezie sono famose nel mondo dei maghi: è un uomo affascinante, di bell’aspetto e, a quanto sembra nei suoi libri, molto capace. Tutte le ragazzine sono prese da lui e dal suo sorriso. Tuttavia è un’infatuazione che lascia il tempo che trova, un po’ perché Allock si rivela essere un impostore, un po’ perché è naturale che queste infatuazioni spariscano nel tempo, non solo per le età diverse ma perché l’amore non è maturo, fondamentalmente Hermione è una bambina.
Poi arriva la prima storia d’amore: quella con il campione del Torneo Tremaghi e giocatore di Quidditch, Viktor Krum. Anche lui è l’idolo delle ragazze di Hogwarts, tutte sono ossessionate dall’aitante e famoso Krum, ma non Hermione. A lei, inizialmente, è indifferente e subito tende a evitarlo, ma in seguito cede e inizia una vera e propria relazione con lui che dura un po’ di tempo e che infastidisce molto Ron. Al Ballo del Ceppo, Ron si comporta in modo antipatico con Hermione, la quale, dimostrando ancora una volta la sua sicurezza, gli fa presente che è molto maleducato e scortese e che, la prossima volta, dovrà riflettere prima di comportarsi in quella maniera.

 

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In seguito Hermione frequenterà McLaggen ma sin da subito è una relazione che non ha senso di esistere né è destinata a durare: una volta che lei si accorge di provare dei sentimenti per Ron (che nel frattempo ha iniziato una relazione con Lavanda Brown) tutto cambia.
Solo più avanti nella storia, Hermione e Ron, messi alle strette da una situazione di paura e di preoccupazione, in cui non sanno se sarà possibile rivedersi né tanto meno sanno se saranno vivi, troveranno il modo di ricongiungersi e, finalmente, di trovarsi, pronti per la loro relazione.

Dato che abbiamo citato Ron Weaseley, procediamo con lui. Ron è il penultimo di sette fratelli e ai più grandi si deve inevitabilmente paragonare. Molly Weaseley, per quanto madre amorevole e affettuosa, è anche un po’ agitata e con sette figli i motivi sono comprensibili. Arthur Weaseley, dal canto suo, è un uomo molto presente nonostante il lavoro che però lo porta a passare gran parte della giornata fuori di casa, perciò poniamo che Molly abbia accudito i figli per la maggior parte del tempo. I fratelli hanno uno o due anni di differenza l’uno dall’altro, perciò Molly non era probabilmente in grado di concentrarsi in modo adeguato su tutti e sette, dunque è possibile che non abbia saputo gestire i bisogni dei suoi figli.

Spesso la signora Weaseley è preoccupata che i suoi figli combinino disastri, di conseguenza nelle sue apparizioni nei libri e nei film, passa il tempo a sgridarli se ciò è già avvenuto e non dimostra praticamente nessun tipo di fiducia nei confronti di Ron e forse ancora meno in quelli di Fred e George. Charlie, Bill e Percy, invece (i fratelli maggiori) appaiono come più vicini all’idea di figli ideali della signora Weaseley: Charlie lavora con i draghi, è indipendente e non appare molto eccetto che nel primo libro (quando Hagrid trova Norberto) e nel quarto libro (durante il Torneo Tremaghi); Bill lavora alla Gringott (la banca dei maghi) e perde qualche punto nella classifica dei figli perfetti quando sposa Fleur Delacour (ex campionessa Tremaghi proveniente dalla scuola di Beauxbatons), perchè non è esattamente la moglie che Molly

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sperava per suo figlio; e poi c’è Percy: lui è forse quello che fa più soffrire sua madre quando rinnega la famiglia e si schiera dalla parte del Ministero della Magia.

Quindi Ron ha il suo bel da fare per gestire tutta la pressione familiare: Molly ama la sua famiglia ma è decisamente una donna ansiosa e il fatto che il signor Weaseley passi gran parte del tempo a lavorare non la aiuta. Ron manifesta sin dal primo libro il desiderio di attenzione, di essere popolare a Hogwarts e di essere geloso, sia nei confronti di Harry (e ciò appare nel quarto libro e, in seguito, nel settimo) sia in quelli di Hermione non appena si innamora o instaura una relazione. Una delle più grandi soddisfazioni di Ron, infatti, è la vittoria della partita di Grifondoro al quinto anno, dove tutti iniziano a venerarlo e a dedicargli anche una canzone.

Le relazioni di Ron sono inizialmente inesistenti, o meglio, fin da subito si nota la sua predilezione per Hermione ma non ha il coraggio di ammetterla, anzi non esiste un dialogo tra Ron ed Hermione in cui lui le confessa i suoi sentimenti. Anche nel parlarne con Harry, Ron fa molta fatica a descrivere ciò che prova per l’amica, infatti quando Harry gli suggerisce di fare una lista dei pro e dei contro di Lavanda e di Hermione lui è solo in grado di dire che Hermione ha una bella pelle e che il lato negativo di Lavanda è proprio quello di non essere Hermione. Così Ron si accontenta di Lavanda Brown, un personaggio molto insignificante e a tratti insopportabile, un amore sciocco e infantile ma che a Ron conviene perché non ha bisogno di affermare di essere innamorato di lei. Lavanda è infatuata di lui e questo basta a Ron per “essere felice” proprio perché il suo bisogno principale è quello di essere al centro dell'attenzione e per Lavanda non c'è nulla

al di fuori di lui. In questo paragrafo Ron è stato descritto come un personaggio pessimo ma in realtà non lo è: Ron è simpatico, è un fedele amico di Harry, al primo anno è lui a sacrificarsi perché Harry prenda la pietra filosofale e, tranne le litigate adolescenziali per gelosia dove però la colpa è anche di Harry come vedremo tra poco, non si può dire che Ron non sia un personaggio fondamentale per la vita di Harry. Infatti è necessario sottolineare quanto Ron tenga a Harry: va a salvarlo insieme a Fred e George per portarlo a casa sua, 

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durante le vacanze Harry è sempre alla Tana (la casa della famiglia Weaseley) e non si tira mai indietro quando si tratta di compiere atti illegali o azioni pericolose insieme a Harry.

Arriviamo, infine, a Harry. Partiamo dal presupposto che è irrimediabilmente sfortunato: James e Lily Potter muoiono senza che lui li abbia mai conosciuti; Sirius, il suo padrino, con cui instaura un legame affettivo profondo, muore; Remus Lupin, l’unico professore di Difesa delle Arti Oscure che Harry abbia mai apprezzato muore; Silente, il suo mentore, il mago che poteva fermare Lord Voldemort, colui che gli aveva permesso di scoprire la vita di Tom Riddle prima che diventasse Lord Voldemort e che lo aveva aiutato a trovare la strada verso gli Horcrux, muore.
Tutte le figure che possono essere associabili a un padre lo abbandonano. Vive per undici anni con i Dursley, persone disgustose, che lo denigrano, non lo coinvolgono nella vita familiare, lo costringono addirittura a dormire in un sottoscala e annullano, quasi deumanizzandolo, la sua personalità. In sostanza è quasi una fortuna che Harry sia venuto su in questo modo.

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Harry non si sente “abbastanza” perché gli è stato insegnato che non è nulla. Ad esempio quando partecipa alla cerimonia di assegnazione alle case è sicuro che farà parte di Serpeverde. Eppure ci sono altre tre case oltre a quella in cui sono stati tutti i maghi più cattivi. Il suo pessimismo lo segue come un uccello del malaugurio, Harry convive con esso. Persino al quinto anno, dopo aver salvato la pietra filosofale, Ginny dalla Camera dei Segreti, Sirius dalla morte non riesce a credere di essere in grado di insegnare ad altri incantesimi complessi quali l’Incanto Patronus. Certo, l’anno prima non era riuscito a salvare Cedric Diggory ma come avrebbe potuto?

Per questi e altri motivi l’attaccamento di Harry potrebbe essere evitante. Durante le litigate con Ron, ad esempio quella legata all’uscita del suo nome dal Calice di Fuoco, Harry si arrabbia e insulta spesso Ron. Nonostante sia un mago brillante e capace di fare incantesimi complessi non si sente mai abbastanza bravo, nemmeno dopo tutte gli incontri ravvicinati con Lord Voldemort, neppure dopo aver duellato con lui nel “Calice di Fuoco”. L’anno seguente è Hermione, infatti, a spingere perché il suo amico diventi il leader dell’Esercito di Silente, e chi avrebbe potuto farlo se non Harry?
Anche nelle relazioni sentimentali dimostra dei comportamenti evitanti: con Cho Chang ad esempio, oltre a non aver il coraggio di invitarla per tempo al Ballo del Ceppo ne “Il Calice di Fuoco”, non è proprio in grado di portare avanti una relazione, né di rendere quel periodo insieme a Cho roseo.
Anche con Ginny, Harry non si muove per cercare di avvicinarsi a lei nonostante provi dei sentimenti nei suoi confronti da mesi, è lei a fare il primo passo. Si lasciano per un breve periodo perché Harry deve combattere la sua battaglia contro Voldemort da solo nonostante poi accetti l’aiuto di Ron e di Hermione.
Anche Harry sembra essere un personaggio da nulla ma non è così: in realtà è un buon amico per Ron ed Hermione, è relativamente capace di fronteggiare la pressione mediatica (diremmo noi Babbani) che fin da piccolo lo ha messo sotto i riflettori e che continua a dargli una fama a cui non sente di appartenere. Pensiamo al quarto libro quando il suo nome esce dal Calice di Fuoco, magari sperava di passare un anno in tranquillità, in cui qualcun altro a Hogwarts sarebbe apparso come un eroe, un campione, una sorta di “Prescelto” e invece no. Naturalmente è toccato a lui essere il quarto campione Tremaghi e, come se non fosse abbastanza, oscura anche Cedric Diggory, il campione di Hogwarts autentico. In più deve convivere ogni giorno con la tensione da “morte imminente”, Lord Voldemort si sta rimettendo in forze per ucciderlo, insomma non dev’essere facile per un adolescente nel pieno del vortice dei cambiamenti puberali sopportare anche quella leggera tensione legata al fatto che Voldemort vuole ucciderlo e che alcuni professori (Sibilla Cooman) non fanno altro che ripetere che nelle foglie di tè o nella sfera di cristallo vedono chiaramente la sua morte.

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Conclusioni

Ci sarebbero innumerevoli cose da dire su Harry e sugli altri personaggi della saga: si potrebbe raccontare la vita di Silente oppure scoprire di più sulla famiglia Black, andare più a fondo su Draco e sulle sue scelte ma non basterebbe un articolo di alcune pagine.
Il mondo che J.K. Rowling ha creato non poteva essere più affascinante di così, il modo di descrivere e di porre tra le pagine temi profondi e stimolanti è sicuramente una delle parti migliori della saga che va al di là della storiella di un maghetto con dei poteri magici. 

Harry Potter è stato in grado di cambiare l’infanzia dei lettori e chi ha il piacere di leggerlo (o rileggerlo) da grande ha la possibilità di tornare bambino in quelle pagine e ciò non è per niente scontato.

Bibliografia e sitografia

Journal of Integrative Research & Reection Volume I j Spring 2018 Journal Management Team Sarah Matthews Kaitlin Ollivier-Gooch Yousuf Ramahi Victoria Shi
The Journal of Integrative Research & Reection (JIRR) is a free undergraduate student journal published by the Department of Knowledge Integration at the University of Waterloo. The copyright of all contributions remains with their authors. All else, ©2018 JIRR.

Mary Ainsworth, Modelli di attaccamento e sviluppo della personalità, Raffaello Cortina, Milano 2006

Modelli operativi interni e relazioni di attaccamento in preadolescenza Franco Baldoni In: Crocetti G., Agosta R. (a cura di): Preadolescenza. Il bambino caduto dalle fiabe. Teoria della clinica e prassi psicoterapeutica. Pendragon, Bologna, 2007, pp. 54-77.

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WIND GOODFRIEND, PH.D. Attachment Styles at Hogwarts From Infancy to Adulthood THE PSYCHOLOGY OF HARRY POTTER

 J. K. Rowling’s Harry Potter Series: Success, Choice, and Sacrifice Al-Mustansiriya literary review 76 /2016

Assistant Instructor: Suha Bahr Fayadh University of Al-Mustansiriyah, College of Arts, Department of French Language.

