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Sezione di Filosofia

Il Fascismo può Tornare?

Parlare oggi di fascismo e delle sue possibilità nel futuro, immediato o prossimo che sia, è essenziale ma molto difficile. La risposta alla questione può essere sia affermativa, sia negativa, ed accontentarsi dell’una o dell’altra rischia di essere limitante e di ostacolo ad una comprensione più ampia. Infatti il fascismo è un fenomeno complesso che è reso possibile grazie ad una base di un certo tipo che non troviamo in altri tempi.
Lo scopo di questa indagine è quello di andare a comprendere l’essenza di quella base e la sua provenienza. Una volta chiarite, si tenterà di capire quale narrazione ha reso possibile il fascismo nel 1900 e perché non è sorto in altre epoche (come il Medioevo). E infine si lancerà uno sguardo al futuro, per vedere se il fascismo può essere una possibilità o è solo un fenomeno remoto.


Il potere delle credenze.


Il dibattito su cosa sia il fascismo tutt’oggi è ancora molto florido. C’è chi sostiene che il termine faccia riferimento unicamente al movimento italiano nato con Benito Mussolini all’inizio del XX secolo. Altri invece affermano che il suo significato sia più generale e che sia una vera e propria forma di governo e\o un atteggiamento.
Lasciamo da parte questa questione e concentriamoci invece sulla struttura che rende possibile non solo il fascismo, ma tutta la politica e la gran parte dei meccanismi insiti nella società umana.
Cominciamo rispondendo ad una domanda: in cosa differisce l’essere umano dagli altri animali? O riformulando: perché solo l’umanità è stata capace di costruire città, strade, fabbriche e di avere un impatto così pesante e profondo sul pianeta? Perché invece le scimmie, le api o i lupi non ci sono riusciti? Alcuni potrebbero intuitivamente rispondere che sono cose come la ragione e la coscienza a garantire una differenza così netta (o addirittura una superiorità). E tuttavia così non si spiegherebbe l’ascesa degli umani.
C’è una sola causa: l’
immaginazione. Quest’ultima ci permette di creare quello che lo storico e antropologo israeliano Yuval Noah Harari chiama ordine immaginario costituito, cioè un’insieme di credenze che permettono la cooperazione di milioni di individui. Le credenze non sono né oggettive come un fatto fisico (es. la gravità o la sintesi clorofilliana) né soggettive (es. un amico immaginario che vedo solo io), bensì intersoggettive. Il che significa che per funzionare c’è bisogno che un grande numero di persone ci creda. Solo così è possibile parlare di cose come il denaro, lo Stato, le aziende e i diritti umani. Sono tutti concetti che in natura non esistono e che sono frutto di invenzione.
Il potere delle credenze è sterminato. Esse sono veri e propri miti che permettono ad una società di formarsi e di mettere in contatto tra loro un numero illimitato di individui che non si conoscono e potrebbero non incontrarsi mai. La scienza, la politica e l’economia dipendono ineludibilmente dalla visione del mondo condivisa dai popoli e\o nazioni. Vediamo concretamente in che modo nella storia si sono evoluti i miti di riferimento e che conseguenze hanno portato.


Il Medioevo.


Il sistema di narrazioni su cui si è retto tutto il Medioevo lo si può indicare col nome di deismo. Non è facile capacitarsi di come il deismo abbia guidato l’umanità in questi anni, poiché siamo ormai abituati a guardare alle cose del mondo in maniera completamente opposta. Esso infatti poggia sull’idea che alla base di tutto vi sia un Dio onnipotente le cui più profonde volontà sono racchiuse nella Bibbia. A seconda dell’interpretazione, un sacerdote può ricavare dai testi sacri risposte a domande di tutti i tipi. Non importava quale fosse la questione, se di stampo etico o scientifico, perché tutto era già stato scritto nelle sacre scritture.
Questo non significa però che la storia fosse ferma e sempre uguale a sé stessa (come volevano certi filosofi illuministi). Il Medioevo è pieno di eventi storici e scientifici di rilievo che ci tornano molto utili per comprendere ancora meglio la forza delle credenze

 

Fascismo
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Per iniziare, prendiamo un classico della filosofia cristiana. Si tratta delle Confessioni di Sant’Agostino, opera di stampo biografico in cui il filosofo parla della sua conversione al cristianesimo. Quel che ci interessa in questo caso non è il contenuto in sé, ma la finalità con la quale l’opera è stata scritta.
Si legge infatti all’inizio:


“Grande sei, Signore, degno di grande lode; grande è la tua potenza, e la tua sapienza non ha limiti.
Ti vuole lodare l’uomo, una particella della tua creazione, l’uomo che porta con sé la sua mortalità, che porta attorno la testimonianza del suo peccato e la testimonianza che Tu resisti ai superbi. Tuttavia l’uomo una particella della tua creazione, ti vuole lodare!”

Agostino sta esprimendo uno degli scopi di fondo del testo: quello di invocare e di lodare Dio per tutto ciò che ha fatto in generale. Il vero protagonista è Dio, non il filosofo. Quest’ultimo, parlando delle sue vicende in vita, si riferisce infine al suo Creatore. Qui la concezione di biografia è completamente diversa rispetto a come la si intende oggi. Non è parlare di un universo personale e soggettivo, ma è descrivere una piccolissima parte della totalità che il Dio cristiano rappresenta.
Un altro evento interessante ha invece a che fare con lo
scisma d’Oriente, che gli storici sono propensi a collocare intorno al 1054. Uno dei motivi principali che causò la frattura fu una questione teologica legata all’inserimento del termine Filioque nel vocabolario cattolico. La Chiesa occidentale e la Chiesa orientale si sono separate in parte a causa di una diversa interpretazione riguardante la provenienza dello Spirito Santo. Se per i primi esso viene sia dal Padre che dal Figlio (“e dal figlio” Filioque), per i secondi viene solo dal Padre.
Infine vale la pena considerare un altro avvenimento estremamente significativo per inquadrare il
deismo e le sue conseguenze. Si tratta del decreto del 7 marzo 1277 con cui il vescovo di Parigi Étienne Tempier condannava due proposizioni che evocavano l’esistenza del vuoto, la mobilità della terra e la pluralità dei mondi. Non è un caso che questi elementi saranno tra i punti centrali del dibattito scientifico tra il XVI e il XVII, periodo che segna la fine del deismo in favore di un sistema di credenze alternativo. Effettivamente affinché si potesse affermare un certo ordine scientifico c’era prima bisogno di smantellare quell’ordine che si stabiliva alla base del discorso. Per dirla con Michel Foucault, doveva cambiare il terreno di positività, cioè quel che rendeva possibile affermare certe proposizioni piuttosto che altre. Durante il Medioevo quel che gli scienziati potevano fare era dimostrare continuamente la realtà concreta dell’armonia divina che metteva in collegamento tutto il creato. Ciò che dettava la ricerca era la somiglianza. Il mondo in quest’ottica è un uomo che parla ed è una fonte illimitata di conoscenza tutta da scoprire.
Dunque il centro della vita tutta era incentrata sul Dio cristiano, con il quale l’essere umano aveva un rapporto verticale di completa venerazione. La ruota della storia però non smette mai di muoversi. E il tramonto dell’età medievale lascia spazio all’età moderna.

 

L’età moderna.


Anche se gli storici sono propensi a far iniziare l’età moderna nel 1492, con la scoperta dell’America e la morte di Lorenzo de’ Medici, il deismo inizia a svanire intorno alla seconda metà del XVI secolo in campo scientifico, per poi svanire definitivamente nell’etica e nella politica nel XVIII secolo. I miti cambiano e ora si entra in quel sistema di credenze che va sotto il nome di umanesimo. Vediamo in ordine che mutamenti ha caratterizzato prima nell’ordine scientifico e poi in quello sociale.
Se nel Medioevo uno scienziato si muoveva secondo i criteri della
somiglianza, in età Rinascimentale è la misura che determina il sapere. Figura centrale in questo caso è il filosofo francese René Descartes, che da una direzione metodologica all’Occidente. Egli esclude la somiglianza come determinazione fondamentale della conoscenza e indica in essa un groviglio confuso che va misurato, analizzato ed ordinato. La figura dello scienziato non è più quella del sacerdote che dava indicazioni sulla natura delle cose basandosi sulla Bibbia, ma ha a che fare con specifici strumenti di calcolo che sezionano il mondo.
Si è però detto che nell’ordine sociale
l’umanesimo prende completamente piede solo nel XVIII secolo. Ma la sua ascesa inizia prima e il suo percorso è ben delineato dalla storia del pensiero politico liberale. I primi segni di cambiamento si ritrovano nella Lettera sulla tolleranza di John Locke, che il filosofo scrive nel 1685. Per la prima volta, si teorizza una separazione netta tra potere civile e potere ecclesiastico. Scrive Locke:

“..dico questo: qualunque sia la sua origine, poiché si tratta di un’autorità ecclesiastica, essa deve essere rinchiusa entro i confini della Chiesa e in nessun modo può estendersi alle cose civili, in quanto la stessa Chiesa è distinta e separata dallo Stato e dalle faccende civili.”