Cordova, Melanie J. (2015) ""Because I'm a Girl, I Suppose!":Gender Lines and NarrativePerspective in Harry Potter,"Mythlore: A

Journal of J.R.R. Tolkien, C.S. Lewis, Charles Williams, and Mythopoeic Literature: Vol. 33 : No. 2 , Article 5. Available at: https://dc.swosu.edu/mythlore/vol33/iss2/5

 

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http://ramblingeveron.com/2016/07/11/why-dobby-is-my-favorite/

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https://harrypotterdream.wordpress.com/secondo-libro/ron-weasley/

https://www.pottermore.com/features/why-lavender-brown-is-one-of-the-most-underrated-harry-potter-characters

https://www.bustle.com/p/daniel-radcliffe-totally-believes-that-wild-harry-potter-theory-about-the-dursleys-3229530

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Deumanizzazione e stigmatizzazione: quando l'altro vale meno di noi

I pregiudizi fanno parte della nostra quotidianità, possono essere di diverso tipo e colpire diversi gruppi. In generale, una delle definizioni più precise che si trovano in letteratura è la seguente: “Atteggiamento negativo nei confronti di un individuo, che si fonda unicamente sull’appartenenza di quell’individuo ad un particolare gruppo.” (Worchel, Cooper, Goethals, 1998)

Una delle forme di pregiudizio più violente, pericolose, sminuenti ed estreme è la deumanizzazione. Essa consiste nell’esclusione di individui o gruppi di individui etichettandoli, sminuendoli come se non avessero le caratteristiche adeguate o socialmente accettabili attraverso delle pratiche poco ortodosse: è la negazione dell’umanità dell’altro. La deumanizzazione funge anche da giustificazione cognitiva, come vedremo più avanti, quando si agisce in modo violento, ad esempio nei casi di stermini, genocidi e torture.

Deumanizzazione

Ci sono diversi modi per deumanizzare un individuo ad esempio reputandolo simile a un animale, quindi con caratteristiche diverse dall’uomo che spesso si riferiscono alla sfera intellettiva e che descrivono la persona come senza autocontrollo o senza cultura, immatura.
La gravità di questa tipologia di deumanizzazione detta animalizzazione (o deumanizzazione animalistica) sta proprio nel riferirsi all’essere umano come sottomesso a un altro, poiché la differenza tra noi e gli animali sta proprio nell’intelletto e nella nostra superiorità. Basti pensare agli ebrei che nel dopoguerra venivano etichettati come “pecore da macello” o, riferendoci a tempi molto più recenti, le persone di colore che vengono associate a primati.
Un altro modo per negare l’umanità dell’altro è attraverso la demonizzazione

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dove l’altro diventa una strega, un bruto o un diavolo. Come sostiene Volpato (2012), si associa l’individuo al mostro: esso è visto come tale per caratteristiche fisiche o per poteri che gli vengono associati. Il “male” si è incarnato nel diavolo e diventava realtà nella persecuzione alle streghe: in questi casi le corti ecclesiastiche europee ebbero un ruolo fondamentale. Se si pensa che la persecuzione alle streghe è detta anche “caccia alle streghe” si può notare l’assonanza tra le streghe e gli animali dato che, solitamente, la caccia è un passatempo dove la preda è un animale e non una persona. Quindi non bastava che alcune donne (ma anche uomini) fossero etichettate come streghe (che nella credenza popolare sono esseri che preparano pozioni nei loro calderoni) quindi portatrici di una magia deleteria ma troviamo anche un’animalizzazione, sottolineando in questo modo un doppio disprezzo per queste persone: “non solo sei pericolosa per i tuoi poteri e quindi sei “il male” ma io (essere superiore) ti caccerò come si fa con gli animali”.
Tuttavia è necessario sottolineare che all’epoca si cercavano le streghe o gli stregoni che erano in fuga poiché l’opinione pubblica li aveva additati come persone che svolgevano attività illecite, perciò la caccia alle streghe era soprattutto relativa alla ricerca di un gruppo clandestino.
Un’ulteriore tipologia di deumanizzazione è la biologizzazione, legata alla purezza, alla malattia, all’igiene, al mantenersi sani, alla pestilenza. I concetti di malattia e pestilenza erano quotidiani ma più avanti, con le scoperte scientifiche in campo medico, il diavolo e il male sono stati smitizzati e hanno preso una nuova forma: quella dell’eliminazione del nucleo malato. Questo tipo di deumanizzazione è legato a genocidi e stermini: si può infatti ricondurre a questo discorso il concetto di antisemitismo che, a partire dagli anni ’30, prese una forma biologica, appunto, e venne così introdotto il concetto di “razza ebraica” e che si lega a una differenziazione tra razze, una pura e una no. Nei paesi in cui non dilagava ancora l’odio per gli ebrei, come in Italia, ci fu una vera e propria diffusione dell’antisemitismo razziale.
La meccanizzazione è un tipo di deumanizzazione recente e colpisce l’aspetto emotivo: la persona è un robot, un ammasso di ferraglia che non prova emozioni e come i robot risulta freddo, scostante, incapace di provare empatia, un automa. Naturalmente non provando emozioni ed essendo freddi non suscitano nessun tipo di sentimento nemmeno negli altri.
L’oggettivazione è forse una delle più conosciute e sottovalutate forme di deumanizzazione che possiamo constatare quotidianamente. Essa implica la percezione dell’altro come oggetto, strumento. In questo caso è la soggettività che viene negata perciò diventa qualcosa da usare, da violare e sfruttare. Tra le svariate tipologie di oggettivazione troviamo l’oggettivazione sessuale: si valuta la persona in base all’uso che si può fare delle sue caratteristiche prettamente sessuali e avviene una scissione tra queste caratteristiche e tutti gli altri tratti di personalità che compongono la persona in sé.

Diversi studi hanno evidenziato come l’oggettivazione, insita nella società moderna, possa condurre alla sessualizzazione precoce delle bambine rispetto ai maschi. Per questi ultimi la spinta sociale prevalentemente riconosciuta è quella che tende a disegnare un uomo in posizione dominante, la società vuole l’uomo in carriera e ben piazzato, nonostante l’idea della donna in carriera e in una posizione di comando non sia più fantascienza. Perciò mentre l’uomo tenta di liberarsi di questa immagine di uomo forte e potente, la donna deve far fronte al problema di rispondere ai criteri di “oggetto di desiderio”. 

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Tutto ciò comporta che le donne interiorizzano la prospettiva del soggetto oggettivante e si trattano e si percepiscono come oggetti da valutare in base all’aspetto fisico. Ad aiutare quella che è stata chiamata auto – oggettivazione contribuiscono i mass media che mettono il corpo femminile sotto un riflettore particolare che serve proprio a sottolinearlo come bersaglio dell’oggettivazione e la donna è così portata ad auto – oggettivarsi e a vedersi come sbagliata, come se di fronte a lei ci fosse tutto ciò che lei non ha e che non è.
I media offrono corpi femminili scolpiti, con ogni curva al posto giusto, sorrisi smaglianti e apprezzamenti maschili che contribuiscono ad aumentare l’autostima.

Alcuni studi hanno analizzato le foto dei periodici e di ritratti di artisti noti e non e hanno scoperto che mentre per gli uomini i tratti che emergevano di più erano quelli del volto, per le donne erano tratti del corpo. (Archer, Iritani, Kimes e Bamos, 1983). Altri studi si sono concentrati, invece, sui cartelloni pubblicitari nei quali è emerso che il corpo femminile è quantitativamente e qualitativamente più sessualizzato rispetto a quello maschile (Baker, 2005; Copeland, 1989; Hatton e Trautner, 2011; Rudman e Hagiwara, 1992; Sommers-Flanaganet al., 1993; Gasparri, 2011).

La continua esposizione fin da bambine delle donne a determinati canoni di bellezza può portare, invece che ad apportare una differenziazione costruttiva che può definire l’assetto identitario della persona, a vivere le differenze con i corpi in copertina o alla televisione come anormalità.
Dal punto di vista psicoanalitico il corpo diventa una prigione piena di difetti e in particolare in periodi più delicati, come l’adolescenza, allo scopo di permettere l’integrazione tra il corpo anatomico e la rappresentazione conscia e inconscia del corpo è necessario un lavoro psichico che implica una rielaborazione sia dell’immagine corporea sa del corpo come oggetto interno. Se il corpo estraneo (quello che ha subito la maturazione genitale) diventa nemico può esserci un’integrazione problematica, perché l’adolescente deve integrare il senso di estraneità per contribuire all’integrazione delle nuove caratteristiche insorte con la pubertà.
Tuttavia mentre è presente una iper – sessualizzazione della donna troviamo anche un’iper – mascolinizzazione dell’uomo e anche in questo caso il ruolo dei mass media è fondamentale.
Infatti i giovani adoni che i mass media presentano hanno una notevole massa muscolare, perciò non è difficile notare che anche gli uomini considerino inadeguato il proprio corpo dovendo competere con determinati standard. Quindi essere bombardati da immagini televisive, foto sui giornali, senza stare a citare tutti i vari social media, influenza sia le ragazze sia i ragazzi evidenziando categorie di perfezione che creano degli stereotipi sulla sessualità e sui ruoli di genere dove entrambi i sessi sono obbligati ad avere un corpo perfetto senza cellulite e smagliature (per le donne) e con gli addominali e le spalle possenti (per gli uomini).

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Restando sull’oggettivazione, gli esperimenti presentati a favore di questo tipo di disumanizzazione sono molteplici ma uno dei più famosi è emblematico di questo attacco all’umanità dell’altro e, probabilmente, ognuno di noi può essersi sentito nel modo che adesso andremo a vedere.
Basandosi sulla teoria dell’oggettivazione secondo cui, come già detto, le donne tendono ad adottare lo sguardo del soggetto oggettivante vedendosi e percependosi solo come merce da valutare, Fredrickson, Roberts, Noll e altri hanno svolto due 

esperimenti ipotizzando che l’auto - oggettivazione causi vergogna per il proprio corpo e che porti a un’alimentazione moderata, diminuisca le prestazioni matematiche, le conseguenze emotive siano evidenti per le donne e non per gli uomini.Così, attraverso l’Esperimento del costume da bagno (The Swimsuit Experiment, 1998) hanno cercato di provare queste ipotesi. Un primo esperimento fu condotto su 72 donne e servì per testare la prima ipotesi: una parte del campione doveva indossare un costume da bagno, l’altra una felpa, in seguito dovevano compilare un test fingendo di essere davvero in un negozio e di dover decidere se comprare o meno il capo. In seguito le donne avrebbero partecipato a un test di assaggio con biscotti e bevande, lasciate cinque minuti da sole nella stanza insieme al cibo. I risultati hanno evidenziato che le donne che avevano indossato il costume da bagno avevano provato vergogna per il proprio corpo e avevano ottenuto punteggi più alti per quanto riguardava l’auto – oggettivazione rispetto a coloro che indossavano la felpa. Anche l’ipotesi di un’alimentazione più moderata è stata confermata, sempre da coloro che indossavano il costume da bagno rispetto alle donne con la felpa. Nel secondo esperimento che comprendeva anche gli uomini, i compiti erano gli stessi con l’unica differenza che mentre i partecipanti indossavano il costume o il maglione dovevano svolgere un test di matematica. I risultati hanno replicato quelli del primo esperimento sulla vergogna del proprio corpo e sull’alimentazione; nel test di matematica svolto dai partecipanti le donne che indossavano il costume da bagno hanno ottenuto un punteggio molto più basso rispetto a quelle che avevano la felpa, confermando così che indossare un costume provoca auto – oggettivazione, la quale causa una vergogna tale da diminuire le prestazioni matematiche poiché incide sulla concentrazione. Infine per l’ultima ipotesi è stato evidenziato che gli uomini non vedevano la situazione come un problema. Gli uomini che indossavano il costume da bagno hanno sostenuto di sentirsi sciocchi ma non di provare sentimenti di disgusto o di repulsione. Uomini e donne hanno fornito anche risposte comportamentali molto differenti e, sostenendo in questo modo l’ultima ipotesi, le conseguenze dell’auto – oggettivazione erano evidenti per le donne e assenti per gli uomini.

Alcune puntualizzazioni sulla deumanizzazione

La de – umanizzazione ha diverse funzioni adattive: può fungere da giustificazione per gli atti terribili compiuti nei confronti del gruppo deumanizzato; può anche permettere di avere una visione positiva della propria condizione sociale in quanto il gruppo deumanizzato si pone in una condizione privilegiata che lo escluderebbe dalla stessa sorte del gruppo deumanizzato; infine un’ultima funzione è quella di allontanare da una situazione che provoca angoscia e senso di colpa.

La disumanizzazione deriva dalla categorizzazione sociale: una suddivisione in ingroup (ossia il gruppo a cui apparteniamo) e in outgroup (gruppo a cui non apparteniamo, ossia l’altro di cui abbiamo parlato finora): il razzismo, ad esempio, è la credenza che un gruppo razziale sia geneticamente superiore rispetto a un altro. Può anche accadere che gli individui associno una capacità mentale complessa come appartenente ai membri del proprio gruppo e ciò può avvenire anche in modo inconscio. Si parla di infra – umanizzazione, ossia l’inconscia attribuzione di maggior umanità al proprio gruppo. L’infra – umanizzazione è una tipologia di deumanizzazione sottile e spesso non si ha la consapevolezza di esercitare questo tipo di deumanizzazione. La deumanizzazione implica una svalutazione dell’altro gruppo, l’infra – umanizzazione una più sottile percezione dell’altro come meno umano rispetto a noi.

La disumanizzazione implica l’assenza di sentimenti empatici nei confronti dell’altro ed è nel momento in cui l’altro diventa inumano che abbiamo la capacità di compiere azioni violente. La disumanizzazione diventa l’arma per uccidere, sterminare e torturare l’altro.

“Non si chiama altrimenti che così, Zero Diciotto, le ultime tre cifre del suo numero di matricola: come se ognuno si fosse reso conto che solo un uomo è degno di avere un nome, e che Null Achtzehn non è più un uomo. Credo che lui stesso abbia dimenticato il suo nome, certo si comporta come se così fosse. Quando parla, quando guarda, dà l’impressione di essere vuoto interiormente, nulla più che un involucro, come certe spoglie di insetti che si trovano in riva agli stagni, attaccate con un filo a sassi, e il vento le scuote.”

Queste poche frasi tratte da “Se questo è un uomo” di Primo Levi, riassumono perfettamente, a mio parere, i sentimenti di chi percepisce la deumanizzazione su di sé. Colpisce la frase “…solo un uomo è degno di avere un nome”, gli ebrei non erano più uomini e a renderli tali aveva contribuito la stampa e la diffusione di pregiudizi e stereotipi nei loro confronti che si insinuavano nelle menti delle persone.
Sono stati sviluppati diversi studi che si concentrano sull’influenza della stampa nel processo che ha portato alla tragedia di cui siamo tutti consapevoli: in Italia gli ebrei furono censiti, obbligati ad auto denunciarsi, espulsi dalle scuole e, per promuovere l’antisemitismo politico furono appunto usati i mezzi di comunicazione dell’epoca. Mentre in Italia, inizialmente, non era presente un antisemitismo politico e razziale, in Germania i sentimenti più diffusi nei confronti della popolazione ebraica erano di disgusto e invidia: gli ebrei erano definiti ricchi e potenti ma anche parassiti.
Prendendo in esame diversi giornali dell’epoca si possono evidenziare i tratti che delineavano gli ebrei. In Italia, nel 1938, in una pubblicazione de “La difesa della razza” venne addirittura coniato un termine per definire le “azioni da ebreo”, ossia “un’ebreata”, inoltre gli ebrei vennero definiti come inclini all’adulterio e perversi sessualmente. Nella rivista si legge che una delle colpe degli ebrei, sarebbe quella di essere razzisti e di non volersi integrare (la quale è una colpa che si volge spesso anche ai clandestini in Italia, nel presente). Tra i testi storici presi in esame in letteratura viene evidenziato che la deumanizzazione del popolo ebreo viene espressa più attraverso una biologizzazione (definendoli quindi come una malattia o un’infezione) rispetto ad un’animalizzazione. In questo caso gli ebrei sono visti come una minaccia, soprattutto di tipo politico ossia gli ebrei sono percepiti come nemici della nazione.

Si giunge, in questo modo, al razzismo e alla paura del diverso e, di conseguenza, alla sua deumanizzazione che sfocia in tutti quegli atti di cui siamo partecipi ogni giorno con attacchi agli immigrati, alla loro svalutazione, addirittura alle proteste “anti – negro” negli stadi. Queste ultime soprattutto rappresentano il regno della mascolinità, il luogo dove ogni uomo è maschio alfa, perché è nel suo territorio e proprio da questo discorso sulla mascolinità si può partire per una breve analisi dell’attacco al corpo maschile e femminile legato all’argomento della deumanizzazione. L’uomo nero è percepito come minaccia perché è associato all’aggressività, alla brutalità caratteristiche degli animali. Quindi non è una novità l’animalizzazione dell’uomo nero che diventa necessariamente stupratore, perché gli animali non amano, prendono quello che vogliono.
La propaganda fascista si legava proprio a questi concetti, difatti uno dei manifesti più famosi mostra un uomo di colore che ha tra le mani una donna bianca con un vestito candido con un’espressione di sofferenza sul volto, al contrario di quella dell’uomo, sorridente. Quindi non è così sbagliato ipotizzare che il pregiudizio nei confronti delle persone di colore che stuprano le “nostre donne”, rubano il “nostro lavoro”, vanno a scuola con i “nostri figli”, sia partito proprio da lì e si sia radicato nel bagaglio culturale e sociale.
In questo caso, come è evidenziato in alcuni manuali (Cacciatore, Mocchi, Plastina, 2012) il corpo della donna è strumentalizzato, diventa un mezzo per portare il messaggio al destinatario: l’uomo italiano che viene minacciato dallo straniero che gli sta togliendo qualcosa di suo (donna).

Il concetto di stigmatizzazione

I gruppi che vengono deumanizzati riportano su di sé un segno, invisibile, ma che essi percepiscono: il cosiddetto stigma, il quale li rende bersaglio di trattamenti differenti da quelli riservati ad altri gruppi. Alcuni esempi di stigma possono essere le battute a sfondo razziale, le critiche offensive da parte di sconosciuti, l’esclusione da attività sociali e, nei casi estremi, ma attualmente piuttosto diffusi, le forme di violenza fisica. Naturalmente la percezione di essere bersagli di pregiudizi e portatori dello stigma può portare a conseguenze più o meno gravi, ad esempio influisce sul benessere fisico con un aumento dell’ansia e dello stress, che in periodi prolungati possono essere deleteri, ma anche sul benessere psicologico, specialmente sull’autostima e sull’umore. Inoltre induce anche a provare senso di colpa e di vergogna. Nei confronti di chi contribuisce alla diffusione dello stigma, invece, può comportare meno empatia e meno tendenze ad aiutare le persone appartenenti a quel gruppo.

Lo stigma si riferisce a determinate caratteristiche: fisiche, caratteriali, culturali, perciò a tutti quegli elementi che evidenziano una differenza che viene associata a una devianza rispetto alla norma come, ad esempio, il colore della pelle, una

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menomazione o tratti caratteriali.

Lo stigma colpirebbe quindi svariate dimensioni: cultura, stati affettivi, ruoli e ideali. Tutti questi elementi si perpetuano nel corso della storia perché passano di generazione in generazione, così l’emarginazione di un gruppo di individui scavalca le barriere generazionali ed è presente in ogni epoca, più o meno frequentemente. In questo modo la stigmatizzazione si diffonde nel mondo di ognuno di noi, questo mondo, questa porzione di spazio può essere rappresentato da giornali, luoghi, social networks, posti di lavoro, quartieri dove la vita quotidiana nasce e prosegue e mette in gioco determinati aspetti di una persona: dai soldi, al lavoro alle relazioni. È in questi spazi condivisi ogni giorno che i portatori di uno stigma vengono trattati in modo diverso da coloro che sono, invece, definiti come “normali”. Talvolta viene loro negato l’accesso a posti di lavoro, o l’entrata in alcuni locali, senza contare le offese, le battute e le giustificazioni a quegli atti che devono sopportare.
 

Gli individui stigmatizzati possono arrivare a interiorizzare l’inferiorità, come nell’esperimento di Clark & Clark (1947) in cui alcuni bambini di colore dovevano decidere a quale delle due bambole che venivano loro presentate (una di colore e una bianca) sentissero di somigliare di più e con quale avrebbero voluto giocare. I risultati hanno sottolineato che, indipendentemente dall’età, i bambini preferivano giocare con la bambola bianca. È doveroso, tuttavia, affermare che per fortuna i tempi cambiano e una volta replicato questo esperimento in tempi più moderni (1987) è stato evidenziato che i bambini preferivano giocare con la bambola di colore: ciò potrebbe essere dovuto alle campagne di sensibilizzazione presenti nella società americana.
Oppure può verificarsi un altro fenomeno: la profezia che si autoavvera. Essa implica che i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti di quella persona tendono a influenzare i suoi comportamenti fino a confermare le nostre aspettative.


Naturalmente nei gruppi stigmatizzati possono esserci dei cali di autostima e di fiducia in se stessi che vengono sostituiti da vergogna e imbarazzo. L’autostima è un elemento costituito da diversi costrutti correlati che dipendono da situazioni specifiche ma anche di caratteristiche personali come abilità accademiche, come tratti del proprio aspetto fisico, come la razza. Lo stigma è legato anche alla malattia mentale, uno degli ambiti più esclusi, ancora oggi. Difatti si tende a “criminalizzare” la malattia mentale associandola spesso a comportamenti pericolosi o violenti e il fatto che spesso sia la polizia a intervenire su queste persone, piuttosto che il sistema di salute mentale non fa che aumentare questo stigma e la presenza di persone con gravi problemi mentali in prigione.

Conclusioni

 

“Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi di stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti.” Da “Se questo è un uomo.” di Primo Levi, pagina 19

In questo articolo si è cercato di evidenziare una delle malattie che affliggono la comunità: la deumanizzazione rende gli esseri umani meno umani e può portare a conseguenze raccapriccianti, di cui, tra l’altro, abbiamo già fatto esperienza. Senza riflettere, ci si basa su tratti e caratteristiche che agli occhi di alcuni sembrano sufficienti per definire un altro “il male”. Rendendo l’altro inumano si riescono a compiere gesti violenti, perciò una volta che avviene la deumanizzazione il passo verso il comportamento violento è brevissimo. Ciò che colpisce è che la nostra capacità di non vedere l’essere umano di fronte a noi dipende da caratteristiche insulse, come il colore della pelle, come la credenza che da esso dipenda il comportamento di una persona, come se chi ha una carnagione differente dalla nostra non sognasse una vita migliore o venisse appositamente qui per stuprare, rubare, spacciare, uccidere. Un po’ come se tutti coloro che vanno in Inghilterra, Australia, America sognando di trovare un lavoro e di imparare la lingua fossero etichettati come assassini seriali, e venissero additati o fossero soggetti a quelle che ultimamente sono state definite delle “goliardate”. Ciò che spaventa è che nonostante il passato, nonostante la conoscenza delle nostre capacità mentali, dei pregiudizi, degli stereotipi, non abbiamo ancora imparato nulla e ci sarà sempre qualcuno che reputiamo “adeguatamente umano”.
Questo articolo, concentratosi su processi quali deumanizzazione e stigmatizzazione, vuole essere un chiarimento su ciò che l’uomo è in grado di fare, per far sì che gli stessi errori non si ripetano e si conclude con questo estratto da “Se questo è un uomo.” di Primo Levi con la speranza che l’ultima frase faccia riflettere.

 “Qui, lontani momentaneamente dalle bestemmie e dai colpi, possiamo rientrare in noi stessi e meditare, e allora diventa chiaro che non ritorneremo. Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell’anima prima che dalla morte anonima. Noi non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, a Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo.” p. 57

Alessandra Sansò

 

Bibliografia

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- La negazione dell’umanità: i percorsi della deumanizzazione C. Volpato, RIVISTA INTERNAZIONALE DI FILOSOFIA E PSICOLOGIA,  Vol. 3 (2012), n. 1, pp. 96-109

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Sitografia immagini

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Hitchcock tra psicologia e thriller

Hitchcock
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Alfred Hitchcock nasce nel 1899 a Londra ed è sicuramente una, se non la prima, mente geniale in grado di introdurre nei suoi film un significato nascosto. I temi trattati in modo più o meno evidente sono delle innovazioni per quell’epoca: Hitchcock diventa un rivoluzionario che esprime attraverso la suspance concetti latenti che vanno a insinuarsi nell’animo dello spettatore conducendolo a un vero e proprio viaggio in sé stesso e a porsi delle domande, andare oltre al semplice “guardare un film”.

Naturalmente Hitchcock è conosciuto alla maggioranza per il suo film più famoso: Psycho. La sua produzione è, però, talmente vasta e diversificata che Psycho, per quanto film cult che non può mancare nel bagaglio di ogni cinefilo, andrebbe almeno accompagnato ad altri capolavori di Hitchcock. In questo articolo, oltre a Psycho, verrà citato ed analizzato un altro capolavoro dal punto di vista psicologico.

Rebecca (1940). Rebecca la prima moglie è uno di quei film che non sempre chi è figlio degli anni ’90 riesce a comprendere. La storia inizia con una ragazza timida e impacciata, dama da compagnia di una ricca donna, Edyth Van Hopper, zitella e inacidita dagli anni. Nell’albergo in cui le due alloggiano arriva un uomo affascinante e ricco che, naturalmente, la Van Hopper conosce: si tratta di Maximilian De Winter, proprietario del Castello di Manderley, in Inghilterra. 

La dama da compagnia e De Winter si conoscono, lei continua a essere imbranata e lui ha quel fare un po’ burbero, da uomo vissuto che la fa sentire protetta ma anche intimorita. Ad ogni modo, Max la chiede in sposa e lei non vi pensa due volte ad accettare.