Questa distinzione diventa ancora più ampia in Voltaire, che scrive nel 1763 il Trattato sulla tolleranza. E infine essa viene considerata di per sé evidente da John Stuart Mill nel suo Saggio sulla libertà del 1859.

 

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E tuttavia questo ancora non basta a distanziarsi dall’autorità divina. L’età moderna ha in serbo molto di più. Infatti è in essa, in particolare nel XVIII secolo, che nasce quella sfida con cui il soggetto cerca di dare un senso alla sua presenza nel mondo, a prescindere da comandi esterni o da autorità di
qualsiasi tipo. L’essere umano si rende conto ad un certo punto di possedere una coscienza e desideri propri.
L’umanesimo si basa precisamente su questa esperienza interiore e sulla sua centralità. Il principio della vita individuale non si regge più su una divinità che detta leggi ma sulla persona stessa che si pone come fondamento della sua libertà.
La nostra indagine prosegue ora a partire dalla scoperta della soggettività e del suo inestimabile valore.

 

Fascismo, liberalismo e nazionalismo.


La coscienza individuale è il punto fermo su cui poggia l’umanesimo, come abbiamo visto. Tuttavia questo non significa che esso sia rimasto uniforme. Ha subito invece delle scissioni, le quali sono emerse nel XIX secolo e si sono scontrate nel XX secolo. Si possono individuare tre diversi rami: l’umanesimo liberale (di cui abbiamo già incontrato diversi autori), quello evoluzionista (i cui più noti fautori furono i nazisti) e quello socialista (che si appoggia sulle teorie di Karl Marx).
Lasciando da parte l’ultimo dei tre, concentriamoci sulle differenze che intercorrono tra
liberalismo ed evoluzionismo. Entrambe condividono una radice comune, ovvero la valorizzazione dell’esperienza umana, ma la trattano in maniera profondamente diversa.
Il
liberalismo da una parte mette il sentire interiore di chiunque sullo stesso livello e si impegna a garantire gli stessi diritti a tutti, senza distinzione alcuna. L’arte, l’economia, l’etica e la politica non sono più fondati su canoni oggettivi stabiliti da un’autorità divina, ma si costruiscono a partire dal soggetto, che contribuisce a illuminare il mondo da una diversa prospettiva.
L’
evoluzionismo invece non ha una visione orizzontale dell’esperienza umana e sostiene che esistano individui più forti di altri e che in quanto tali hanno il diritto di schiacciare i più deboli. Una grande personalità come Beethoven non è sullo stesso piano di un nullafacente che nella vita non ha combinato niente. Metterli sullo stesso piano significa svalutare il primo, impedendogli così di esprimere il suo potenziale appieno. Secondo questa logica, se il genere umano si sbarazza dei più deboli mano a mano progredirà sempre di più, diventando sempre più forte ed adatto.
Nel XX secolo, alla fine della seconda guerra mondiale, il
liberalismo ha sconfitto l’evoluzionismo. Per decenni si è ritenuto improbabile, se non addirittura impossibile, che si potesse tornare in tempi brevi ad una situazione politica simile a quella vissuta nella prima metà del ‘900. Eppure oggi un certo tipo di fascismo sembra assumere un consenso sempre più crescente.
Arrivati a questo punto occorre fare chiarezza su cosa sia il
fascismo e quale sia la narrazione di cui si fa portatore. Di certo non è estremo quanto il nazismo, che pur partendo dalla stessa base arriva a risultati e strutture diverse. Può essere però utile differenziarlo dal nazionalismo, con il quale sovente viene confuso. Vediamo dunque in che cosa differiscono.

 

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Il nazionalismo viene additato dal senso comune come qualcosa di negativo e di opposto al liberalismo, ma si tratta di un errore. Nel XIX secolo, il primo procedeva fianco a fianco del secondo, celebrando tanto l’esperienza individuale quanto l’unicità delle singole nazioni. La visione nazionalistica infatti mi dice che la nazione in cui vivo è unica e che ho obbligazioni speciali nei suoi confronti. Questa unicità non crea dislivelli con gente di origine differenti dalla mia, anzi mi permette di valorizzare le caratteristiche di altre culture senza giudicarle inferiori. Inoltre il nazionalismo garantisce una forte coesione tra individui e oggi paesi con un alto senso di appartenenza come il Giappone o la Norvegia possono vantare un grande benessere economico e sociale.
Il
fascismo al contrario mi dice che la mia nazione è superiore a tutte le altre e che  ho doveri esclusivi nei confronti di essa. Non deve importarmi di niente e di nessuno al di fuori della mia nazione. Il fascismo non permette che ci siano più identità né che si sia fedeli a più gruppi perché ignora le complicazioni che sorgono quando due individui con credenze e visioni differenti si incontrano. L’unica identità che conta è quella nazionale e se la mia nazione richiede l’uccisione di milioni di innocenti, piuttosto che il sacrificio della mia famiglia e dei miei amici io non devo far altro che obbedire. Non c’è spazio nemmeno per la verità o per la bellezza, a meno che non siano utili alla nazione.
Così descritto, il
fascismo sembra qualcosa che nessuno desidererebbe mai. Quello di cui ancora non abbiamo parlato però è del perché esso sia così seducente. Prendendo in considerazione questo elemento potremo provare a rispondere alla questione posta all’inizio dell’articolo.


La tentazione del fascismo.


Nella vita reale la malvagità non si caratterizza sempre come un orrendo mostro dal corpo purulento e le molte teste. Anzi nella gran parte dei casi ci viene dipinta come una panacea universale per tutti i problemi dell’umanità. Questo è quello che fa il fascismo. Esso fa sì che le persone si vedano come membri di una comunità che è la migliore delle comunità possibili: la nazione. Così l’orrenda descrizione che mi viene fornita cozza con quello che mi viene fatto vedere. Con l’aggravante che quest’ultimo è uno specchio irrealistico e costringe la complessità dell’esistenza ad adeguarsi ad una narrazione che in nome della semplicità compie atrocità e violenze. Quando ti guardi allo specchio del fascismo ti vedi molto più grande di quanto in realtà sei.
Questo significa che l’umanità è tornata agli anni 30 del secolo scorso? Nient’affatto. Quel che abbiamo conosciuto nella prima metà del XX secolo è un tipo di struttura politica unica, che non può tornare così com’era oggi semplicemente perché non è in linea con le tecnologie che si sono sviluppate così velocemente in Occidente. In questo senso, si può dire che un certo tipo di
fascismo non potrà mai tornare, come è stato accennato all’inizio di questa indagine. Esso però può tornare sotto un’altra forma che l’Occidente rischia di non riconoscere.
Stiamo infatti attraversando un’epoca di transito in cui alcune credenze fondanti stanno svanendo in favore di altre, come si è visto è accaduto nel XVI secolo. Cioè stiamo passando dall’
umanesimo al culto dei dati o datismo. Se quindi prima il centro della narrazione umana era l’esperienza individuale, ora mano a mano, con l’avvento dei social network e la rivoluzione informatica, sono i dati a star diventando sempre più importanti. La politica così diventa la lotta al controllo del grande fluire di dati che le nuove tecnologie producono in gran quantità.

 

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Nulla impedisce ad un nuovo fascismo di emergere grazie all’utilizzo di fake news e di un certo tipo di comunicazione volta a creare le famose camere dell’eco di cui ultimamente si parla tanto. Se oggi un semplice algoritmo ha il potere di associare su Google tutte le foto del presidente americano Donald Trump alla parola idiot, non sarà difficile creare uno specchio di dati che ci dia un’immagine distorta e semplicistica della realtà.