Fin qui è la storia d’amore che di base intenerisce sempre, lei così goffa e lui al contrario attorniato da un’aria di mistero e fascino: siamo così introdotti nel classico clichè della povera che fa innamorare il “principe” e viene portata al suo castello. Qui cominciano i problemi.
Intanto è necessario sottolineare che il primo tema che emerge, proprio nella scena iniziale, è il sogno: Manderley appare con un alone di inquietudine intorno, ci si accorge subito del clima che si respirerà per tutto il film. Il castello, imponente, non è bello come quello delle principesse ma è cupo e con un sentiero intricato a cui arrivare e giunge allo spettatore un messaggio subliminale: per raggiungere la verità, bisogna passare attraverso diversi ostacoli.
La morte è il secondo concetto a cui andiamo incontro e lo troveremo anche in altri film di Hitchcock. Essa si lega al sentimento di solitudine e al concetto di perdita, i quali ancora oggi sono elementi di difficile definizione per la psicologia. Sin dall’inizio la morte aleggia nel film, la ragazza sospetta che De Winter si voglia suicidare buttandosi da una scogliera, in seguito 

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lei affermerà di essere orfana e, suo malgrado, scoprirà che il signor De Winter è rimasto vedovo.Ciò che traspare dal film è la capacità di ogni personaggio di reagire alla morte: la giovane sembra addolorata, dispiaciuta, dalla morte del padre, capitata di recente; il signor De Winter appare invece scosso, quando si parla della dipartita della prima moglie il suo sguardo vaga, vuoto e intristito. Sopportare il lutto non è mai semplice ma, mentre la neosignora De Winter ha compiuto un processo di accettazione adeguato per quanto riguarda i propri genitori, tutti gli altri da Max De Winter fino ad arrivare ai personaggi meno importanti, quali la servitù di Manderley, sembra che questo processo non si sia affatto completato. Soffermiamoci un momento proprio sul lutto: esso influisce sul normale funzionamento mentale e può talvolta causare delle patologie, nei casi più gravi.
Sono state sviluppate diverse teorie sul lutto e sulla sua accettazione, una delle prime è quella di Freud che parla di “lavoro del lutto”, ossia un processo causato dalla perdita dell’ “oggetto” e che solo dopo un certo tempo potrà portare a un reinvestimento dell’energia verso nuovi oggetti. È un processo lungo perché l’individuo ricerca l’oggetto perduto: questa fase è evidente in Rebecca perché la sua sostituta, l’innocente dama di compagnia senza nome, la riporta in vita, in modo errato naturalmente. Il paragone continuo tra le due donne può essere legato proprio a questa fase di ricerca, in questo caso, totalmente fallimentare. Stessa cosa vale per l’assenza di
cambiamenti a Manderley: il fantasma di Rebecca è costantemente in quella casa, nelle federe dei cuscini con ricamate le sue iniziali, rimane persino nelle regole dettate dall’ormai defunta. Spesso la servitù, giocando sul fatto che la signora De Winter non abbia polso, le si rivolge facendole presente come avrebbe agito Rebecca.

Per Freud questi comportamenti permetterebbero di difendersi dal dolore della perdita attraverso un meccanismo difensivo chiamato “negazione”. Per Nancy McWilliams il diniego è uno dei meccanismi di difesa più difficili da cogliere e viene usato quando è presente un pericolo per il mantenimento della struttura psichica. Un’ulteriore fase, se tutto va bene, è quella relativa alla “riparazione” che permetterebbe di tenere dentro di sé la persona perduta attraverso l’introiezione, ossia un meccanismo di assimilazione dell’oggetto o di alcune sue qualità.

Tema che accomuna i film che saranno citati in questo articolo è la presenza di donne al centro delle storie. In Rebecca la prima moglie ne troviamo tre nonostante il fatto che solo due di esse appaiano effettivamente nel film, ciò accade perché la terza è Rebecca e la sua assenza è più profonda e segnante della sua presenza. Lei è a Manderley, in ogni stanza, vive come un fantasma attraverso i ricordi di tutti, amici e parenti, persino nei tovaglioli. La stanza di Rebecca, in una delle prime scene a Manderley, è chiusa e appartiene all’ala ovest dove nessuno, dalla sua morte, si reca più. Inoltre davanti alla porta imponente della stanza di Rebecca c’è un cane, di piccola taglia, non uno da guardia ma l’inquadratura rende comunque quella stanza simile a quella dell’Inferno custodita da Cerbero. Rebecca e la novella signora De Winter sono continuamente paragonate, anche se Rebecca era perfetta, lei sapeva come comportarsi nell’alta società di cui faceva parte, a renderlo ancora più evidente è la sua rubrica con nomi di persone illustri.
La protagonista è molto giovane e insicura, tuttavia dimostra sin da subito di essere una donna sensibile, che ama disegnare e che presenta una sottile ambivalenza: nonostante i suoi atteggiamenti siano goffi, dimostra una valida spavalderia quando, in uno dei primi incontri con il signor De Winter, lo disegna intento a osservare il mare. Questo comportamento emerge anche più avanti nel film quando tenta di cacciare dalla stanza la signora Van Hopper. A Manderley cambia tutto però: lei deve essere all’altezza di Rebecca, deve cercare di raggiungere i suoi livelli e tutti le 

hanno fatto capire che sono molto alti. Perciò tenta di essere la donna che gli altri vorrebbero, quella piccola parte di lei che cercava di imporsi e di essere autorevole viene sotterrata dal ricordo di Rebecca. Cerca una continua alleanza con la signora Danvers, la governante, che la inganna e la conduce addirittura a mostrarsi in modo ridicolo di fronte a tutti. Ci si sta riferendo naturalmente a una delle scene più belle dell’intero film: quella del ballo in maschera in cui la giovane riporta in vita, a sua insaputa, Rebecca, indossando un vestito utilizzato l’anno prima da lei. Dopo quest’episodio la giovane rischia addirittura il suicidio, fomentato dalla signora Danvers. La signora Danvers è una donna fredda che sin dal primo momento tenta di annientare la 

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nuova arrivata che osa camminare e vivere nella casa della sua unica padrona. La cattiveria di questa donna, silenziosa e subdola, è anch’essa legata al lutto e alla sua totale mancanza d’identità perché attraverso lei, più di ogni altro, vive Rebecca.

Psycho. (1960) Marion è giovane e bella, lavora a Phoenix in un’agenzia immobiliare e ha una relazione con Sam. All’agenzia di Marion si presenta un ricco cliente e quando il capo incarica la ragazza di portare quarantamila dollari in banca lei ne approfitta e scappa con i soldi sognando una vita differente.
In una notte di pioggia Marion arriva al Bates Motel, dopo aver immaginato le reazioni del suo capo, di sua sorella e del suo adorato Sam; per fortuna al motel c’è Norman Bates che fa due chiacchiere con lei. Norman le prepara la cena e le racconta dei suoi hobby e della vita che conduce con sua mamma, nella casa vicino al motel.
Dopodiché Marion decide di andare a fare una doccia e viene brutalmente uccisa a coltellate dalla madre di Norman; quest’ultimo, figlio devoto, pulisce la scena del crimine e si occupa di far sparire macchina, bagagli e corpo della donna.
Nel frattempo la scomparsa di Marion insospettisce sua sorella e Sam, i quali decidono, con l’aiuto del detective Arbogast di cercare la ragazza in tutti i motel della zona. Quando il detective arriva al Bates Motel, Norman è molto incerto, sostiene di non aver mai visto la ragazza ma quando Arbogast insiste, Norman confessa che la ragazza aveva preso una camera la settimana prima.
Arbogast non totalmente convinto dalla storia di Norman decide di parlare anche con la vecchia e malata madre del ragazzo nonostante quest’ultimo gli dica che non ci sia bisogno di prendere in considerazione le opinioni di un’anziana. Arbogast riesce a entrare in casa e anche lui subisce i colpi letali della madre di Norman, la donna lo accoltella proprio quando lui è sul punto di entrare nella sua stanza.
Sam e Lila, sorella di Marion, ancora più insospettiti dal silenzio improvviso di Arbogast decidono di andare al Bates Motel ma prima chiedono alcune informazioni allo sceriffo della città, il quale comunica loro che la madre di Norman è morta circa dieci anni prima. Increduli ma non demotivati, Lila e Sam si recano al Bates Motel e si fingono una coppia qualunque: mentre Sam distrae Norman, Lila si intrufola nella casa, cerca la madre di Norman dovunque finché non arriva in cantina e fa una macabra scoperta. La madre di Norman è uno scheletro ed è lui che ne fa le veci travestendosi e compiendo omicidi. 
Psycho è sicuramente il capolavoro di Hitchcock e nonostante siano passati quasi sessant’anni dalla sua uscita riesce ancora a dare quel senso di inquietudine e angoscia mentre lo si guarda. Infatti lo spettatore non si sente a proprio agio mentre guarda questo film. Anche qui, come in Rebecca, troviamo il gioco di luci e ombre che rende i luoghi macabri anche quando è giorno.
La casa dei Bates è imponente e fa da guardia al motel ai suoi piedi, come una madre con il proprio figlio. Ed è proprio di questo che parla la storia in sé, di un rapporto madre – figlio molto particolare, ma andiamo con ordine.

Nonostante il titolo del film, Norman Bates è tutto eccetto uno psicopatico. Norman è uno di quei personaggi che intrigano e, nello stesso momento fanno

tenerezza. Norman è di aspetto gradevole, impacciato, incerto, mentre parla con Marion balbetta addirittura. È molto gentile, le prepara la cena, parla con lei e sembra molto comprensivo, sembra quasi capire che la ragazza stia scappando da qualcosa e che si sia cacciata nei guai. Norman è un ragazzo affettuoso che parla bene di sua madre, una donna che ha “un problema di nervi”, come sostiene lui stesso, dopo la morte del suo ultimo compagno non si è più ripresa. Norman parla a lungo con Marion, le confessa dettagli della propria vita che forse la 

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maggior parte delle persone non direbbe alla prima persona che incontra e così anche lo spettatore viene a sapere che il padre di Norman è mancato quando lui era piccolo e che, in seguito, la madre ha incontrato un nuovo compagno che però è morto in un modo particolare anche se non viene svelato quale. Norman è, quindi, una persona con un passato travagliato ma che appare come tranquillo e intimidito, forse dalla bellezza e dal carattere schivo di Marion, la quale da l’impressione di essere un po’ ammaliata e un po’ impaurita da lui.

Quando però Marion suggerisce a Norman di mettere la madre “in uno di quei posti”, Norman si infuria, non è accettabile per lui mettere la madre in un manicomio.
Giungiamo così alla famosa scena della doccia che ha sconvolto moltissime persone ed è una scena con un carico emotivo non indifferente, anche adesso che i film hanno gli effetti speciali, quella rimane una delle scene più famose del cinema. Ciò che colpisce è che nonostante le coltellate non viene data importanza alle ferite o al sangue, la scena rimane pulita, sembra quasi che non si sia compiuto un omicidio (ben diverso dalle scene delle serie televisive di oggi) in quel bagno bianco, creando un contrasto evidente.
Tuttavia Norman non è psicopatico. Hervey M. Cleckley fu il primo a indagare la psicopatia e dai suoi studi nacque anche un saggio
“The Mask Of Sanity”, tuttavia è la Psychopathy Checklist di Hare che, negli anni Settanta, incorpora molti criteri definiti grazie a quelli evidenziati da Cleckley. Infatti Hare sottolinea criteri comportamentali come aggressività, delinquenza e impulsività e tratti di personalità come mancanza di rimorso, fascino, grandiosità, tendenza a mentire. Perciò la descrizione dello psicopatico non combacia proprio con il nostro Norman.
Un’altra caratteristica importante da sottolineare è che sia Cleckley sia Hare affermano che tendenzialmente lo psicopatico non è violento, ossia non commette omicidi o reati che comportano crimini gravi.
Le caratteristiche della psicopatia sono neurobiologiche, emozionali e cognitive. Queste tre aree sono ovviamente condizionate l’una dall’altra, infatti alcuni studi hanno evidenziato che livelli di psicopatia sono associati a ridotte dimensioni dell’amigdala che è anche l’area delegata alle emozioni. Alcuni items della PCL – R, ossia la PCL rivisitata, sono la loquacità e il fascino superficiale, un senso grandioso di sé, menzogna patologica, assenza di rimorso, tendenza a mentire e a truffare, essere incapace di provare emozioni, mancanza di empatia, comportamento sessuale promiscuo, impulsività e irresponsabilità.
Questi elementi non sono compatibili con Norman che appare invece impacciato più che sicuro di sé e, inoltre, non è impulsivo e nemmeno irresponsabile. Naturalmente se si parla di Norman si deve parlare anche di sua madre.
Ciò che traspare dal film è una donna bigotta, egocentrica e tirannica che non è stata totalmente in grado di occuparsi di Norman. La morte del padre sconvolge il bambino e la madre, dopo aver conosciuto il nuovo compagno, rinnega il proprio figlio.
Donald Winnicott (1896 – 1971) afferma che ad un certo punto la relazione madre – bambino cambi (come è normale che sia) e il bambino deve accettare di non poter più effettuare su di lei un controllo onnipotente e appare l’angoscia di separazione che è legata alla conoscenza, da parte del bambino, della rabbia e di frustrazione. Rabbia e frustrazione si manifestano perché avviene il riconoscimento dell’esistenza di un mondo esterno: il bambino ha paura di fronte a qualcosa di esterno o, come lo definisce Winnicott, un “Non – Sé”.
In questo modo la mamma diventa una “madre oggetto” e una “madre ambiente”: la prima soddisfa i bisogni del lattante, con la seconda si intende la madre come persona, che protegge il bambino e si occupa attivamente di lui.
Forse ciò che la madre di Norman non è stata in grado di gestire è proprio quest’ultima funzione di preparazione del bambino di fronte all’ambiente: non è avvenuta un’adeguata separazione.
Così Norman, ferito e sostituito, avvelena sia la madre sia il compagno: “il matricidio è il crimine più insopportabile di tutti per il figlio che lo commette”, afferma lo psichiatra alla fine del film.
Norman però si rende conto di ciò che ha fatto e prova un senso di colpa così profondo che lo attanaglierà per tutta la vita. Nel pensiero di Melanie Klein (1882 – 1960) il primo oggetto desiderato e, al contempo, odiato è la madre. Il bambino ama la mamma nel momento in cui essa soddisfa i suoi bisogni e quindi lo fa sentire amato e gratificato. Il senso di colpa, quindi, nasce perché compaiono delle fantasie che però non possono essere soddisfatte dalla mamma in quel momento, ciò causa aggressività e il bambino sente di odiare la mamma. Quando però si rende conto che la mamma è buona vuole solo “ripararla” ed è qui che nasce il senso di colpa. I sentimenti di colpa possono essere un incentivo verso la creatività, l’amore e il lavoro.
Norman tenta di sradicare il delitto dalla propria mente e prova a mantenere l’illusione della madre in vita. La realtà è intollerabile, invadente e ingestibile: il fatto che Norman si travesta e che parli come sua madre, usando la sua voce, è il tentativo di trasformarsi in lei, di riportarla in vita. Infatti l’omicidio di Marion viene compiuto dalla madre e l’illusione di non averla uccisa, si compie.

Prima di concludere bisogna sottolineare il primo personaggio femminile che incontriamo: Marion Crane. Marion non è la classica donna degli anni Sessanta: intrattiene una relazione sessuale con Sam, con il quale non è sicura di potersi sposare poiché i problemi finanziari di entrambi scoraggiano i suoi sogni e le sue speranze. Marion dimostra di essere una donna che non riesce a lasciar andare i suoi desideri e compie un gesto estremo e impulsivo, quando si trova di fronte all’occasione di poter costruirsi un futuro non vi pensa due volte. Tuttavia anche in lei troviamo un profondo senso di colpa che le fa anche immaginare che cosa avrebbero potuto pensare gli altri. Si trova a pensare al suo capo, alla sua collega, a sua sorella e a Sam e a come avrebbero reagito sapendo che era una ladra, una sciocca che aveva sperato di poter ricominciare e cambiare vita. Marion è molto sola, non ha nessuno a parte la sorella che però interviene probabilmente troppo tardi e che non capisce totalmente il suo imbarazzo, che lo stesso Sam non è in grado di comprendere.

Hitchcock sottolinea, attraverso i suoi film, il ruolo delle madri descrivendole non come l’idea che la società ha della mamma, ma come donne distruttive per i loro figli: tali elementi emergono anche in altri film, come ne “Gli uccelli”.
Gli uomini, al contrario, hanno bisogno delle donne: Max De Winter dimostra che il suo fascino iniziale è solo una maschera, un velo che indossa di fronte a tutti passando per colui che è affranto per la morte della prima moglie e che solo alla fine può confessare alla nuova signora De Winter di aver odiato Rebecca. Norman appare debole e succube della mamma, la vede come la donna che l’ha amato e nello stesso modo la vede come quella che l’ha anche messo in secondo piano rispetto al suo nuovo compagno.

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In conclusione, Hitchcock è stato in grado di porre la suspense al centro dei suoi film senza la necessità di utilizzare sangue o mostri. Il suo uso di luci e ombre, di case buie e di “vedo – non vedo”: benché non ci siano effetti speciali particolari, c’è un profondo senso di inquietudine.
Hitchcock evidenzia l’importanza dell’esistenza e dell’accettazione della malattia mentale e a quanto fosse importante, soprattutto all’epoca. Hitchcock è stato in grado di mettere in primo piano tematiche forti e di svilupparlo all’interno di storie di quotidianità, ha messo in luce elementi della personalità e del carattere dei personaggi in modo che lo spettatore si sentisse spaventato e al contempo intrigato dimostrando che quei personaggi potessero somigliare a noi stessi.

 

Alessandra Sansò

 

 

Bibliografia

Factor Structure of the Psychopathic Personality Inventory: Validity and Implications for Clinical Assessment, Stephen D. Benning, Christopher J. Patrick, Brian M. Hicks, Daniel M. Blonigen, and Robert F. Krueger

Il lutto: dai miti agli interventi di facilitazione dell’accettazione. Claudia Perdighe, Francesco Mancini (2010) Europe’s Journal of Psychology 3/2009, pp. 56-81 www.ejop.org

Hitchcock’s Conscious Use of Freud’s Unconscious Constantine Sandis Oxford Brookes University and NYU in London

Utilità diagnostica del disturbo antisociale e psicopatico di personalità. Proposte e revisioni del DSM – V, Romy Greco, Ignazio Grattagliamo

Melanie Klein, Joan Riviere, “Amore, odio e riparazione”, Casa editrice Astrolabio

Sitografia Immagini

http://www.loppure.it/rebecca-la-prima-moglie-daphne-du-maurier/

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http://www.horrorpilot.com/bates-motel/

Kitty Genovese

L'omicidio di Kitty Genovese: quando il non agire uccide.

13 Marzo 1964: ai più, questa data non riporta alla memoria nulla, sembrerebbe un giorno qualsiasi, eppure quella notte in una delle città più famose al mondo, New York, una donna urla. La donna in questione si chiama Kitty Genovese, ha ventotto anni e sta rientrando a casa, a Kew Gardens nel Queens, residenza della classe media della Grande Mela. Il suo grido squarcia il silenzio di una notte come tante altre e non passa inosservato: i suoi vicini si affacciano alle finestre e assistono al brutale omicidio che si sta compiendo sotto i loro sguardi per mano di Winston Moseley. L’aggressione dura circa trenta interminabili minuti: Moseley sferra due coltellate a Kitty, qualcuno però spaventa l’assassino e lo mette in fuga mentre la donna riesce a raggiungere un luogo apparentemente più sicuro. Tuttavia, alcuni minuti dopo, Moseley ritorna e, una volta individuata la vittima, la ferisce nuovamente e la violenta. Coloro che osservano non fanno nulla: si limitano a essere spettatori di quello spettacolo raccapricciante senza alzare un dito per aiutare Kitty, se non quando ormai è troppo tardi per salvarla. Kitty Genovese muore nel tragitto in ambulanza verso l’ospedale, sarebbe sopravvissuta se i soccorsi fossero stati chiamati in tempo.

L’omicidio di Kitty Genovese diventerà un simbolo della psicologia sociale perché descrive un comportamento che in questa circostanza troviamo inaccettabile ma al quale tutti, o quasi, abbiamo fatto ricorso. Difatti l’atteggiamento dei vicini di Kitty è stato chiamato “Effetto spettatore” ma anche “Effetto testimone” e, inoltre, “Sindrome di Kitty Genovese”. Questo effetto è legato alla presenza degli altri: più persone ci sono, meno si darà aiuto a qualcuno in difficoltà.
Latané e Darley, nel 1970, nella loro prima ricerca su questo costrutto indagano la difficoltà di una persona – spettatore di fronte a una situazione di emergenza e scoprono che la presenza altrui ha un ruolo fondamentale nella presa di decisione e sull’interpretazione che l’individuo dà alla situazione. I due autori lo ricollegano alla diffusione di responsabilità e sostengono che quando gli spettatori sono tanti la pressione a intervenire sia divisa tra loro, quando invece lo spettatore è uno ed è l’unico consapevole dell’emergenza, le responsabilità si focalizzano su di lui e sul suo intervento.

Naturalmente non si possono colpevolizzare totalmente i testimoni dell’omicidio di Kitty Genovese: in un momento come quello, è probabile che il terrore prenda il sopravvento e che la presenza di altri che stanno vedendo la medesima scena sia simile a una speranza, a una luce in fondo a quel tunnel di orrore, che permette a chi è momentaneamente paralizzato di pensare che sicuramente qualcun altro che non lo è chiamerà la polizia. Una persona che è testimone di una situazione critica, come, ad esempio un omicidio, può spaventarsi e attraversare un conflitto. La presenza delle altre persone può disattivare la norma sociale condivisa causando, in questo modo, il comportamento contrario, un’incapacità di agire che però è giustificata perché nessuno sta facendo nulla per riparare all’emergenza: ci si percepisce assolti moralmente perché “gli altri possono farlo al posto mio”.

Ci sono delle forze che portano ad agire come empatia, vicinanza e comprensione che ci permettono di sentire il dolore altrui e almeno di provare ad alleviare le sofferenze di chi è in pericolo ma non sempre queste capacità emergono nei momenti adatti.
Spesso in situazioni quotidiane, una persona agisce molto più facilmente: si pensi all’elemosina, tutti l’hanno fatta almeno una volta nella vita; oppure nel vedere una persona anziana che cade per strada, spesso molte persone si precipitano ad aiutarla.

Tuttavia se ci si trova in una situazione di emergenza, queste azioni non sono 

necessariamente ovvie né tantomeno naturali. Questo perché la situazione di emergenza è diversa da tutte le altre e ha delle caratteristiche, anche psicologiche, che influiscono sui nostri processi mentali e sulle nostre capacità d’azione. Una tra le più importanti, ad esempio, è la rarità dell’evento, il quale capita sempre “agli altri”, di cui leggiamo e sentiamo parlare per giorni dai mass media ma che certamente non capiterà a noi.Il problema si presenta quando ci troviamo di fronte a una di queste situazioni poiché spezzano la nostra routine quotidiana e ci mettono a nudo, come se dovessimo affrontare una sfida: se si decide di intervenire in quella situazione, si sarà in grado di gestirla adeguatamente? E se così non fosse bisogna tentare comunque oppure lasciar perdere? E se si lascia perdere e si viene giudicati per non aver fatto nulla, si potrà riottenere il ruolo sociale che si investiva in precedenza? E se invece si interviene e non si è in grado, come si affronterà la conferma di non essere stati capaci?Inoltre la situazione di emergenza richiede che tutte queste domande vengano poste a noi stessi molto velocemente poiché quella situazione necessita di un intervento immediato, veloce altrimenti peggiorerà, passerà da minaccia imminente a danno, magari permanente e tutto ciò porta inevitabilmente a una condizione di profondo stress.Latanè e Darley evidenziano che le persone devono attraversare alcune tappe prima di intervenire: in primo luogo è necessario che esse si accorgano di essere di fronte a una situazione critica che solo in un secondo luogo riuscirà ad essere associata a un’emergenza. Un’ulteriore tappa prevede la nascita di un sentimento di responsabilità personale e ciò è legato ad altri due punti fondamentali: comprendere di possedere le capacità necessarie per riuscire ad agire e, infine, arrivare a una scelta consapevole di aiuto.Arrivare all’ultima tappa non è così semplice, ci sono dei processi psicologici che intervengono sullo svolgersi di questa sequenza: uno è sicuramente la diffusione di responsabilità, cioè l’inclinazione a dividere soggettivamente la responsabilità ad aiutare tra il numero di persone (più il numero di persone è ampio, più la responsabilità a dare aiuto sarà diffusa). Un altro meccanismo è quello chiamato apprensione di valutazione, ossia la paura del giudizio degli altri se si compie l’azione. Infine, l’ultimo processo si chiama ignoranza pluralistica: le persone cercano di conformarsi all’opinione comune e consensuale invece che decidere di agire in base ai propri giudizi e alle proprie percezioni.

Una caratteristica fondamentale all’interno dei gruppi di persone è la coesione, ossia il grado di attrazione che i membri del gruppo provano l’uno per l’altro ed è un elemento che comporta la sensibilità verso le norme sociali, che tutti sperimentiamo quotidianamente: ad esempio il fatto che in Italia si guidi sulla corsia di destra è il risultato di una norma sociale appresa.
Una delle norme più importanti della nostra cultura è quella della responsabilità sociale che contempla l’idea che una persona ne aiuterà un’altra in difficoltà. La coesione tra le persone è quella che le porta a rispondere a una chiamata di aiuto è può essere un fattore che inverte l’effetto testimone ossia facendo agire il soggetto nonostante la gente.

Alcune aree di studio emerse più o meno recentemente hanno introdotto un termine che rende perfettamente l’idea di come ci si sente allorché ci troviamo in situazioni che richiedono un’analisi attenta e, nello stesso tempo, un’azione immediata: “social traps”, ossia “trappole sociali”. Il caso di Kitty Genovese sottolinea ad esempio una sorta di barriera individuale nei confronti del chiedere aiuto alla polizia, soprattutto per paura di dover, un giorno, testimoniare e rischiare di essere scoperti dall’assassino oppure dai suoi complici. Si può affermare quasi con certezza che ogni osservatore presente abbia percepito la necessità di chiamare la polizia per aiutare quella donna ma la speranza che qualcun altro facesse quella chiamata è stata più forte della norma sociale.