 

Giulio Mastrorilli



Bibliografia:

Agostino, Confessioni, Bompiani, Milano 2013
Arendt H., Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009
Colamedici A., Gancitano M., La società della performance, Edizioni Tlon, Roma 2018
Foucault M., Le parole e le cose, BUR Rizzoli, Milano 2016
Geary J. G., Il mito delle nazioni, Carocci editore S.p.A., Roma 2017
Harari Y. N., Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità, Bompiani, Milano 2017
Harari Y. N., Homo Deus. Breve storia del futuro, Bompiani, Milano 2018
Harari Y. N., 21 lezioni per il XXI secolo, Bompiani, Milano 2018
Kant I., Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Roma Bari 1997
Locke J., Lettera sulla tolleranza, Hachette Fascicoli s.r.l., Milano 2016
Merlo G. G., Basso Medioevo, Utet, Torino 2010
Mill J. S., La libertà, Quotidiani S.p.A., Milano 2010
Mordacci M., Rispetto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012
Rousseau J-J., Il contratto sociale, Quotidiani S.p.A., Milano 2010
Rousseau J-J., Origine della disuguaglianza, Feltrinelli, Milano 2013
Voltaire, Sulla tolleranza, Quotidiani S.p.A., Milano 2010
Wilson C., L’Outsider, Atlantide, Roma 2016
Wilson C., Supercoscienza, Edizioni Tlon, Roma 2018

 



 

IL PROBLEMA DELLA SAPIENZA NEI PRESOCRATICI 

La Sapienza nei presocratici

L’indagine che segue ha come scopo quello di far maggior chiarezza su tutto quell’insieme di dottrine che prima di Platone si riuniscono intorno ai presocratici. Va specificato però che la natura di questo compito è completamente diversa da qualsiasi altro suo simile, poiché presenta difficoltà e problemi particolari. Infatti nella trattazione di quella che è stata la grande filosofia antica occidentale dall’età arcaica fino all’età imperiale risulta ancora molto acceso il dibattito intorno a quali autori considerare fondamentali e fondanti nella tradizione, quali invece escludere da quest’ultima e, infine, che interpretazione dare del pensiero di questi sapienti, impresa non così semplice, considerando la mancanza di testi veri e propri su cui poter lavorare. Ad oggi, abbiamo la produzione completa di pochi autori antichi e molto di quello che sappiamo di altri autori ci viene da testimonianze e frammenti che spesso lasciano con molti dubbi e poche risposte.
Tentare quindi di fare chiarezza sul problema della sapienza nei presocratici significa dare un’interpretazione che si discosti da quella ufficiale e che si concentri su aspetti che ad oggi pochi studiosi hanno considerato. Non c’è alcuna pretesa di superiorità, quanto la volontà di affacciarsi su un mondo a noi ignoto ma inevitabilmente affascinante e che troppo spesso è stato ottenebrato dall’idea che tutto ciò che ha a che fare con dottrine cronologicamente distanti sia ormai inadeguato e superato.

 

Aristotele e la Dossografia Presocratica.
 

Viste le difficoltà legate alle fonti di riferimento, il metodo usato va sotto il nome di “Dossografia”, letteralmente “scrittura di opinioni” (da δοξα - doza - opinione e γραφειν - grafein - scrivere).  In questo senso, il primo che tentò di attuare questa operazione fu Aristotele. L’impatto che ebbe in seguito l’interpretazione di quest’ultimo sulla storia della filosofia è considerevole, nonostante il primo che si propose di fare della storia del pensiero un oggetto di studio scientifico fu il suo allievo, Teofrasto. Tenere a mente questo fatto è importante per evidenziare certe lacune e problematiche dell’interpretazione aristotelica.
La più nota, benché non l’unica, visione aristotelica dell’origine della filosofia la troviamo nel primo libro della
Metafisica. Quel che dice Aristotele è lo stesso che viene detto in ogni classe liceale quando si inizia a fare filosofia: ogni pre-socratico individua un principio dal quale fa risalire l’origine di ogni cosa. Vengono considerati da Aristotele come dei materialisti tutti quei filosofi che vedevano in un elemento materiale il principio, come Talete (considerato da Aristotele il primo filosofo). Altri, come Parmenide e i pitagorici, rientrano nella categoria dei monisti che fanno risalire l’origine ad un elemento non-materiale (l’essere nel caso di Parmenide, il numero nel caso dei Pitagorici).
Questa spiegazione che conosciamo tutti anche solo di sfuggita risulta stridere ad un occhio più attento. Se si leggono i frammenti originali accade che l’interpretazione aristotelica risulti in alcuni casi insufficiente e troppo riduttiva, in altri del tutto erronea.
A sostegno di questa tesi vi sono diversi elementi. Intanto, il lavoro di Aristotele non era volto a presentare uno sviluppo reale dei problemi toccati dai suoi predecessori, ma a riunire opinioni riguardo a uomini lontani nel tempo. Infatti spesso nel primo libro della
Metafisica troviamo in riferimento ad alcune informazioni l’espressione λéγεται (legetai) ovvero “si dice”. Quest’uso da parte di Aristotele denota una mancanza di sicurezza sulla solidità delle affermazioni intorno a questi antichi filosofi. 
Un altro punto importante da considerare è che Aristotele è un logico. Nel suo incontro con i presocratici fu colpito da due elementi: da una parte essi trattavano i principi di cui parlavano materialisticamente, dall’altro sostenevano l’esistenza dell’infinito. Dovendo Aristotele ridurre in termini razionali affermazioni originariamente mistiche, le cui radici erano ben piantate in una tradizione esoterica di un certo spessore, è normale che qualcosa non quadri. Non è infatti un caso che Aristotele non menzioni mai Anassimandro, che non aveva parlato di un elemento specifico ma soltanto di una certa “sostanza” che va sotto il nome di
ἄπειρον (apeiron), ovvero “indefinito” o “infinito”. Anche Talete ed Anassimene avevano parlato di ἄπειρον, ma a fianco ad esso avevano posto un elemento materiale finito. Fu quindi facile per Aristotele ridurre tali dottrine ad una visione unicamente materialistica. Questa operazione risulta però insufficiente nel caso di altri. Indicativo è Eraclito in questo senso, del quale si dice che veda l’origine di tutto nel fuoco, quando a leggere attentamente i suoi frammenti si nota la scarsa presenza di questo elemento. Totalmente ignorati sono i concetti di ψυχή (psychè - anima) e di logos.
Ultimo elemento, ma non meno importante, ha a che fare con il rapporto di Aristotele con le dottrine dei suoi predecessori. Facendo sempre riferimento al primo libro della
Metafisica, non vediamo mai nello Stagirita entusiasmo per le idee e le intuizioni dei filosofi a lui anteriori. Questo aspetto è importante per comprendere meglio che tipo di lavoro abbia svolto Aristotele nel trattare le dottrine precedenti (Platone incluso).

 

La sapienza mistica

Ecco che il problema della sapienza nei presocratici si fa più fitto. I problemi di interpretazioni presenti nella descrizione aristotelica si ripercuotono su tutta una corrente di interpretazione che ha affondato le sue radici in questa impostazione. Se si decreta l’inadeguatezza di questo modo di considerare l’antichità ecco che si viene a creare una frattura tra i presocratici e tutti i pensatori da Aristotele in poi.
Sorge allora spontanea una domanda: che genere di sapienza possedevano gli antichi? Per noi occidentali, abituati a fondare la nostra conoscenza ed esperienza sul
principio di non-contraddizione, è difficile o addirittura impossibile concepire un tempo in cui la sapienza aveva fondamento non logico. Tuttavia è possibile e non da escludere che i presocratici avessero accesso ad un tipo di sapienza che col tempo si è persa di vista o è stata completamente rifiutata.
Molto interessante risulta a tal riguardo la tesi di
Giorgio Colli, che si discosta dalla versione ufficiale dell’accademia che vede l’inizio della filosofia antica con Talete di Mileto nel 620 A.C. e fa risalire la sapienza greca ad un tipo di culto misterico celebrato duranti i misteri eleusini. E così, mentre da Aristotele in poi la contraddizione è da combattere a tutti costi, la conoscenza a cui avevano accesso i pochi eletti è fondata esattamente sulla contraddizione. Ecco quel che dice Colli di Dioniso all’inizio de La sapienza greca I, da cui fa partire il discorso sulla sapienza:

 

“In termini pacati, Dioniso è il Dio della contraddizione, di tutte le contraddizioni - lo dimostrano i suoi miti e i suoi culti - o meglio di tutto ciò che, manifestandosi in parole, si esprime in termini contraddittorii. Dioniso è l’impossibile, l’assurdo che si dimostra vero con la sua presenza. Dioniso è vita e morte, gioia e dolore, estasi e spasimo, benevolenza e crudeltà, cacciatore e preda, toro e agnello, maschio e femmina, desiderio e distacco, giuoco e violenza, ma tutto ciò nell’immediatezza, nell’interiorità di un cacciatore che si slancia spietato e di una preda che sanguina e muore, tutto ciò vissuto assieme, senza prima né dopo, e con pienezza sconvolgente in ogni estremo.”