 

L’effetto spettatore si può spiegare anche attraverso altri due processi: partendo dal presupposto che una persona sola è più sicura ad intervenire rispetto a una persona all’interno di un gruppo: se all’interno del gruppo nessuno reagisce, lo spettatore sarà portato a non agire di conseguenza e di fronte alle reazioni degli altri spettatori, l’individuo potrebbe capire che in realtà era il suo giudizio a essere sbagliato perché era l’unico ad aver attribuito a quella situazione un’elevata criticità.

È necessario sottolineare anche il concetto di conformismo che è definito come un cambiamento adottato da una persona causato dalla pressione del gruppo. Il conformismo agisce attraverso due processi: l’influenza informativa, che avviene in una situazione incerta, quando non si è sicuri della realtà e dalle scelte da compiere: per questo ci basiamo sulle informazioni e sulle valutazioni degli altri per eliminare l’ambiguità e risolvere l’incertezza; il secondo processo è chiamato influenza normativa: la realtà oggettiva è secondaria rispetto al gruppo ed entra in gioco quando il gruppo ha molta influenza su di noi, percepiamo che può gratificarci o punirci. Ci confrontiamo con le aspettative positive degli altri, per ottenere approvazione sociale o per evitare disapprovazione sociale. Gli aspetti che favoriscono o inibiscono il conformismo sono diversi: la dimensione del gruppo (più è grande, più è probabile ci sia il conformismo); è fondamentale che ci sia unanimità: tutti i membri del gruppo devono convergere verso la stessa norma, se c’è un membro deviante il conformismo diminuisce notevolmente.

Perciò possiamo presumere che tutti questi elementi abbiano influenzato i comportamenti dei testimoni dell’omicidio di Kitty Genovese, non solo paura ma veri e propri processi psicologici che bloccano l’agire in situazioni di estrema criticità. Le persone contano molto sul giudizio degli altri, su ciò che gli altri pensano e, soprattutto, su come gli altri agiscono. La collettività è un elemento fondamentale dell’azione, la capacità dell’uomo di valutare una situazione dipende dal giudizio che emerge nel guardare gli altri e nel basarsi sui loro comportamenti persino in circostanze in cui sembra così ovvio e naturale intervenire in aiuto di un’altra persona. Quando si leggono le notizie di cronaca nera a volte siamo portati a puntare il dito verso coloro che non hanno fatto niente e quando, il loro aiuto avrebbe potuto salvare una vita, ma bisogna tenere conto anche di tutte quelle circostanze individuali che non sono immediatamente evidenti. È importante anche ammettere che basarsi sugli altri non è la miglior soluzione, non sempre almeno, poiché se la maggioranza si limita a osservare non è detto che il giudizio su quella determinata situazione sia quello giusto, essere spettatori e stare immobili non è sempre il modo adatto ad affrontare determinate situazioni ma, a volte, la nostra coscienza collettiva ha la meglio sulla coscienza personale, è la mente del gruppo a dare le direttive sul pensare ma si fa molta più fatica a fare conti con sé stessi e con ciò che non si è fatto rispetto al contrario.

Alessandra Sansò

Bibliografia

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Social Influence and Diffusion of Responsibility in an Emergency, LEONARD BICKMAN

Smith College, JOURNAL OF EXPERIMENTAL SOCIAL PSYCHOLOGY 8, 43S-445 ( 1972)

 

BYSTANDER HAPATHy By BIBB LATANE and JOHN lVI. DARLEY AMERICAN SCIENTIST, 57, 2, pp. 244-268, 1969

 

Social Traps JOHN PLATT AMERICAN PSYCHOLOGIST • AUGUST 1973 • 641

 

The Bystander-Effect: A Meta-Analytic Review on Bystander Intervention in Dangerous and Non-Dangerous Emergencies, Peter Fischer, University of Regensburg, Joachim I. Krueger Brown University, Tobias Greitemeyer University of Innsbruck, Claudia Vogrincic University of Graz, Andreas Kastenmüller, Liverpool John Moores University, Dieter Frey University of Munich, Moritz Heene, Magdalena Wicher, and Martina Kainbacher, Psychological Bulletin 2011, Vol. 137, No. 4. ©

 

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Sitografia foto

https://www.newyorker.com/culture/richard-brody/kitty-genoveses-brother-reexamines-her-famous-murder

http://biliyomuydun.com/151521

https://en.wikipedia.org/wiki/File:KittyGenovese(1).jpg

Thirteen reasons why: tra romanzo e realtà.

 

Durante la primavera del 2017 una nuova serie tv, che ben presto ha creato scalpore e dibattiti, è apparsa su Netflix. Composta da soli tredici episodi, ancora oggi è oggetto di discussione e polemiche, sia per il tema trattato sia per il modo in cui questo viene trattato. La serie si basa sul romanzo di Asher, a cui la serie è rimasta fedele; tuttavia, sfruttando le tredici ore a disposizione, i produttori della serie hanno deciso di ampliare la storia e approfondire i punti di vista e i retroscena di ogni personaggio.

Thirteen reasons why, Tredici nella versione italiana, racconta la storia di Hannah Baker, una ragazza normale con una vita normale, fino a che non comincia l'anno scolastico in una nuova scuola, dove diviene ben presto oggetto di derisione e scherno. Questo bullismo psicologico la porta al suicidio, ma prima di tagliarsi le vene Hannah incide tredici cassette, ognuna delle quali contiene uno dei motivi per cui ha deciso di togliersi la vita. Le cassette vengono spedite alle persone che Hannah ha ritenuto responsabili e scopriamo che ha designato come colpevole non solo il ragazzo che ha abusato di lei, ma anche alcuni di quelli che Hannah considerava amici e che a un primo impatto non sembrano aver fatto qualcosa di così grave.

Vediamo come a condurla al suicidio non sia stato un unico, drammatico evento, ma un insieme di piccoli fatti che presi singolarmente hanno poca rilevanza, ma se visti nel complesso sono dei veri e propri atti di bullismo.

Perchè Hannah viene bullizzata? Non perchè sia una sfigata, sia brutta o grassa, ma perchè il primo ragazzo con cui è uscita ha raccontato agli amici che Hannah è una ragazza facile, e questo genera un effetto domino che porta sia all'umiliazione che alla violenza.

È facile designare Bryce, il ragazzo che violenta Hannah, come il maggiore responsabile, perchè la serie tv ha ingigantito molto la faccenda: nel libro Bryce commette violenza non perchè abusa di lei con la forza, ma perchè lo fa ignorando i sentimenti di Hannah, e dichiarando che siccome lei lo ha lasciato fare non è stato un vero stupro. È proprio qui che sta la critica al bullismo da parte dell'autore: ci sono vari tipi di violenza, e non è solo la costrizione ad avere un rapporto sessuale ad essere designabile come stupro. Tuttavia, per quanto assurdo, se gli altri episodi non fossero avvenuti, Hannah non sarebbe stata violentata da Bryce, e qui è necessario fare riferimento al libro ancora una volta: Hannah si trova da sola nell'idromassaggio con Bryce, sa che lui ha già violentato un'altra ragazza, Jessica, e sa che ha interesse per lei, e Hannah, che è talmente considerata una facile dai suoi coetanei che arriva al punto di crederci, mette alla prova se stessa. Dopo la violenza torna a casa sicura di essere finalmente quella che tutti credono: una puttana.

Lo stupro diventa l'epilogo di un anno duro e umiliante, in cui Hannah si è sentita da sola, tradita dai suoi amici e non capita. Hannah dà a se stessa un ultimatum: se il colloquio con lo psicologo della scuola non la aiuterà ad andare avanti si ucciderà. E il colloquio non la aiuta, sia perchè Hannah non riesce completamente a dire quello che le è successo sia perchè quel giorno lo psicologo non è molto attento. Tornata a casa Hannah si taglia le vene dei polsi nella vasca da bagno e viene ritrovata dai genitori qualche ora dopo.

Tredici ha dato origine a numerose polemiche, rivolte verso l'autore quando scrisse il romanzo e a Selena Gomez quando decise di produrre la serie. Un'accusa profonda, seguita da molte altre dello stesso tipo, venne rivolta alla serie dal padre di una adolescente, che pare si fosse uccisa dopo aver visto la serie, prendendo a modello Hannah: il padre accusò quindi Tredici di incitare i ragazzi al suicidio. Non è questo l'intento della storia.

Asher per primo dichiarò che inizialmente aveva pensato di salvare Hannah, ma poi decise che per dare una vera drammaticità alla storia e per far arrivare il messaggio più a fondo ai lettori fosse necessario che Hannah si togliesse la vita, che non ci fosse salvezza per coloro che la avevano portata a tanto.

Il romanzo mostra la storia solo dal punto di Hannah, e il lettore può solo che leggere gli atti di bullismo e violenza che le sono stati fatti. La serie tv, invece, mostra tutta la storia, i risvolti che le cassette hanno avuto sui singoli ragazzi e alcuni loro tentativi di redenzione (Sheri fa visita ai genitori del ragazzo morto a causa del suo incidente con il cartello stradale; Justin capisce quanto la sua amicizia con Bryce sia malata; Jessica confessa al padre di essere stata stuprata; Clay si avvicina a Skye e a turno confermano quanto detto da Hannah nelle cassette). Il suicidio di Hannah è servito loro per capire quanto le loro azioni siano state spregevoli, non solo verso di lei ma anche verso gli altri. Se Hannah fosse sopravvissuta il suo appello non si sarebbe mai diffuso, e ognuno avrebbe continuato con la propria vita.

Altre polemiche vennero mosse a Selena Gomez per la scena del suicidio. Nel libro infatti viene detto, per bocca di Clay, che Hannah ha ingerito delle pillole. Nella serie vediamo invece nella sua interezza la scena in cui Hannah si taglia i polsi con la lametta e la sua sofferenza. Stando alle critiche, questa scena ha causato un incremento del tasso di suicidi tra i giovani negli Stati Uniti e in Australia, e infatti nella serie vediamo prima dei due episodi di stupro e di quello del suicidio un avviso di Netflix in cui si dichiara che l'episodio contiene scene e contenuti forti. Ma il messaggio sarebbe stato altrettanto potente se quella scena fosse stata tagliata? La telecamera si sofferma sull'espressione di Hannah al momento del suicidio, vediamo la sua sofferenza fisica che non riesce a contrastare quella psicologica, facendo capire allo spettatore quanto la vita di Hannah sia stata distrutta da tutto ciò che le è stato fatto. Non è un suicidio romantico o letterario, è un suicidio che rivela quanto le azioni che vengono rivolte verso le persone possano avere un risvolto drammatico. Non mostra come il suicidio abbia liberato Hannah, ma mostra come abbia devastato la vita delle persone che la amavano.

Due parole sono da spendere anche per quanto riguarda il sequel della serie tv.

Il libro risulta tragico e toccante proprio perchè non termina, e per questo si rivela reale. La serie tv, invece, si mostra più irreale proprio per il finale: Alex si spara; vediamo Tyler con un numero considerevole di armi nascoste in casa; dalla famiglia Baker viene imbastito un processo contro le persone citate nelle cassette. Se i primi due servono a lasciare le porte aperte ad un seguito, il processo serve per rendere giustizia ad Hannah. Il sequel è un modo come un altro per cavalcare l'onda del successo di una serie che di per sè non ha più nulla da dire, mentre il processo è ciò che rende imperfetta la serie rispetto al libro. Il finale ci mostra come la giustizia possa trionfare: purtroppo la vita non è sempre così. Asher ce lo rivela descrivendo Clay che consegna le cassette alla persona dopo di lui: sta ai singoli individui metabolizzare le parole di Hannah e cercare di migliorarsi, di non commettere più le azioni che hanno spinto al suicidio una loro coetanea. Imbastire un processo è invece solo un modo per mostrare come il male alla fine venga sempre punito, una morale di cui la storia non ha bisogno, visto la profonda critica che già si cela dietro la storia.

Per concludere Tredici è una toccante storia che mostra in modo profondo i risvolti del bullismo tra adolescenti e che permette di fermarci a riflettere su di esso, mantenendo una drammaticità che non sfocia mai nel banale o nel patetico.

Michela Bianco

L’adolescenza è un periodo di transizione e quindi di cambiamento che non tutti sono in grado di accettare e affrontare: l’individuo sviluppa competenze sia fisiche sia mentali influenzate anche dal contesto in cui vive. Questa fase comincia con la pubertà che si verifica tra i 10 e 14 anni e in cui avvengono cambiamenti corporei, tra i più evidenti, su cui il/la ragazzo/a non ha alcun controllo.

Il corpo è un tema centrale in adolescenza, basta guardare quanto è importante, specialmente per le ragazze, truccarsi, vestirsi, essere alla moda ed essere quindi all’altezza di una società che impone un determinato stile. Di conseguenza, l’abbigliamento presuppone un bisogno di originalità, di distinzione, di indipendenza e nello stesso tempo di appartenenza, alla società, alla parte “che ha stile” del mondo. Tuttavia, durante lo sviluppo puberale, il corpo nelle ragazze si ammorbidisce e si allontana sempre più da quell’ideale diffuso dai media e ciò ha un impatto da non sottovalutare sulla loro identità sociale.
In Tredici il “corpo” è presente in ogni puntata: si può dire che gran parte della serie televisiva ruoti attorno a questo elemento e si concentri principalmente sull’oggettivazione del corpo della ragazza che verrà indicata, presa in giro e descritta proprio attraverso quel corpo, quelle forme nuove che diventeranno ben presto la sua gabbia oltre che, nelle mura scolastiche, uno stigma. Hannah (la protagonista) arriva a odiare il suo fisico dopo aver subito gli abusi dei compagni e inizia a pensare che a nessuno interessi che cosa c’è sotto la sua pelle.

H.G. Gadamer (1900 – 2002), filosofo tedesco e autore di “Dove si nasconde la salute”, sottolinea che la connessione tra malattia e corporeità sia proprio quella che ci consente di comprendere la corporeità stessa e come la malattia rappresenti un fattore di dis – equilibrio dell’uomo. Hannah un giorno sta bene, viene elogiata dai compagni che la fanno sentire amata e apprezzata e il giorno dopo ha addosso un’etichetta relativa al suo corpo che non sente di meritare e che le è estranea. A volte si prende poco sul serio l’adolescenza, specialmente il suicidio di un adolescente è visto talvolta come un atto di debolezza. Come sostenuto dall’articolo di M. S. Gould, T. Greenberg, D. M. Velting e D. Shaffer (2003), ogni anno, un adolescente su cinque negli Stati Uniti considera seriamente l’ipotesi del suicidio. Gli autori sottolineano che i fattori di rischio sono rappresentati da caratteristiche personali che possono riguardare la psicopatologia (infatti i disturbi depressivi sono costantemente i disordini più diffusi tra le vittime di suicidi) oppure l’abuso di sostanze. Questi elementi si possono ritrovare anche in Italia dove l’Istat afferma che si osservano tassi crescenti di suicidio con il crescere dell’età con 1,4% di suicidi ogni 100 mila abitanti fino a 24 anni. Le statistiche dell’OMS affermano che in Italia la depressione è una minaccia sottovalutata nel mondo moderno, specialmente verso le fasce più deboli della popolazione. Il suicidio è la terza causa di morte tra gli adolescenti a livello globale e la metà di tutti i disordini mentali di cui soffrono gli adulti cominciano intorno ai 14 anni di età.
Un elemento presente nella serie televisiva è il gruppo degli amici che rappresenta un luogo sicuro in cui condividere, stare in compagnia, discutere delle incertezze, sfogarsi, ma anche parlare della vita quotidiana. Il gruppo si lega anche alla dipendenza, un concetto presente sin dall’infanzia poiché il bambino dipende dai genitori e ha un legame di attaccamento con essi, specialmente con la mamma ma, in adolescenza, i coetanei diventano fondamentali per affrontare la realtà e prendono possesso del ruolo appartenuto ai genitori, i quali vengono spodestati e talvolta non riescono a entrare in contatto con quello che, fino a poco prima, era il loro bambino.
Naturalmente il gruppo, essendo tale, può diventare capace di distinguere un individuo più fragile che può rappresentare il “diverso”, vissuto come una minaccia intollerabile, e che va eliminato. Così nasce il bullismo e la “vittima” diventa il capro espiatorio poiché rappresenta le caratteristiche della debolezza e della diversità. Hannah, ad esempio, è la ragazzina nuova, quella che tenta di fare amicizia ma non ci riesce e non è come le altre ragazze della scuola, le quali sono più avanti di lei su ogni fronte, lei non è ancora pronta, si vergogna di sé stessa, si assume la colpa anche quando non è sua. Alcuni studi hanno evidenziato che subire molestie può contribuire alla nascita di disturbi depressivi, alla disperazione e alla solitudine, i quali sono fattori di rischio e precursori di pensieri e comportamenti suicidari. Inoltre i mezzi di comunicazione che gli adolescenti hanno a disposizione possono contribuire alla proliferazione del bullismo e delle sue vittime. Il bullismo può comportare la violenza fisica, la violenza verbale e l’uso quindi di comportamenti manipolatori e subdoli come atti intimidatori che portano la persona ad avere paura dell’altro.
La prima stagione della serie televisiva si conclude con il peggiore degli esiti per la ragazza, forse il motivo scatenante che l’ha portata a compiere quell’ultimo ed estremo gesto: un abuso sessuale da parte di un compagno di scuola. La scena è raccapricciante: lo sguardo della ragazza è vuoto, quasi rassegnato, come se ormai non avesse nulla da perdere. Ed è qui che la trasformazione da donna a oggetto si completa: dopo essere stata tagliata fuori dai suoi amici; dopo essere stata chiamata con appellativi sminuenti da colei che considerava sua amica e che non le ha mai chiesto scusa; dopo aver subito palpeggiamenti in pubblico contro il suo volere; dopo essere stata fotografata in atteggiamenti intimi con una sua compagna che poi si scoprirà omosessuale e che taglierà Hannah fuori dalla sua vita e tenterà di isolarla dal resto della scuola; dopo essere stata umiliata, nuovamente toccata contro il suo volere dall’ennesimo ragazzo che si sentiva in diritto d fare ciò che voleva di lei e del suo corpo; dopo aver assistito allo stupro di una sua amica, adesso toccava a lei. Ci troviamo di fronte a un cerchio che si chiude, l’esasperazione della ragazza è giunta al punto di non ritorno, Hannah non ha più nulla. Le sue emozioni, già di difficile gestione in adolescenza, sembrano non esistere più: non c’è rabbia, non c’è contentezza, non c’è nulla che la trattenga.
Il benessere degli adolescenti è il risultato finale di un insieme di contesti, come la famiglia, la scuola e le amicizie e può accadere che senza una rete solida su cui cadere se si compie un errore (spesso rappresentata dai contesti precedentemente sottolineati) e in mancanza di risorse psicologiche adeguate non si riesca a tollerare il peso di questo momento della vita.
Ancora più toccante è il dolore dei genitori di Hannah, i quali non si danno pace e non capiscono che cosa abbia portato la figlia a compiere quel gesto disperato e come sia stato possibile non accorgersi di che cosa la loro Hannah stesse vivendo sotto i loro occhi.
A volte i cambiamenti biologici e psicologici associati alla pubertà, il peso del desiderio di diventare grandi e di dimostrare a tutti che cosa si è in grado di fare e, contemporaneamente, il peso del rendersi conto che in realtà così grandi non si è e che per molte cose si dipende dal giudizio altrui oltre che dai genitori, può essere nocivo per l’adolescente.
In conclusione, Hannah non ha trovato un contesto adatto ad accoglierla, né persone in grado di condividere con lei questa fase e di accompagnarla in un percorso difficile ma non impossibile. Eppure tali elementi sono fondamentali per il benessere fisico e mentale, soprattutto in un periodo come l’adolescenza: nella società si avverte, sempre di più, la mancanza di sostegno delle relazioni sociali e un conseguente declino delle strutture educative che dovrebbero promuovere la salute e valorizzare la persona, aiutandola a costruire il proprio patrimonio identitario. Ciò che emerge in Tredici è proprio questo: la mancanza di comprensione del dolore, della sofferenza e della vulnerabilità di Hannah e la promozione di un clima inadatto alla crescita e allo sviluppo dei ragazzi.

Alessandra Sansò

Bibliografia

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Biblografia foto
https://studybreaks.com/tvfilm/13-reasons-why-questions/

13 Reasons Why

Disturbo e violenza: un binomio da sfatare

Disturbi e violenza

Il tema della pericolosità sociale è spesso poco sottolineato dai media e dai giornali, ma è un argomento che unisce diverse discipline che, naturalmente, possono evidenziare diversi aspetti e porli sotto differenti punti di vista, talvolta discordanti. Attraverso la descrizione delle figure che si occupano di questo argomento, gli strumenti utilizzati e l’analisi di questo concetto sia dal punto di vista psicologico sia da quello giuridico, si giunge a una chiarificazione che può aiutare a comprendere le sfumature di questo contenuto. Tale chiarimento è necessario poiché gran parte dell’opinione pubblica è ancora legata alla credenza che chi soffra di disturbi mentali commetta necessariamente atti violenti.

Prima di descrivere che cosa sia la pericolosità sociale è importante sottolineare il concetto di imputabilità che nel nostro sistema penale è strettamente connesso a due cause che possono escluderla o diminuirla: le alterazioni patologiche, generate da un’infermità di mente o dall’azione di sostanze stupefacenti; e l’immaturità fisiologica o parafisiologica che dipende invece dalla minore età e dal sordomutismo (C. Saronni, 2014). Questo significa che se l’individuo, nel momento in cui ha compiuto il fatto, era maggiorenne, fisicamente e mentalmente sano e in una situazione che non differiva dalla normalità, l’individuo in questione è punibile.
Un elemento da evidenziare è il vizio di mente, il quale può essere parziale o totale. Il vizio parziale si riferisce alla condizione in cui per via dell’infermità, l’individuo era, durante la commissione del reato, in uno stato di mente in cui la capacità di intendere e di volere tende a scemare, senza però escluderla. Il vizio totale prevede che non sia imputabile chi al momento in cui ha commesso il reato fosse in un tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere.

Lo strumento più utilizzato per indagare la pericolosità sociale è la perizia, ossia un’attività svolta da un perito (nel processo penale) nonché l’elaborato in cui vengono esposti i risultati ottenuti dal lavoro peritale.
La perizia ha tre funzioni fondamentali: permette di svolgere indagini per ottenere dati probatori, consente di acquisire gli stessi selezionandoli e interpretandoli e permette di avere anche delle valutazioni sui dati assunti. Attraverso la perizia non si indaga solamente la capacità di intendere e di volere, ma anche la condizione psicofisica dell'individuo al momento del fatto di reato, la sua capacità di avere giudizio e di comprendere quindi le finalità e i metodi attuati nel processo in cui è coinvolto (C. Saronno, 2014).

Il perito opera per capire i rapporti tra le problematiche psicopatologiche e i comportamenti – reato molto spesso poco chiari. Egli va a indagare sia il livello psicopatologico e oggettivo, sia quello normativo attraverso cui avviene la valutazione dell’incapacità di intendere e di volere al momento del reato. Tracciare il confine tra normalità e patologia è un compito difficile perché il concetto di “normalità” non è sempre chiaro. Uno dei presupposti fondamentali della perizia è quello di esporre in modo trasparente le informazioni che il perito ha ottenuto attraverso gli atti processuali, i risultati delle indagini cliniche e deve riportare esaustivamente la valutazione conclusiva e il ragionamento effettuato per arrivare a tali conclusioni. La prima fase della perizia è una sintesi del lavoro peritale in cui vengono riportati i dati provenienti da perizie precedenti cosicché sia possibile confrontare i dati, inoltre viene descritto lo svolgimento del caso.
Il colloquio clinico è lo strumento più usato durante l’esame peritale dove emergono gli elementi della vita del paziente, la sua storia familiare, la socializzazione e gli eventi per cui è stata richiesta la perizia (T. Bandini, G. Rocca, 2010). Nella seconda fase della perizia avviene la raccolta dei dati attraverso l’anamnesi familiare, fisiologica, patologica remota e patologica prossima. In questa fase si riconoscono patologie familiari, in contesto socio – familiare e lo sviluppo psicosessuale. Attraverso l’esame psichico possono essere individuati i processi cognitivi del soggetto, le emozioni e la sua impulsività e un’eventuale destrutturazione dell’Io. (F. Baldoni, B. Baldaro, C. Ravasini, 1994). Nell’elaborato peritale verranno evidenziati anche elementi del comportamento del paziente, come i suoi movimenti durante il colloquio oppure il tono della voce. La terza fase è destinata alla diagnosi, è un momento di sintesi di tutti gli elementi emersi durante il colloquio e può esserci un’eccessiva attenzione sul sintomo e sulla malattia e non sul paziente. Infine si giunge alla fase finale in cui avviene la valutazione medico – legale del caso, il confronto tra i risultati ottenuti, la diagnosi ottenuta e gli elementi rilevanti per il quesito peritale (Baldoni e Altri, 1994).