 

Leggendo attentamente questo brano, si può notare la mancanza di un discernimento nel conoscere. L’esperienza a cui si fa riferimento e su cui si fonda la sapienza è fortemente interiore e ha a che vedere con un tipo di atteggiamento che non appartiene all’ordinario sensibile di ogni giorno. Se sposiamo l’interpretazione di Colli ci risulta semplice capire la difficoltà di Aristotele nel confrontarsi con i presocratici che con tutta probabilità conoscevano le dinamiche settarie e i contenuti esoterici espressi nei misteri e negli enigmi più antichi e dalle quali hanno tratto strumenti utili per attingere ad un sapere del tutto nuovo e originale. Prendiamo per esempio Parmenide, che molti considerano il primo logico antico, e che tuttavia rivela di aver trovato la via della conoscenza grazie alla rivelazione di una Dea:

“E la Dea di buon animo mi accolse, e con la sua mano
                                                                 la mia mano destra
prese, e incominciò a parlare e mi disse così:
<<O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici,
con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora,
rallegrati, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto
                                                                                a percorrere
questo cammino - infatti esso è fuori dalla via battuta
                                                                                       dagli uomini,
ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto apprenda:
e il solido cuore della Verità ben rotonda
e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza.
Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso>>”

 

La Dea è molto chiara con Parmenide: la via sulla quale lo sta conducendo non è per tutti ed è al di fuori della comune realtà con cui ha a che fare l’uomo. La sapienza è dunque patrimonio di pochi fortunati che hanno la possibilità di accedere ad una conoscenza molto particolare.
 

Conclusione
 

Non si può sapere se si riuscirà mai a fare realmente chiarezza sul tipo di sapienza che possedevano i presocratici. O forse dovremo trovare il modo di riscoprire la nostra interiorità e il valore della meraviglia da cui deriva ogni filosofare.
La speranza di una migliore comprensione risiede in un atteggiamento umile che guardi al passato come un vecchio maestro da cui si può sempre imparare. E se riusciremo a non perdere questa eredità nel tumulto del progresso, avremo forse l’occasione di far fruttare questo enorme bagaglio che abbiamo ricevuto in eredità.

Giulio Mastrorilli

Bibliografia
Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2000
Colamedici A., Gancitano M., Lezioni di meraviglia, Edizioni Tlon, Roma 2017
Calasso R., Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, Milano 1988
Colli G., Filosofia dell’espressione, Adelphi, Milano 1969
Colli G., La natura ama nascondersi, Adelphi, Milano 1988
Colli G., La sapienza greca I, Adelphi, Milano 1977
Colli G., La sapienza greca II, Adelphi, Milano, 1978
Colli G., La sapienza greca III, Adelphi, Milano 1980
Foucault M., L’ermeneutica del soggetto, Feltrinelli, Milano 2003
Hadot P., Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 2005
Nietzsche F., La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 1978
Onians R. B., Le origini del pensiero europeo, Adelphi, Milano 2006
Reale G. (a cura di), I Presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, Bompiani, Milano 2006

IL PERDONO COME MODELLO DELL'AZIONE UMANA IN HANNAH ARENDT

Perdono in Hanna Arendt

Perdono: «(dal lat. mediev. perdonāre – forgìveness; Vergebung; pardon; perdón). È l’offerta gratuita e libera, da parte di una vittima alla persona da cui ha ricevuto l’offesa, di potersi ridefinire nella reciproca relazione che risulta compromessa. Il perdono è un evento che supera la logica della vendetta o il semplice oblio del torto subito; il perdono non è riducibile alla remissione della pena […] e nemmeno alla mera tolleranza, alla scusa o alla comprensione dell’altro. Il perdono è l’atto di chi “riammette alla relazione con sé il proprio offensore, riconoscendogli una dignità che supera il male compiuto e riuscendone a portare il peso senza cedere alla collera” […]». (1)

Il concetto di perdono emerge raramente nella riflessione filosofica-letteraria attuale; come riportato sinteticamente nell’enciclopedia Bompiani alla voce corrispondente, la tematica del perdono è scarsamente analizzata nello sviluppo del pensiero occidentale,  «Le cause di questa mancata considerazione sono diverse […]; forse, soprattutto, l’aver confinato il perdono nella sfera personale e privata come se fosse soltanto l’esito di una virtù individuale, ammirevole, certo, ma su cui non vi sarebbe molto da riflettere». (2)

La tematica presa in considerazione è decisamente sfuggente, per essere concepita richiede di essere applicata concretamente ad esperienze personali, senza le quali non si potrebbe analizzare il fenomeno, e perciò entrano in campo ulteriori variabili che complicano la natura dell’argomento. Inoltre, è importante notare come lo scenario corrente evidenzi uno scarso interesse e studio del fenomeno in questione.

Viene spontaneo, allora, domandarsi: è possibile parlare di perdono? È lecito parlarne solamente a livello teorico, oppure è realistico applicare questa facoltà anche all’ambito pratico?

Nel corso del Novecento vi è stata una voce fuori dal coro, una pensatrice asistematica che si è accostata a questo tema in maniera singolare: Hannah Arendt (Hannover 14 ottobre 1906, New York 4 dicembre 1975).

Negli anni Cinquanta si concentra gran parte della maturazione del suo pensiero, anni cruciali nei quali approfondisce lo studio di rilevanti fenomeni storici, politici e culturali, osservandoli da un punto di vista etico-esistenziale.

Fra i suoi scritti, quello che risulta maggiormente utile per approcciarsi al tema del perdono è il testo del 1958, Vita activa, La condizione umana.

 Da subito emerge l’interesse arendtiano nei confronti di un’ampia tematica: lo studio della condizione umana, o meglio delle condizioni umane che caratterizzano l’uomo contemporaneo. Fra queste condizioni, secondo la Arendt, vi è la condizione della pluralità, a cui corrisponde la facoltà umana per eccellenza dell’agire.

Dei vari caratteri delineati dalla Arendt nella sua analisi sul ruolo dell’azione umana, ciò che determina immediatamente un problema è il rischio legato all’agire, per le due aporie principali che sono costitutive dell’azione: l’imprevedibilità e l’irreversibilità.

La prima aporia riguarda strettamente l’incertezza legata al futuro, mentre l’aporia dell’irreversibilità consiste nell’impossibilità di rimediare agli esiti negativi di azioni commesse nel passato, che continuano nel tempo a limitare il libero agire dell’uomo.

Nella trattazione arendtiana queste due aporie sono poste sul medesimo piano di importanza e troviamo una proposta di soluzione ad entrambe; in questo contesto, personalmente, pongo l’accento maggiormente sull’aporia dell’irreversibilità, in quanto il peso di un passato dal quale non ci si redima è ancor più gravoso sull’uomo di quanto non lo sia l’incertezza totale di un futuro senza sicurezze.

Come ovviare al problema? Tramite quali facoltà si può arrivare ad una significativa liberazione dell’uomo? La Arendt, come accennato, individua due soluzioni a riguardo in due facoltà che appartengono alla potenzialità dell’azione stessa, scrivendo: «La redenzione possibile dall’aporia dell’irreversibilità – non riuscire a disfare ciò che si è fatto anche se non si sapeva, e non si poteva sapere, che cosa si stesse facendo – è nella facoltà di perdonare. Rimedio all’imprevedibilità, alla caotica incertezza del futuro, è la facoltà di fare e mantenere delle promesse». (3)

La riflessione arendtiana sul concetto di perdono è stata, a suo tempo, di estrema attualità e continua ad esserlo, a pieno titolo, anche ai nostri giorni. A ben vedere, l’analisi della Arendt è stata anzitutto spinta da un atto di coraggio insieme ad un’urgentissima volontà di comprendere; parlare di perdono nel momento in cui si andava sviluppando un’ideologia totalitaria pervasiva ed anche quando questa è giunta al suo culmine, è indubbiamente originale. L’indagine sul tema, sebbene sia appunto di grande rilevanza, non è approfondita a dovere e lascia dei grandi interrogativi a proposito.

Rispetto allo sviluppo di questo concetto è da notare una possibile influenza di un autore, teologo e filosofo di formazione, Romano Guardini; è stato maestro della Arendt a Berlino, intorno agli Venti e successivamente vi è stato un altro incontro fra i due negli anni Cinquanta, a Monaco, quando la Arendt decise di rivolgersi alla filosofia politica a prese parte alle lezioni del suo vecchio insegnante.

Lo svolgimento di Guardini riguardo al fenomeno del perdono è decisamente più accurato e minuzioso, toccando una vastità di temi correlati; il contesto è quello della realizzazione etica personale, affrontato da un punto di vista morale ed insieme telogico-cristiano, nel quale si esplorano le varie condizioni indispensabili affinchè di possa parlare di azione morale e di colpa.

Guardini esplora l’evento della colpa in maniera pluriprospettica, parlando implicitamente di una forte componente di irreversibilità nella vita dell’uomo e nelle sue azioni: «Nulla di quanto è accaduto si annulla, tutto è ancor sempre presente o nei disordini o nelle distruzioni causate, o nel dolore costante e operante delle persone stesse coinvolte e dei loro congiunti, o nell’esempio che è stato dato o nelle motivazioni innescate… ma rimane presente anche nella stessa persona che ha agito, nell’effetto che la sua azione ha prodotto sul suo carattere, negli indurimenti e nelle perversioni che ne risultano... Essere passato non significa mai divenire nulla, ogni iniquità commessa è ancora presente, e ciò vale non solo per le grandi azioni, ma anche per le piccole, per ogni impresa fondata sulla disonestà, per ogni promessa infrante, per ogni parola sudicia: tutto rimane. E quel che più conta, con un carattere particolare: sotto forma di colpa». (4)

Ciò che è maggiormente propedeutico al momento del perdono, per Guardini, è il pentimento: nell’atto del pentimento risiede la genuina forza di volontà di ricreare qualcosa di nuovo. Si nota qui una forte assonanza col pensiero della Arendt, la quale si è occupata anche di un’altra condizione generica che definisce l’esistenza umana: la natalità. Con l’evento della natalità l’uomo compie il suo ingresso su questo mondo e, grazie alla libera facoltà di agire, è capace di immettere nel mondo continuamente e potenzialmente altre novità.

La tematica del nuovo è centrale in questo contesto, soprattutto nell’evento stesso del perdono secondo Guardini: il perdono è forza di cominciamento, sia per colui che è stato offeso e decide di perdonare, sia per l’offensore che viene perdonato.

Determinante, perciò, è la relazione che si instaura, e che deve essere instaurata, fra le due parti che agiscono nell’atto del perdonare e dell’essere perdonati: «[…] tra chi ha commesso il torto e chi l’ha subito sussiste una solidarietà, un legame molto misterioso ma immediatamente avvertibile. I due si coappartengono[…]». (5)

Si può notare il carattere relazionale del concetto di perdono, che si fonda principalmente, per tornare al pensiero arendtiano, sulla pluralità umana, sul fatto che l’uomo vive insieme agli altri, senza i quali non sussisterebbe il perdono in sé.

La pluralità e la relazione, caratteri propri anche della facoltà d’azione, permettono l’atto di perdonare, col fine ultimo di liberare l’uomo dalle conseguenze indesiderate che possono scaturire da un unico gesto, bloccandolo e negandogli la possibilità di agire nuovamente, di ricreare qualcosa di inaspettato. Ciò che vi è di più originale nel pensiero della Arendt riguardo alla facoltà di perdonare è l’aver saputo individuare il fatto che «[…] l’atto del perdonare non può mai essere previsto; è la sola reazione che agisca in maniera inaspettata e quindi ha in sé, pur essendo una reazione, qualcosa del carattere originale dell’azione. Perdonare, in altre parole, è la sola reazione, che non si limita a re-agire, ma che agisce in maniera nuova e inaspettata». (6)

In quest’intuizione troviamo l’analogia più stretta fra la facoltà dell’azione e la facoltà di perdonare.

Si può notare, senza molte difficoltà, quanto sia poco osservato e vissuto il fenomeno del perdono, nonostante sia uno dei valori e delle potenzialità più alte che l’uomo possiede. Questo concetto viene così ad essere, da una parte, un modello corrispondente della facoltà di agire, che ci permette dunque di capirne meglio i caratteri e le determinazioni, e dall’altra diviene l’emblema della soluzione stessa dell’aporia dell’irreversibilità propria dell’agire. In altre parole, il concetto di perdono può essere visto come uno specchio dell’azione umana, che consente di analizzarne meglio i dettagli i di coglierne i problemi, trovandone al contempo una risoluzione.

La rappresentazione del perdono mostra, seppur con delle evidenti domande ancora in sospeso, quanto sia fondamentale per la vita dell’uomo come singolo e come collettività poter sperare in una riconciliazione, che forse è il carattere più distintivo nel fondo della questione: come riportato precedentemente, il perdono è quella possibilità di ridefinirsi nella reciproca relazione che, in seguito ad esiti negativi, risulta ormai compromessa.

Le riflessioni che possono sorgere sul tema sono moltissime; vista la necessità di sinteticità, vorrei esporre ancora un’ultima tematica a riguardo come conclusione. Pensando al fenomeno del perdonare, può nascere immediatamente una prospettiva particolare sul tema: il perdono di se stessi.

Avvicinandosi alla pratica del perdono, si fa riferimento alle proprie esperienze personali, e procedendo in questo modo è frequente arrivare al momento in cui ci si preoccupi della possibilità di “perdonarsi personalmente”. È una comune preoccupazione chiedersi se sia possibile perdonarsi da sé, per porre rimedio a dei gesti irreversibili che ci hanno “contaminati” nel corso del tempo, al fine di liberarcene.

Le cause di questo procedimento di pensiero sono da ricercare in vari motivi, anzitutto nel fatto che spesso, nei nostri giorni, vi è l’illusione di poter essere “individui autarchici”. La concezione del singolo come autarchico, ossia che basta a se stesso, ha le sue radici principalmente nell’etica cinica e successivamente in quella dello stoicismo antico.

Riportata all’attualità, questa concezione è purtroppo ancora presente in larga misura e porta ad ingannare se stessi con la convinzione di non aver bisogno di nessun altro al di fuori di sé. Nel momento storico-culturale attuale, è innegabile la difficoltà di fare i conti coi propri bisogni, con la propria volontà, con se stessi.

Da qui, soprattutto, deriva la domanda: “Come, in quale modo, posso arrivare a perdonare la mia persona per l’atto ingiusto che ho compiuto in passato?”. Come detto, questa domanda subentra spontaneamente nel nostro pensiero e, per certi versi, può essere perfino una domanda lecita.

Alla luce, però, di tutto quello che è stato esposto finora, appare chiaramente il fatto che questo interrogativo perde inequivocabilmente il suo significato più autentico.

Avendo precedentemente esposto le condizioni fondamentali dell’esistenza umana, fra le quali emerge con preminenza la condizione della pluralità umana, si deve arrivare ad ammettere che il singolo non può bastare a se stesso, ma che ha intrinsecamente il bisogno di percepire un’alterità, di vivere insieme ad altri: «[...] nessuno può perdonare se stesso o sentirsi legato da una promessa fatta solo a se stesso; perdonare e promettere nella solitudine o nell’isolamento è atto privo di realtà, nient’altro che una parte recitata davanti a se stessi». (7)

La Arendt coglie questo punto, affermando che si tratta di una sorta di recita con se stessi, priva di significato, poiché non avviene nella condizione della pluralità.

Questa sua osservazione trova una spiegazione per il fatto che, fra la percezione che abbiamo di noi stessi e come invece appariamo agli altri, vi è una discrepanza incolmabile. La percezione del proprio io e del proprio pensiero, è duale e non globale, assume una conformazione unitaria quando ci manifestiamo ad altri, i quali sono in grado di vederci e percepirci in un modo completamente diverso da quanto noi riusciamo a fare da soli.

Tenendo presente questa constatazione, l’atto di perdonare presuppone necessariamente il fatto di cogliere l’essenza della persona da perdonare, il suo chi in senso complessivo, per riuscire a distinguere con chiarezza ciò che determina la persona in quanto tale e ciò che invece è l’insieme delle sue qualità aggiunte che possano descriverla, ma non definirla unitariamente.

Nell’ipotetico perdono di sé stessi, l’inganno ed il desiderio di poter essere individui autosufficienti, che non necessitano di nessuno, prendono il sopravvento su tutte le altre facoltà, rendendo ancor più difficile questa pratica e la volontà di ammettere di essere genuinamente dipendenti dagli altri; qui risiede un’altra motivazione per cui l’atto di perdonare sembra essere così impensabile ed impraticabile, richiedendo nella maggior parte dei casi un tempo consistente prima che si realizzi l’intenzione di attuare concretamente questa pratica.

Il perdono è l’attività umana che più rispecchia la facoltà di agire, per l’insieme di denotazioni già esposte, ed in ultimo per la dipendenza stretta dalla condizione ontologica della pluralità.

Le due esperienze che possono suscitare il perdono, sono il rispetto e l’amore; in queste due situazioni, la persona è posta di fronte ad un’alterità con la quale rapportarsi per instaurare una relazione. Soprattutto, nell’esperienza tangibile dell’amore, la persona è soggetta ad un’epifania, una rivelazione che permette di eliminare dal pensiero la possibilità di bastare a se stessi, per prendere invece atto di avere bisogno della presenza di altre alterità, simili o dissimili dalla propria, per creare una relazione di solidarietà.

È la solidarietà, o l’umanità in senso generico propria di quell’uomo realmente umano, che rende possibile in ultima analisi il perdono.

Infine, l’ultimo spunto di riflessione può essere individuato in un sentimento che va di pari passo con l’esperienza dell’amore, in ognuna delle sue accezioni, ed anche del più semplice rispetto: la fedeltà.

Questo sentimento è stato determinante nel pensiero della Arendt per proseguire in una vita che le ha posto di fronte molti ostacoli, i quali sono stati sorpassati con l’estremo coraggio che la caratterizza, unito appunto alla fedeltà verso ciò che le apparteneva più propriamente, verso ciò che ha preso vita grazie ad un nuovo inizio scelto deliberatamente.