Sulle basi ideologiche dell’Illuminismo si sviluppa la Scuola Classica, il cui concetto fondamentale è il libero arbitrio di colui che compie un atto criminoso, totalmente responsabile dei suoi atti, ma anche influenzabile dall’ambiente e dalle condizioni sociali. In quest’ottica la funzione della pena è quella di una punizione e viene applicata se l‘individuo ha violato ciò che era dettato dalla norma. A metà del diciannovesimo secolo si sviluppa la Scuola Positiva (Bandini, Gatti, Gualco, Malfatti, Marugo, Verde, 2003) di cui uno dei massimi esponenti è Marco Ezechia Lombroso (1835 – 1909), conosciuto come Cesare Lombroso, il quale sviluppa un nuovo punto di vista sul criminale. Le sue teorie, basate sugli studi di Darwin, evidenziano un determinismo biologico secondo cui nell’uomo – delinquente è avvenuta una regressione che ha lasciato al soggetto caratteristiche animalesche chiamate da Lombroso tratti atavici. Il delinquente, in quest’ottica, è un “primitivo” con delle anomalie somatiche e costituzionali che sono alla base del suo comportamento, manca di moralità e agisce impulsivamente.
Sul fronte opposto di Lombroso, troviamo, tra gli altri, Enrico Ferri (1856 – 1929): questi introduce il concetto di “difesa sociale” che riporterebbe in equilibrio il fattore sociale e quello individuale e pone alla base della delinquenza i fattori sociali (F. Colao, 2015).
Qualora sia valutata la presenza di pericolosità sociale nell’indagato vengono messe in atto delle misure di sicurezza specifiche per il soggetto, le quali possono essere detentive (psichiatriche e non psichiatriche) o meno. Se il vizio di mente viene escluso, il perito non può rispondere in merito alla pericolosità sociale poiché è proprio la presenza del vizio di mente parziale o totale è la condizione necessaria per valutare lo status del soggetto (Saronni, 2014). Nell’articolo 133 del codice penale viene citato il carattere del reo, perché rappresenta un parametro per definire in che modo la natura del crimine commesso sia legata alla condizione di vita che il soggetto ha o ha avuto, alle sue relazioni e al contesto (Lusa, Pascasi, 2013). Connessa alla pericolosità sociale è la recidiva. Essa si differenzia di reato in reato ed è la condizione di chi, essendo già stato condannato per un reato, ne commette uno o più (Garzanti, 2008). Un dato che spaventa è quello della delinquenza giovanile (Carabellese, Rocca, Candelli e Al.) infatti le probabilità che un adolescente possa commettere nuovi reati in seguito sono generalmente alte (Maggiolini, Ciceri, Macchi, Pisa e Marchesi, 2009). Ci sono diversi elementi che permetterebbero di prevedere la recidiva, come precedenti ricoveri in strutture psichiatriche, l’abuso delle sostanze, e la presenza di disturbi di personalità e la stretta connessione tra il comportamento deviante e l’uso abuso di alcol (Bandini, Rocca, 2010).
Un fattore che il giudice deve tenere in considerazione prima di poter giudicare l’individuo come “pericoloso sociale” è il grado di previsione del reato, cioè se il delinquente abbia agito consciamente o inconsciamente e deve approfondire i motivi che hanno portato il soggetto a delinquere (Lusa, Pascasi, 2013).

Per dichiarare un individuo “infermo di mente” è necessario valutare se al momento del reato questa infermità abbia compromesso la capacità di intendere e di volere del soggetto e si deve valutare l’entità della compromissione. Sono stati svolti alcuni studi sui disturbi di personalità, i cui risultati hanno suggerito che ci siano alcuni disturbi che riportano delle caratteristiche che possono essere connesse con la violenza. La pericolosità sociale è strettamente connessa con i disturbi di personalità. I fattori che incidono sull’eziologia dei disturbi di personalità sono molti: spesso questi disturbi sono associati a fattori ambientali, che possono comprendere abusi, famiglie disfunzionali, oppure condizioni di vita e contesti difficili (H. Pickard, 2015). Svariati autori sono d’accordo su alcune caratteristiche dei disturbi di personalità che possono condurre a comportamenti aggressivi e a partire dal 2005 anche questi disturbi sono stati introdotti nei fattori che possono influenzare la capacità di intendere o di volere (Fornari, 2006).
I disturbi devono essere dichiarati “gravi”, perché è in quest’area che si va a indagare se il legame con l’aggressività è motivato dai sintomi della malattia. Fornari (2006) afferma che per poter definire un disturbo di personalità grave sia necessario riferirsi a un modello teorico che permetta di differenziare tra organizzazione di personalità nevrotica, psicotica e borderline.
Il disturbo di personalità borderline comprende instabilità emotiva, cognitiva e dell’immagine di sé ed è spesso associato a un’impulsività distruttiva, rabbia immotivata e sentimenti cronici di vuoto, presenta, inoltre, ideazione paranoide o gravi sintomi dissociativi (Emmelkamp, Kamphuis, 2009). Spesso questo disturbo rappresenta il confine tra il disturbo nevrotico e psicotico (Fornari, 2006).
Il disturbo psicotico è caratterizzato da deliri, allucinazioni, disturbi gravi dell’umore, impulsività incontrollata. Il disturbo nevrotico ha una buona integrazione dell’identità, poche distorsioni e i soggetti cercano la terapia perché vivono un conflitto tra ciò che desiderano e gli ostacoli che vi si oppongono.

Oltre a questi disturbi, quello che è stato più volte associato alla violenza è il disturbo antisociale. Winnicott (1896–1971) sottolinea la “tendenza antisociale” che ha come fondamento un’esperienza di deprivazione, connessa al rapporto con la madre che non è stata capace di dare abbastanza affetto quando il bambino ne sentiva più bisogno. Due elementi fondamentali di questo comportamento sono il furto e la distruttività (D. Winnicott, “Il bambino deprivato”, 1984). Il disturbo antisociale è talvolta legato alla psicopatia, la quale è caratterizzata da una costellazione di sintomi interpersonali, affettivi, cognitivi e comportamentali (R. Howard, 2006). Uno dei sintomi è la poca capacità di provare senso di colpa e quest’elemento è stato ampliamente trattato sia da Melanie Klein sia da Donald Winnicott.
Melanie Klein (1882 – 1960) sottolinea la figura della madre come primo oggetto amato e, nello stesso tempo, odiato dal bambino, il quale proietta tutti i suoi sentimenti su di essa. La Klein evidenzia anche due “posizioni” che si alternano durante tutta la vita: la posizione depressiva è quella in cui l’Io dell’individuo si rinforza ed è in questa fase che emerge il senso di colpa. Il bambino può immaginare di distruggere la mamma, attraverso delle elaborazioni fantastiche che la Klein chiama “fantasie inconsce”. Con la riparazione il bambino riesce a ricomporre i pezzi della mamma, favorendo così la nascita del senso di colpa, il quale è strettamente connesso con i sentimenti di colpa inconsci come la paura di essere incapaci di amare e di costituire un pericolo per gli altri. Donald Winnicott sostiene che il senso di colpa sia una caratteristica che nasce automaticamente nei bambini con uno sviluppo regolare. Winnicott sostiene che il bambino metta alla prova il proprio ambiente, ciò avviene attraverso impulsi aggressivi, deve percepire la frustrazione e provare un senso di distruttività per poter sentire il senso di colpa.
Dodge differenzia i comportamenti antisociali in reattivi e proattivi, i primi affiorano se è presente una minaccia reale mentre i secondi partono dall’individuo stesso. L’aggressività reattiva è mediata dalla tendenza a notare intenzioni ostili nelle azioni degli altri, ciò implica una risposta che fa partire processi mentali ed emotivi che innescano dei comportamenti come affermato da Emmelkamp e Kamphius (2009). È un disturbo che si manifesta spesso durante l’adolescenza (Mancini, Capo, Colle, 2009).

In numerosi articoli e libri questo disturbo è strettamente connesso alla psicopatia. Essa è caratterizzata da una svariata costellazione di sintomi interpersonali, affettivi, cognitivi e comportamentali. Per quanto riguarda il lato interpersonale, i soggetti descritti come psicopatici hanno un grande senso di autostima, una tendenza particolare alla manipolazione altrui, tendenza ad essere annoiati e presentano assenza di senso di colpa. Affettivamente presentano mancanza di empatia, incapacità di stringere relazioni a lungo termine e un comportamento sessuale promiscuo (PCL – R, Psychopaty Checklist – Revised, Hare, 1980 in “I disturbi di personalità” di Emmelkamp, Kamphuis, 2009).
Questi tratti sono associati a uno stile di vita deviante che comprende impulsività e tendenza a ignorare le regole sociali, a essere irresponsabile e a manifestare un totale disinteresse verso gli altri (R.D. Hare, 1999)
Gran parte degli psicopatici soddisfa i criteri per il disturbo antisociale, tuttavia non tutti i soggetti diagnosticati come antisociali sono psicopatici e non tutti i criminali sono diagnosticati come psicopatici. Hare (1999) afferma che gli psicopatici abbiano “carriere criminali” che sono variabili, i comportamenti delinquenziali si manifestano in adolescenza, ma diventano meno antisociali durante la mezza età, specialmente per quanto riguarda i reati non violenti. La psicopatia presenta due sottodimensioni correlate: la psicopatia di base deriva da tratti affettivi e comportamentali incentrati sul narcisismo e sull’arroganza; la psicopatia secondaria si riferisce a impulsività e irresponsabilità, oltre che a comportamenti antisociali (Emmelkamp, Kamphuis, 2009), quest’ultimo concetto si lega al disturbo di personalità antisociale.
Palermo (2011) sostiene che lo psicopatico proietti i suoi sentimenti aggressivi verso il mondo esterno ed è lì che avviene lo scontro tra il suo mondo interno e il mondo esterno: i sentimenti aggressivi trasformano quest’ultimo tanto che lo psicopatico non può evitare di odiarlo.

La valutazione del rischio di violenza è posto su un continuum i cui poli sono rappresentati dagli studi clinici caratterizzati da modelli destrutturati e dagli studi attuariali che invece sono strutturati (J. L. Skeem, J. Monahan, 2011).
Gli studi clinici sono stati criticati per mancanza di coerenza, affidabilità e accuratezza sulle decisioni e i risultati raggiunti, ma sono anche flessibili rispetto al costrutto di pericolosità (S. D. Hart, 1998).
Il modello condizionale si basa sul soggetto e sul contesto in cui agisce. Alla base di questo approccio ci sono tre concetti fondamentali: la preoccupazione del clinico rispetto ai livelli di violenza che un soggetto può attuare. Un’altra caratteristica è rappresentata dalle specificazioni tecniche, le quali rappresentano modi in cui il clinico definisce gli atti di violenza e comprendono fattori come gravità e contesto. Questi elementi servono a giudicare le previsioni dei clinici. Un’altra caratteristica è caratterizzata da condizioni che possono influenzare il verificarsi di un’azione e possono essere durature o temporanee (Mulvey, Lidz, 1995). Un approccio più usato è quello attuariale, basato su regole fisse ed esplicite che lo rende più accurato e affidabile rispetto al modello clinico.

Negli ultimi anni il processo di valutazione del rischio potrebbe essere rappresentato da quattro componenti fondamentali: l’identificazione dei fattori di rischio empiricamente validi, un metodo per misurare tali fattori, una procedura per combinare i punteggi sui fattori e la produzione di una stima del rischio di violenza (J. L. Skeem, J. Monahan, 2011).
Cleckley ha coniato il termine di “psicopatia” e sosteneva che la caratteristica principale dello “psicopatico” fosse evidente nelle risposte affettive carenti. Sulla base di questi concetti, Hare, individua cinque fattori caratteristici della personalità psicopatica, ma uno in particolare è stato considerato il criterio fondamentale di questo disturbo: l’incapacità di formare relazioni profonde con gli altri; il secondo fattore riflette uno stile di vita instabile; il terzo fattore riguarda l’incapacità di assumersi le proprie responsabilità per ciò che è stato commesso; il quarto fattore è legato alla mancanza di una patologia evidente e il quinto fattore sostiene l’incapacità di autocontrollo (B. A. Thomas Peter, 1991).
Negli anni ’80, Hare sviluppa la PCL, una scala composta da 22 item riguardanti la personalità e il comportamento ed è stata sviluppata per misurare due fattori correlati (personalità e comportamento) che permettono di ottenere una definizione del soggetto e del suo livello di psicopatia (Hare, Harpur, Hakistian, Forth, Hart, Newman, 1990).
Si può quindi affermare che il problema della pericolosità sociale sia molto attuale, fomentato dai media che talvolta non conoscono a fondo questo concetto, oppure lo rendono un presupposto per associare la pericolosità sociale ai disturbi di personalità che, però, non sono sempre correlati. È stato molto interessante approfondire questo costrutto e poterne cogliere le sfumature meno conosciute. Grazie alle fonti consultate è stato possibile ottenere due punti di vista: quello giuridico e quello psicologico e quindi un quadro più completo e multidisciplinare. Il perito ha il compito di valutare un soggetto che ha compiuto un atto violento. Secondo la legge italiana le cause da cui dipende l’imputabilità riguardano le alterazioni psicopatologiche oppure l’immaturità fisiologica. È importante sottolineare che questi argomenti, sconosciuti a gran parte della popolazione, creano automaticamente (o quasi) due possibili correnti sociali: una che segue il crimine come una serie televisiva, che ne è ammaliata, e un’altra che invece è spaventata e tende a stigmatizzare e a originare nuovi pregiudizi su ogni individuo che sia diverso dalla “normalità”, concetto non facilmente descrivibile. Perciò negli studi futuri sarebbe importante approfondire quanto realmente influisca, sul compimento di atti violenti, il marchio della società sui soggetti che riportano le caratteristiche che la comunità ha identificato come accomunabili alla violenza.

In conclusione, si può affermare che il problema della pericolosità sociale è attuale, e viene associato erroneamente ai disturbi di personalità, che come è stato sottolineato non sono sempre correlati, contribuendo così alla nascita di pregiudizi e stereotipi verso le persone che soffrono di tali disturbi, ma non necessariamente compiono atti violenti.

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Alessandra Sansò

Caporedattrice Sezione di Psicologia

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