Il sentimento di fedeltà è insito nel perdono, in quanto ciò che può spingere a perdonare è il fatto di tenere a mente (fedelmente) un momento passato durante il quale abbiamo agito spontaneamente, immettendo una novità nel mondo; è a quel momento iniziale che dobbiamo volerci mantenere fedeli, per rispetto e per amore di ciò a cui abbiamo dato vita per mezzo delle nostre azioni libere.

Tramite la caratteristica di creazione della facoltà di agire, introduciamo potenzialmente in modo continuo qualcosa di nuovo nella realtà.

Agendo liberamente, diamo inizio anche a delle relazioni, quelle stesse relazioni che possono essere compromesse a seguito di un atto ingiusto e che non per questo diventano irrilevanti, ma che necessitano della messa in pratica del perdono.

Per perdonare, ammesso che sia possibile, il sentimento di fedeltà risulta cruciale e determinante: in fin dei conti, la fedeltà è un altro di quei “correttivi” alle aporie proprie dell’azione umana, che risulta essere tanto straordinaria quanto caotica.

Per liberarci da tutte le conseguenze irreversibili delle nostre azioni, ossia per concretizzare una redenzione personale, bisogna iniziare col comprendere la mutevolezza della vita: in questa vita temporalmente condizionata, ci è dato di sapere l’inizio e di mettere in conto la sua fine; tutto quello che succede nel mezzo è una progressiva trasformazione, del mondo in comune e di se stessi.

Il potere umano che per definizione è smisurato più di ogni altro è l’agire; il perdono vi si accosta, per risolvere significativamente i danni inevitabili delle azioni. Comprendere appieno queste due facoltà equivale a realizzare nel mondo la potenzialità umana, spesso sminuita e messa da parte, di ricreare continuamente nuove possibilità, nuovi inizi, per spezzare, di tanto in tanto, il progressivo scorrere necessario della vita: «[…] e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare». (8)

Sara Balletto

NOTE:

  1. Bompiani, Enciclopedia filosofica, volume IX, Bompiani, Milano 2006, p. 8503.

  2. Cfr. ivi, pp. 8503-8504.

  3. Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2016, p.173.

  4. Romano Guardini, Etica, Lezioni all’Università di Monaco, Morcelliana, Brescia 2001, p. 428.

  5. Ivi, p. 443.

  6. Arendt, op. cit., p. 178.

  7. Ivi, p. 175.

  8. Ivi, p. 182.

AUSCHWITZ E L’INDIVIDUO

Come l’esperienza dei campi di concentramento ha modificato pensieri e personalità

BESTIALIZZAZIONE

Uno degli aspetti che purtroppo possiamo definire fra i più conosciuti di quelli adottati dai nazisti nei confronti dei deportati nei Lager, è sicuramente quello che viene comunemente chiamato come il processo di “bestializzazione”. Questa pratica è forse una fra le peggiori utilizzate in quanto cercava di indurre la regressione della personalità dell’individuo a tal punto da poter paragonare quest’ultima a quella di un animale domestico. L’obbiettivo era infatti questo: cercare di insinuare nella mente dei prigionieri l’impossibilità di qualunque forma di ribellione o di fuga per poter poi dare loro il colpo di grazia colpevolizzandoli per ciò che stava accadendo loro e ai loro amici e compagni. A quel punto il passo per far divenire un uomo un oggetto era breve. La riduzione alla condizione di animale è inoltre funzionale all’assunzione, da parte dei carnefici, di un comportamento privo di qualsiasi umanità in quanto agire in un modo violento e completamente impietoso è più facile se davanti si ha un soggetto non considerato proprio simile.

Il processo per arrivare all’annientamento completo dell’interiorità degli internati era lungo e difficile soprattutto nei confronti di coloro che erano fermamente ancorati a solidi principi, come una fede morale o religiosa o l’amore per qualcuno, che riuscissero in qualche modo a dare loro un motivo per continuare a sopravvivere. Il primo passo di questa pratica lo possiamo individuare già nei primi momenti di ghettizzazione e di deportazione, quando gli atteggiamenti dei soldati e degli ufficiali nazisti erano di estrema violenza fisica e verbale. Non molti in quei momenti capivano per quale motivo persone che prima potevano essere i loro vicini di casa o loro vecchi compagni di scuola, adesso fossero tanto arrabbiati nei loro confronti, e tantomeno potevano immaginare quale fosse il loro destino. Le notizie veritiere infatti che arrivavano sui campi di sterminio erano quasi nulle, il regime mandava rari filmati di propaganda mostrando i campi come luoghi di lavoro e di speranza per gli ebrei in modo tale da cercare di “invogliarli” ad andare senza troppe resistenze; quindi nemmeno quella parte di tedeschi considerati “ariani” era completamente a conoscenza dello sterminio in atto. Nel momento in cui le persone venivano fatte salire sui vagoni dei treni che li avrebbero portati ai campi, entrava in azione la macchina nazista; l’impossibilità di fuggire era già chiara, gli ordini volavano assieme ai pugni e nessuno osava alcun tipo di resistenza.

La prima offesa era rivolta al pudore: le 120 persone fatte salire per vagone impossibilitavano qualunque tipo di privacy, ognuno doveva fare i propri bisogni davanti ad altre decine di uomini e donne o, quando si era particolarmente fortunati, dietro a una tenda di fortuna fatta di magliette e stracci. Il secondo passo avveniva all’arrivo dei deportati al campo dove erano divisi tra uomini e donne, le quali a volte potevano tenere con loro i bambini più piccoli. Ogni individuo veniva privato dei suoi pochi beni che gli era stato concesso di portare sul treno, con la promessa che gli sarebbero stati restituiti; a quel punto si procedeva al primo vero omicidio interiore: la doccia. Quello che da sempre si ritiene essere uno dei simboli di pulizia e di cura per il corpo, nei Lager diviene una falla insanabile tra chi i campi li ha vissuti e chi li ha sentiti raccontare. La privazione dell’intimità era al vertice di questo momenti. Assieme alla doccia, inevitabilmente gelata anche d’inverno a -20°C o -30°C e fatta completamente nudi, si accompagnava infatti la depilazione totale del corpo che, da un punto di vista medico può essere intesa come una prevenzione contro i pidocchi, mentre da un punto di vista umano comportava la prima vera umiliazione che un internato doveva subire, fosse uomo, donna, vecchio o bambino. Primo Levi racconta come i nuovi arrivi dopo la doccia, ormai diventati già prede inermi con i nervi recisi dal freddo, si dirigessero verso gli angoli per coprirsi le spalle in modo da sentirsi un po’ più coperti. Dopo quei momenti, brevi ma completamente confusionari, i deportati venivano condotti in uno spazio aperto per subire la prima vera selezione fra coloro che avrebbero potuto lavorare e sarebbero serviti alla causa e coloro che invece sarebbero dovuti andare alle camere a gas perché “inutili” e “deboli”. Coloro i quali erano risultai più forti, i “primi sopravvissuti”, avrebbero poi ricevuto nuovi vestiti, ovvero un pigiama a righe, assolutamente non adatto a coprirsi dal gelo dell’inverno, e delle scarpe, entrambi quasi sempre larghi, per i più fortunati, o stretti. Successivamente avveniva il processo di numerazione. Questa operazione, come racconta Levi, era poco dolorosa ma molto traumatica in quanto comportava l’incisione sulla pelle di un uomo, che fino a poche ore o pochi giorni prima era libero, il marchio dello schiavo e della bestia condannata al macello. Una volta “marchiati” i nuovi arrivi veniva distribuita a ciascuno una ciotola alla quale però non era accompagnato alcun tipo di cucchiaio per poter mangiare la liquida zuppa del campo, i primi giorni dunque gli internati erano costretti a “lappare” la zuppa, come dice lo stesso Levi, alla stregua degli animali.

Ed ecco che si conclude il primo ciclo di “bestializzazione”; ormai i deportati non sono già più persone, nel giro di neanche un giorno sono diventati dei numeri ai quali corrisponde una certa catalogazione per luogo di origine, etnia o religione. Il compito più difficile per i nazisti era dunque stato fatto: erano riusciti a sopprimere qualunque forma di ribellione ancora prima che nascesse e adesso non rimaneva altro che restare a guardare e infierire con qualche colpo di tanto in tanto per rimarcare la loro autorità. Il gruppo di deportati infatti si era completamente trasformato in una aggregazione di singoli dove ognuno pensava solamente a sé stesso e, a volte, aveva un occhio di riguardo per un familiare o a un amico stretto. Ogni singolo era spinto dal solo spirito di sopravvivenza, non c’era più spazio per la pietà né per nessun’altra forma di altruismo. Non rimaneva neppure quell’illusione che Wiesel vedeva presente ancora nei ghetti e invece totalmente dissolta assieme ad ogni pensiero nel momento dell’abbandono dei propri oggetti sul treno. Spinti dunque da quella che Schopenhauer definirebbe la Volontà di Vivere, tutti cercavano di procurarsi chi un cucchiaio, chi un pezzo in più di pane, chi una gamella in più di zuppa, chi delle scarpe e dei vestiti all’incirca della propria taglia ripiegando su qualsiasi tipo di espediente; il furto era il metodo più seguito e anche il più produttivo in quanto, oltre a fornire l’oggetto necessario, poteva portare anche ad un guadagno maggiore se si fosse riusciti a scambiare la refurtiva al mercato nero interno ai Lager. Ogni campo infatti aveva una “piazza di scambio” illecita di cui tutti erano a conoscenza ma che nessuno avrebbe mai denunciato in quanto portava profitti sia agli internati sia alle guardie le quali erano ben disposte a fornire un pezzo in più di pane secco in cambio di qualche lavoro o anche di qualche oggetto prezioso che i prigionieri erano riusciti a non farsi portar via all’arrivo, molte volte ingoiandolo e poi recuperandolo dopo essere andati alle latrine, anch’esse all’aperto e ben poco coperte. Tutti erano dunque potenziali ladri e perciò ognuno doveva tenersi ben stretti i propri oggetti. Nemmeno durante la doccia si poteva far calare l’attenzione, le guardie infatti facevano denudare obbligatoriamente i prigionieri, i quali erano dunque costretti e portare gli indumenti con loro sotto la doccia poiché chiunque avrebbe potuto rubarli se lasciati incustoditi. Il risultato era quindi che all’uscita i vestiti sarebbero stati freddi e bagnati.

Si ha dunque un panorama di completo livellamento prima sul piano sociale, sui treni infatti non esistevano più i concetti di ricco, povero, notabile o inetto, e delle personalità dopo che la massa di deportati era stata scissa in una moltitudine di singoli. Per dare meglio l’idea di questo livellamento è bene portare l’attenzione ad un aspetto personale della vita di Elie Wiesel raccontato nel suo libro. Riferendosi al fatto che non erano presenti specchi nei campi, sottolinea come non vi fosse la necessità di averli in quanto “la propria immagine era riflessa sui volti degli altri” poiché era andato progressivamente a perdersi quel carattere che rende ogni individuo unico e diverso. L’autore de “La Notte” vede inoltre come l’agglomerarsi di leggi e di ordini imposti all’interno della società-lager portò ad un’assenza degli stessi nei rapporti umani fra individui, dando vita ad atteggiamenti che un giusnaturalista definirebbe propri della situazione umana pre-contrattualistica. Come nello Stato di Natura anche qui i deportati “liberi da ogni censura sociale”, come dice lo stesso Wiesel, si abbandonano ai propri istinti naturali in quanto l’unica preoccupazione è per sé stessi. Levi sottolinea la completa assenza di pietà e in “Se questo è un uomo” scrive una frase, che riporto qui di seguito, che coglie nel segno il discorso fatto finora e che introduce quello che sarà l’oggetto della riflessione del prossimo capitolo, ovvero il concetto di “colpa”.

“È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per toglierli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello di uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce”.

Auschwitz e l'individuo

COLPA, VERGOGNA E IMPOSSIBILITA’ DI FUGA

L’internato nel Lager, come abbiamo visto, è dunque in una condizione di completa solitudine e di debolezza fisica e morale che lo ha portato a essere consapevole dell’impossibilità di qualunque forma di fuga. Ai reticolati metallici e alle mitragliette delle guardie si somma infatti la desolazione del paesaggio dei dintorni del campo. È dunque diventato, come lo definisce Levi, “il prigioniero tipico”: è al limite dell’esaurimento, affamato, indebolito, coperto di piaghe, principalmente sui piedi, che lo rendono impedito e profondamente avvilito ed è conscio che non è più possibile nemmeno una ribellione. Come sostiene Levi è infatti un “uomo straccio” e, collegandosi al filosofo tedesco Karl Marx, aggiunge “Con gli stracci le rivoluzioni non si fanno nel mondo reale, ma solo in quello della retorica letteraria e cinematografica”.

Proprio in questa condizione si insinua un’altra azione dei nazisti, ovvero la “colpevolizzazione”, tema che Primo Levi tratta a fondo e vede connotato con due livelli di sviluppo, uno che trova la sua realizzazione all’interno dei Lager e l’altro dopo la liberazione. Per quanto riguarda la prima fase, è centrale il tentativo dei nazisti di spostare sulle loro stesse vittime la colpa delle loro azioni, continuando il processo di distruzione psicologica, cercando di autocolpevolizzarli per non dare loro nemmeno il “piacere” di essere innocenti. Secondo Levi, i nazisti volevano trascinare con loro, più o meno inconsciamente, i prigionieri condividendone le colpe, specialmente dal 1943, quando ormai la guerra stava prendendo una direzione che avrebbe portato nel 1945 alla sconfitta tedesca. Questa idea può trovare la sua conferma nei “Sonderkommandos”, ovvero nei gruppi formati dagli stessi prigionieri ebrei che avevano il compito di togliere gli indumenti, i denti d’oro e di tagliare i capelli ai cadaveri per portarli poi dalle camere a gas ai forni crematori. Toccante per questo ambito è la testimonianza di uno dei pochi sopravvissuti di queste squadre, che infatti venivano eliminate dopo qualche tempo per non lasciare testimoni, ovvero Shlomo Venezia autore di “Sonderkommando Auschwitz”. La seconda fase individuata da Levi comprende invece la colpa dopo la liberazione e subentra nel momento in cui l’individuo si rende consapevole di essere stato “menomato”, di aver vissuto come un animale, di essersi reso colpevole di furto anche ai danni del vicino di cuccetta o di un amico e di aver dimenticato tutte le proprie origini per sopravvivere. Questo tipo di autocolpevolizzazione per noi “spettatori” è assolutamente perdonabile, poiché conosciamo le situazioni che ebrei e tutti gli internati hanno dovuto subire nei campi, ma non possiamo comprendere gli stati d’animo che affiorarono nei giorni e negli anni dopo la liberazione, in quanto la nostra osservazione è lontana e priva di qualsiasi esperienza diretta. Sappiamo però che in molti casi i sopravvissuti scelsero il suicidio piuttosto che continuare a ricordare e dunque può sorgere la domanda: “Come mai non prima? Perché la scelta del suicidio è avvenuta una volta tornati a casa e non quando erano ancora nei campi?”. Sempre Levi ci dà la risposta. Le motivazioni di questo gesto furono le più disparate, ma il fatto che si realizzò dopo la liberazione è dato dalla sua connotazione di atto pensato; il suicidio è infatti proprio degli uomini e non degli animali e sono proprio gli uomini che hanno bisogno di tempo per pensare e nei Lager di tempo non ce n’era. Infine era nella prigionia che negli uomini veniva inserito il senso di colpa che solamente più tardi sarebbe emerso in modo preponderante.

Un’altra causa, forse la più influente, che portò in molti casi al suicidio è la vergogna. Levi ne “I Sommersi e I Salvati” attribuisce tale sentimento non solo ai sopravvissuti, ma anche a tutto il genere umano e specificatamente al popolo tedesco che nei dodici anni hitleriani si è voltato dall’altra parte omologandosi, quasi del tutto compatto, ai voleri del regime e per questo guadagnandosi l’appellativo di “massa grigia”. Il sopravvissuto dopo la liberazione, come dice lo stesso Levi, incomincia un processo di indagine di sé e degli anni passati nel degrado più totale e inevitabilmente si pone alcune domande. Una di queste domande fa riferimento alla possibilità, purtroppo reale, di essere sopravvissuto al posto di un altro, talvolta anche per caso. Non si può però escludere che, per motivazioni anche fisiche, in una selezione sia stata scelta una persona al posto di un’altra e che quest’ultima sia riuscita a vedere la libertà. A questo punto interiormente può nascere nei confronti del mondo una vergogna per la quale, una persona che non ha potuto sottrarsi alla “visione del nudo dolore e dell’inferno” e che si attribuisce la colpa di aver “soppiantato” un suo simile, si sente incapace di farsi vedere agli occhi degli altri come il portatore di questa testimonianza e inadeguato al mondo in cui vive che, una volta per tutte, gli ha sottratto la sua personalità, la sua vita e tutto ciò che era e aveva prima della prigionia.

 

L’EVOLUZIONE INTERIORE DELLA TEMATICA RELIGIOSA

Una delle questioni su cui la critica e l’opinione pubblica del dopoguerra si sono trovate maggiormente in difficoltà è la tematica religiosa. Viene infatti messa in discussione l’onnipotenza e l’infinita bontà di Dio il quale non è intervenuto a difesa delle milioni di vittime della guerra e dei campi di sterminio. Un esempio lo si può certamente trovare all’interno del testo “Il concetto di Dio dopo Auschwitz” (1987), del filosofo tedesco Hans Jonas, il quale sottolinea come l’esperienza dei Lager segni un forte spartiacque fra il “‘prima e il dopo” Olocausto. Auschwitz rientra dunque in uno degli hegeliani eventi cosmico - storici che ha inevitabilmente segnato la fine di una sezione della storia dell’uomo aprendone di conseguenza un’altra basata su una nuova metodologia di riflessione sul male. Le tesi di Jonas sono “lontane” dalle esperienze dei Lager e prendono in considerazione tematiche non derivanti da esperienze personali, come ad esempio quelle di Primo Levi, ma da una osservazione non diretta della Shoah. Jonas dimostra come sia inevitabile che l’uomo debba ormai rinunciare a una delle tre connotazioni fondamentali di Dio nella tradizione ebraica: bontà infinita, onnipotenza, comprensibilità da parte dell’uomo. Le fondamenta dell’altare divino iniziano a vacillare, questo non è più visto da molti come un rifugio e alcuni sono profondamente delusi dall’astensionismo di Dio e comincia a trapelare il dubbio della sua stessa esistenza. Lo stesso Jonas individua nella completa inconoscibilità uno dei due casi per giustificare l’eccesso di male durante la Seconda Guerra Mondiale. Questo presupposto comporterebbe però un disfacimento del Dio biblico pieno di misericordia, tenerezza e giustizia su cui non si potrebbe nemmeno discutere. L’altro caso, che diventa quindi il più valido, invece è inquadrabile nella conoscibilità di un Dio non totalmente buono che, andando a sommarsi con l’esistenza ineluttabile di un eccesso di male nel mondo, porta alla domanda, che già Epicuro si era posto: Dio, vedendo il male del mondo, può consolarlo o evitarlo ma non lo fa, oppure vorrebbe ma non può? Le strade proposte da Jonas anche in

questo caso sono due: la prima vede un Dio non totalmente buono, l’altra un Dio non totalmente onnipotente. Queste due visioni però vanno a scontrarsi di nuovo con i fondamenti della religione ebraica dando vita da una parte ad un Dio privo di bontà che cessa inevitabilmente di essere Dio e di cui non si può nemmeno parlare, dall’altra ad un Dio non-onnipotente per il quale bisogna però ammettere un qualcosa di più “alto” all’esterno di lui che lo condiziona e anche questa ipotesi è assolutamente inaccettabile per la tradizione ebraica. La conclusione a cui Jonas arriva è quindi l’accettazione di un Dio onnipotente che, proprio in quanto onnipotente, rinuncia alla propria potenza scegliendo la debolezza e consegnando nelle mani dell’umanità la responsabilità del male; l’unica soluzione per uscire da questa condizione è che l’uomo deve “fare sé stesso a immagine e somiglianza dell’infinita bontà di Dio e non della sua presunta onnipotenza”.

È interessante però analizzare anche il problema religioso vissuto e raccontato da alcuni dei sopravvissuti dei campi di sterminio le cui riflessioni hanno una più diretta corrispondenza con le emozioni, se così si possono chiamare, che gli internati provavano ogni giorno nei Lager. La prima considerazione che il lettore può estrapolare dalle memorie dei sopravvissuti scritte in anni più vicini alla Shoah è sicuramente una fortissima impulsività di alcuni, assolutamente giustificata, che può far crollare anche le fedi più forti.

 

In una personalità come Elie Wiesel ad esempio, studioso di teologia ebraica e convinto praticante, la fede vacillò nel momento in cui gli si presentarono di fronte agli occhi alcune scene terribili che ormai facevano parte della vita quotidiana nei Lager nazisti. I primi sentimenti di avversione al proprio Dio Wiesel li ha nel momento in cui vede alcuni internati ebrei recitare il Kaddìsh, la preghiera per i morti, per sé stessi, a quel punto sente dentro di sé l’inizio di un processo di ribellione verso il proprio Dio, incomincia a domandarsi per quale motivo debba ancora ringraziarlo dopo che egli taceva di fronte a tutto quello che stava accadendo. Elie è diviso interiormente: da una parte sente che quei momenti hanno ucciso il suo Dio, dall’altra a volte lo ringrazia, come quando benedice la creazione del fango nel momento in cui i soldati nazisti, con l’ordine di sequestrare tutte le scarpe nuove, non notano le sue perché ne sono coperte. Ma la fede di Wiesel crolla definitivamente a seguito dell’uccisone, per mezzo di impiccagione, di tre internati che avevano partecipato al sabotaggio della centrale elettrica di Buma; fra di loro c’era anche un bambino, un pipel, “un angelo con gli occhi azzurri”, come venivano chiamati i bambini bellissimi servitori degli Oberkapo. Al momento dell’esecuzione Wiesel sente qualcuno nella fila dietro chiedere insistentemente dove sia Dio, e dentro di sé risponde “È appeso li, a quella forca”. Dopo questo episodio si rivolge con sempre maggiore rabbia a Dio, rabbia che cresce fino ad esplodere nel momento in cui, durante la preghiera per il Rosh Hashanà, l’ultimo giorno dell’anno ebraico, nella quale si ringrazia Dio e lo si prega per un nuovo anno all’insegna della felicità, inizia a provare dolore sentendosi tradito e abbandonato e comincia a inveire contro Dio incolpandolo di aver creato le fabbriche della morte, di aver fatto bruciare migliaia di bambini, di donne e di uomini come vittime sacrificali. Si convince che l’uomo è più grande e forte di Dio e non si capacita di come ancora qualcuno possa lodarlo e ringraziarlo. Non smette di credere ma rifiuta la figura del divino come portatore di giustizia assoluta, visione propria anche di Primo Levi che dice di non poter più credere, nonostante i Lager abbiano confermato la sua laicità, nella provvidenza e nella giustizia trascendente. Sul banco degli imputati, come dice lo stesso Wiesel, ora c’è Dio in persona e non più lui che adesso ricopre il ruolo dell’accusa priva di qualunque tipo di amore o pietà ma satura di collera e vendetta. Ogni azione diventa adesso un atto contro la divinità e anche il sopravvivere stesso assume i caratteri della rivalsa.

 

 

 

 

EPILOGO

Abbiamo dunque visto come la personalità di coloro che hanno dovuto vivere e subire la drammatica esperienza dei campi di sterminio sia drasticamente cambiata. Ho scelto di trattare anche l’argomento di “Dove era Dio durante i campi di sterminio?” in quanto ritengo sia una delle tematiche più complesse nate dopo l’Olocausto, che ha segnato sicuramente uno spartiacque, come dice anche Jonas, fra il “prima” e il “dopo” Auschwitz. Voglio sottolineare come la mia argomentazione non sia assolutamente connotata da alcuna accezione polemica in quanto ritengo che una risposta che sia unica, definitiva e universale a questa domanda non possa esistere proprio per la sua difficoltà e per le dinamiche dalle quali è nata. Esistono moltissimi altri temi a mio avviso su cui è necessario riflettere, come i punti di vista di chi era “dall’altra parte”, come Adolf Eichmann, del cui processo parla Hannah Arendt ne “La Banalità del Male”. Un altro tema sicuramente molto importante riguarda il prosieguo della memoria dell’Olocausto anche dopo che non ci saranno più testimoni diretti, argomento di cui parla David Bidussa nel libro “Dopo l’ultimo Testimone” affrontando anche la questione relativa all’istituzione dei Giorni Della Memoria. Questi sono solo alcuni esempi proprio perché, come già detto, la Shoah ha sollevato numerosissime domande e questioni alle quali è impossibile trovare una risposta univoca. Concludo con l’augurio di aver suscitato interesse e riflessione in quanti leggeranno.

Evandro Balbi

Bibliografia

Primo Levi: “Se questo è un uomo” Einaudi (1958); “I Sommersi e I Salvati” Einaudi (1986)

Elie Wiesel: “La Notte” Giuntina (1980)

Hans Jonas: “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”

David Bidussa: “Dopo l’ultimo testimone” Einaudi (2009)

Shlomo Venezia: “Sonderkommando Auschwitz” Rizzoli (2007)

Hannah Arendt: “La banalità del male” Feltrinelli (1964)

Rudolf Hoss: “Comandante ad Auschwitz” Einaudi (1960)

Sitorgrafia foto:
www.pixabay.it

Bambini di Auschwitz - Wikipedia

http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/lettere-dopo-inferno-museo-dell-olocausto-gerusalemme-rende-98718.htm

Evandro Balbi
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Sara Balletto

Caporedattrice Sezione di Filosofia

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